VIII
Il telefono di Emiliano suonava a vuoto. Dopo una decina di squilli, Steno riattaccò. Provò allora a chiamare Allen, che invece rispose subito.
«Ciao Allen.»
«Ciao Steno. È domani il grande giorno?»
«Sì il giornale esce domani.»
«Non vedo l’ora di leggere.»
«Grazie ancora. Tu ed Emiliano siete stati preziosi.»
Steno aveva entrambi gli auricolari nelle orecchie e teneva le mani salde sul volante. Mentre parlava, guidava verso casa di Emiliano e Allen in via Gluck, dietro la Stazione Centrale.
«Sei a casa?»
«No, sono al Milk, il bar dove ci siamo visti ieri sera.»
«Ti chiamo perché ho ancora qualche dubbio e mi piacerebbe fare due chiacchiere. Se facciamo in fretta, magari faccio in tempo ad aggiungere alcune cose prima che si vada in stampa. Posso venire da te?» In realtà il giornale era chiuso da un pezzo.
«Certo, ti aspetto qui al bar. Non vorrei fare troppo tardi», rispose Allen.
Quando terminò la telefonata, Steno era appena entrato nel tunnel sotto piazza Gae Aulenti. La cosa che più gli piaceva dei grattacieli, che in breve erano diventati simbolo della città che cambia, era passarci sotto. Nel tunnel poteva gustarsi il rombo della Maserati, amplificato e al tempo stesso attutito dalla cassa acustica di cemento che collega la stazione Garibaldi a via Melchiorre Gioia. Sabine, rigida sul sedile del passeggero, non apriva bocca da un po’.
«Tutto bene?» le chiese.
«Volevo gli spaghetti alla chitarra», disse lei sorridendo. Steno notò che era tesa.
«Vuoi che ti lasci a una fermata della metropolitana o a una stazione di taxi?»
«Vengo con te.»
Non capita spesso di trovare via Melchiorre Gioia non trafficata. Ma quella sera, fra la neve per terra e un’amichevole dell’Italia in Tv, Milano aveva congiurato perché la strada fosse deserta. Steno vide di fronte a sé l’infilata dei semafori verdi e schiacciò sull’acceleratore. Superò velocemente la sede della Regione, all’incrocio con via Galvani. Fece il sottopasso della ferrovia, che chissà come mai si chiamava Mortirolo, come la leggendaria salita del Giro d’Italia. Via Sammartini era ormai vicinissima. Il furgone blu di Emiliano e Allen era posteggiato proprio di fronte all’ingresso del Milk, sul marciapiedi dal lato opposto della strada. Lasciò la Maserati appena più indietro, fra due cumuli di neve.
«Se vuoi aspetto in macchina», disse Sabine.
«Come preferisci.»
«Almeno potete parlare con calma. E se succede qualche casino posso chiamare la polizia», disse lei.
«Non succederà nessun casino e non dovrai chiamare la polizia», le rispose Steno. Le diede un bacio e uscì dalla macchina, lasciando le chiavi nel quadro e il motore acceso, di modo che il riscaldamento continuasse a funzionare.
«Nel caso, sai spegnere la macchina e chiudere le porte?» domandò Steno. Sabine lo guardò come si guardano gli scemi, per non essere presi da scemi.
Il Milk era vuoto. C’era solo il barista, un tizio magro e tatuato. I capelli, scolpiti dalla gelatina, sembravano il guscio di un grosso scarafaggio. Sopra alle labbra aveva due baffi a riccio, da arciduca asburgico. E c’era Allen, seduto al tavolo nell’angolo in fondo alla sala, di fronte a una birra quasi piena. Quando vide Steno avvicinarsi, Allen gli fece cenno. Steno ricambiò e si sedette dando le spalle al locale e al barista baffuto.
«Ciao bello», disse Allen. L’accento tedesco era più marcato rispetto a come Steno lo ricordava.
«Come è andata lunedì sera alla buca?» domandò Steno, fissandolo negli occhi azzurri.
Allen si ritrasse, come una biscia infastidita da un bastone. I lunghi e magrissimi avambracci, fasciati in una vecchia maglia nera ormai stinta, scivolarono via dal tavolo e si legarono al petto.
«Cosa vuoi sapere?» chiese Allen. Il tono era duro, come lo sguardo.
«Come avete ucciso Kellan Armstrong», rispose Steno.
Allen si guardò intorno. Sembrava uno studente impreparato a un’interrogazione. Il suo sguardo si perse per la stanza, per poi fissarsi sui volti incorniciati degli attivisti gay appesi alle pareti, come se potessero suggerirgli una buona risposta.
«Non ho ucciso nessuno», disse.
«È stato Emiliano», rispose Steno.
Allen accarezzò con due dita il bicchiere della birra gelata. Fece un movimento dal basso verso l’alto, di modo che le gocce d’acqua condensata gli bagnassero i polpastrelli.
«Il giornale è chiuso, ormai non ho tempo di aggiungere una riga», disse Steno per rassicurarlo.
Allen scosse lentamente la testa, guardando da qualche parte fra il pavimento e lo zoccoletto che correva a terra lungo la parete.
«Già questa mattina ho pensato di cercarti e raccontarti tutto. Ma è stato solo il pensiero di un attimo. Non ero sicuro che fosse una buona idea, e a dire il vero non lo sono nemmeno adesso. Non mi fido dei giornalisti. Anzi, ti dico la verità, non mi piacete.»
Allen si stravaccò sullo schienale e alzò finalmente lo sguardo. Appoggiò le mani al tavolino, facendo ondeggiare la birra nel bicchiere.
«Ma se sei qui, Steno, forse è destino che tu sappia tutto. Io non credo al destino, in generale. O forse un po’ sì. Però non è questo il punto. Se la storia di come sono andate le cose lunedì alla buca sarà resa pubblica, al momento giusto, per me ed Emiliano potrebbe essere utile. O comunque aiuterebbe a ricostruire la verità dei fatti, senza cazzate.»
Steno si impegnò a cancellare dal proprio volto ogni segno di impazienza. Si fissò per un attimo le mani. «Ti ascolto», disse con voce calma e controllata.
«Da dove comincio?» domandò Allen.
«Da dove vuoi.»
Decise di cominciare dall’inizio.
«Alles beginnt im Juli, tutto accade a Genova il 20 luglio 2001. Era il secondo giorno del G8 e la situazione come forse saprai non era tranquilla. Ero a due passi dalla stazione di Brignole. Avevamo appena assalito una banca. Eravamo tutti tedeschi, più due ragazzi olandesi che avevamo conosciuto mesi prima durante gli scontri di Davos. In tutto il centro di Genova, c’era fumo ovunque. Faticavamo a respirare anche con le maschere antigas. Mentre stavo correndo fra le auto ribaltate, ho visto un ragazzino per terra. Era tanto piccolo che da lontano sembrava un bambino. Aveva una maglia bianca imbrattata di sangue. Era sdraiato a pancia in giù sul marciapiedi, con due poliziotti addosso. Uno dei due lo teneva a terra, gli schiacciava il petto con uno stivale. L’altro lo prendeva a manganellate. Sapevo qual era la cosa giusta da fare. A Berlino avevamo studiato il piano d’azione. Avrei dovuto fregarmene di quel coglione pacifista, che si era fatto prendere. Cazzi suoi. Aveva sbagliato qualcosa. Ragionavo così. Credevo nell’azione pianificata. Nella guerra organizzata ai simboli del capitalismo. Quindi, sapevo che avrei dovuto correre e raggiungere gli altri, per il bene mio e della mia squadra. Il nostro compito era arrivare fino a corso Gastaldi, fare una barricata con i cassonetti dell’immondizia e incendiarla. Ma c’era quel ragazzino. La gente li chiama casi della vita. Vedo un palo d’acciaio. Forse era l’asta di un cartello mobile di divieto di sosta. Oppure poteva essere un tubo da cantiere, di quelli che si usano per fare le impalcature. Io l’ho raccolto e ho colpito al fianco uno dei due poliziotti. Proprio sotto l’ascella, dove vanno colpiti gli sbirri in assetto antisommossa. Dinge ich habe in deutschland gelernt. Vanno colpiti lì, o al collo.»
Steno pensò che faccia avrebbe fatto Scimmia a sentire quel racconto. Lui che, prima di entrare alla Mobile, ogni fine settimana per un anno aveva sopportato gli sputi e gli insulti dei tifosi allo stadio. E qualche volta anche dei manifestanti in corteo.
«Il primo sbirro è subito caduto a terra e ha iniziato a frignare. L’altro ha cominciato ad agitare in aria il manganello. Poi ha visto avanzare altri dietro di me. Allora ho finalmente visto in faccia il ragazzino, che come avrai capito era Emiliano. Aveva un occhio pesto e lividi ovunque. Piangeva. Scheise! A ogni singhiozzo il sangue che aveva in bocca lo faceva tossire, sembrava stesse soffocando. Quando ho capito che sarebbe riuscito a scappare con le sue gambe, l’ho lasciato lì e sono andato a fare il mio dovere con i cassonetti in corso Gastaldi. Dovevamo aprire una via di fuga per i ragazzi di Marsiglia, e lo abbiamo fatto come si deve.»
«Tedeschi», disse Steno.
«Esatto. Non sappiamo fare solo ascensori.»
A Steno vennero in mente un paio di battute, ma non ne fece nessuna. Si limitò ad annuire. Allen riprese la parola.
«La sera, dopo la giornata di scontri, sono andato alla sede del Social Forum allo stadio Carlini. Emiliano era lì, seduto in disparte sui gradini. Leggeva una qualche rivista italiana, ancora ammaccato dal pestaggio della polizia. Ovviamente sono stato io a riconoscerlo, dal momento che quando ci eravamo visti io ero completamente nero, compresi maschera antigas e cappuccio. Abbiamo parlato tanto quella notte. Ed è stata forse la notte più bella della mia vita. Il mio italiano non era ancora buono come adesso, anche se me la cavavo. Prima di laurearmi in Design ho studiato per tre anni Arte rinascimentale. Comunque, per farmi capire, dovevo infilare qualche parola inglese qui e là. Quella notte Emiliano mi ha raccontato che era andato in corteo con la rete Lilliput, un gruppo pacifista cattolico. Erano stati caricati prima dai carabinieri. Poi, quando il gruppo si era sciolto, era arrivato il turno della polizia che li aveva rincorsi e massacrati a uno a uno. La situazione allo stadio Carlini era paradossale. Alcuni di questi pacifisti, che io consideravo delle amebe, accusavano noi del blocco. Ci davano tutte le colpe di quello che era successo. Dicevano che era colpa nostra se la polizia li aveva caricati. Sembravano quei ragazzini picchiati dai bulli che anziché reagire se la prendono con la mamma, colpevole di avergli comprato lo zaino sbagliato per andare a scuola. Parlando con Emiliano, ho realizzato che invece almeno lui l’aveva capita. Aveva imparato la lezione. Prima di andare a dormire, ognuno nella sua tenda, mi ha chiesto di insegnargli a difendersi. Io ho sorriso, ed è in quel momento che di fatto abbiamo cominciato a stare insieme. Avevamo tutti e due diciotto anni.»
Steno capì che il racconto sarebbe durato ancora un po’. Quindi ordinò una vodka e chiamò Sabine dicendole di entrare nel bar.
«Dopo i giorni di Genova, Emiliano e io ci siamo sentiti spesso. Lui è venuto a trovarmi a Düsseldorf, io sono sceso a Milano, dove si era trasferito per studiare Filosofia prima di decidere che nella vita voleva cucinare. Ci siamo messi insieme durante l’inverno e per Natale io l’ho raggiunto qui. Piano piano, abbiamo cominciato a vivere da coppia. Negli anni abbiamo trovato la nostra routine. Lui cucina e io arredo. Lui portava fuori il cane, quando lo avevamo, e io carico il furgone quando bisogna andare in vacanza. A me del periodo del blocco nero restano un po’ di libri, una scatola piena di volantini, una placca di metallo che mi tiene insieme un’anca, qualche amico vero e tanti ricordi. Negli anni ovviamente le cose sono cambiate. Abbiamo anche smesso di andare in manifestazione. Perché va bene tutto, ma io non ci vado in corteo con i simboli della pace e le mani pitturate di bianco, a prendere manganellate senza reagire. Sarò anche cambiato, ma ho conservato la dignità. Gli unici giorni in cui scendo in piazza in Italia sono il 25 aprile e il Primo maggio. Al Gay Pride, per dire, non ho mai messo piede. Fosse per me li prenderei tutti a calci, loro e le loro bandierine.»
«Strano per uno che va in giro con Arcigay a regalare profilattici di notte», disse Steno.
«Aspetta, ci arriviamo. Nei mesi dopo Genova, io ho mantenuto il patto che avevamo fatto quella notte allo stadio Carlini di Genova. Ho insegnato a Emiliano il poco che sapevo di autodifesa e lui ci ha preso gusto. Io negli anni ho smesso di fare sport, eccetto il calcetto il mercoledì sera con alcuni colleghi. Lui invece ha continuato seriamente con la boxe. Da anni si allena tutte le mattine, ha fatto tanti incontri, è arrivato a essere una specie di aiutante per l’istruttore in palestra.»
Steno guardò l’orologio. Erano quasi le dieci, il giornale sarebbe andato in stampa quattro ore dopo. Pensò che prima o poi gli sarebbe piaciuto assistere allo spettacolo delle rotative in funzione, dei nastri trasportatori volanti, dell’impacchettamento delle copie e dei furgoni che partono verso le edicole.
«Ora, veniamo a Kellan Armstrong. O meglio, veniamo agli Spazzini. Un bel giorno, saranno stati tre mesi fa, io ed Emiliano ci siamo fermati in questo bar, dove siamo ora. Ci veniamo spesso, visto che è dietro casa. Un ragazzo sudamericano ci ha raccontato di essere stato picchiato durante la notte vicino alla stazione della metropolitana di Romolo. Poteva essere fine settembre o a inizio ottobre direi. Il ragazzo ha descritto l’aggressione e abbiamo capito subito che si trattava di un raid omofobo in piena regola. Un’azione studiata, non l’improvvisata di un gruppo di ragazzini ubriachi. Una spedizione punitiva in piena regola, come le fanno da sempre a Roma o a Istanbul. Appena siamo usciti dal bar, ho notato che Emiliano era nervoso. Siamo tornati a casa e ha cominciato a dirmi che bisognava fare qualcosa, che non si poteva restare a guardare eccetera. Io gli ho detto che bisognava semplicemente consigliare al ragazzo aggredito di chiamare la polizia, di modo che potessero studiare le immagini delle telecamere e tutto il resto. Emiliano mi ha risposto che ero diventato un vecchio, che mi ero seduto, che non ero più io, e tutte le altre cazzate che puoi immaginare. Effettivamente, se penso a me stesso quando ho conosciuto Emiliano, non mi ci vedo a chiamare la polizia. Ma la gente cambia. O quantomeno, io sono cambiato di sicuro.»
Steno scolò la vodka. Si accorse che alle sue spalle Sabine e il barista con i baffi stavano ridendo di gusto. Steno non era un tipo geloso, ma la cosa lo infastidiva, e si vedeva. Allen intervenne. «Non ti preoccupare, il barista è più gay di me», disse. Poi continuò a raccontare. «Va a finire che parliamo tutta la notte del ragazzo picchiato a Romolo. Emiliano cerca di convincermi che dobbiamo organizzare un gruppo di Racheengel, di vendicatori. Ich muss lachen, mi viene da ridere. Gli faccio presente che abbiamo ormai trentacinque anni passati. E soprattutto che non è facile indovinare dove sarà picchiato il prossimo gay, in una città di un milione di abitanti. Ma almeno su questo devo ammettere che mi sbagliavo. Dopo un paio di settimane, infatti, qui al Milk arriva un altro ragazzo che è stato picchiato. Questa volta a Pagano, sempre in una serata di cruising. E viene fuori che un altro pestaggio c’è stato proprio in via Sammartini la settimana prima. Per la prima volta, sentiamo parlare degli Spazzini. E dai racconti delle vittime capiamo che gli aggressori usano le chat di incontri per sapere dove e quando ci sono le serate. Emiliano insiste. Mi dice che secondo lui ci basta frequentare alcune chat, una soprattutto, per capire dove colpiranno gli Spazzini.»
«Allora, vi inventate la cosa del banchetto arcobaleno per dare i profilattici di notte», suggerisce Steno.
«Esatto. L’idea è quella del blocco nero. Mimetismo e organizzazione. Ci dobbiamo confondere con chi frequenta le serate ed essere pronti ad agire. Raduniamo alcuni ragazzi della palestra dove si allena Emiliano, che non sono per niente gay, e spieghiamo come funziona il servizio d’ordine. Acconsentono in due. L’idea è semplice: se saltano fuori questi Spazzini con i loro manganelli, noi gli facciamo passare la voglia. Non è un piano particolarmente raffinato. Decidiamo di inventarci una copertura, che ci consenta di essere presenti a tutte le serate di cruising senza risultare sospetti. A me viene in mente l’idea dell’Unità mobile. Contattiamo Arcigay e ci facciamo dare tutto il materiale, dalle bandiere arcobaleno ai volantini sull’Hiv. Allestiamo il nostro banchetto, e cominciamo a frequentare le serate. Da un lato, distribuiamo davvero profilattici e buoni consigli. Dall’altro, siamo in zona casomai dovessero arrivare gli Spazzini. I due ragazzi della palestra di Emiliano si tengono a distanza di telefonata, in modo da poter arrivare in caso di emergenza. Comunque. Ci diamo questa organizzazione. Al banchetto stiamo solo io ed Emiliano. I ragazzi della palestra fanno da riserva. Da seconda linea, diciamo. Andiamo con il nostro furgone a diverse serate, quelle in cui c’è più gente, ma gli Spazzini non si fanno vedere. Tanto che dopo qualche settimana congediamo i ragazzi della palestra di Emiliano, stanchi di passare le serate in macchina aspettando la nostra telefonata che non arriva. Poi, la nevicata. E con la neve, le serate di cruising sembrano sparire. Fino a quando qualcuno nelle chat online convoca per lunedì scorso alla buca la Christmas cruising night. Una cosa esotica e in grande stile. In pratica si tratta di trombare sotto la neve, per farla breve.»
«E gli Spazzini questa volta si fanno vedere», disse Steno.
«Warte mal, aspetta, ci siamo quasi. Noi andiamo lì con il nostro banchetto e ci sistemiamo sopra alla buca, di fianco al furgoncino abbandonato delle angurie. Siamo solo io ed Emiliano, senza i pugili. Iniziano ad arrivare tanti uomini, soprattutto sopra i cinquant’anni, qualche giovane, la solita gente che c’è a quel tipo di serata. Visto che tutto procede tranquillamente, verso l’una e mezza sbaracchiamo il banchetto e sistemiamo la roba nel furgone. Ci spostiamo nel parcheggio della Triennale e ci mettiamo a mangiare al baracchino vicino all’Old Fashion. Siamo lì con i nostri panini, quando a un certo punto vediamo alcuni ragazzi correre verso di noi dalla direzione della buca. Sono spaventati. Non ci vuole un genio per capire che lì sotto sta succedendo qualcosa. Scheise. Ci avviciniamo tranquillamente, come se stessimo facendo due passi. Camminando, ci copriamo il volto con sciarpe e cappucci. Emiliano si mette un paio di guanti da moto, di quelli con le nocche riparate da placche di carbonio. Glieli ho regalati io qualche Natale fa.»
Steno capì che stava per cominciare l’azione e volle arrivare preparato. Cercò di bere un ultimo piccolissimo sorso di vodka, ma non c’era quasi più nulla.
«Ci incamminiamo fra gli alberi e guardiamo verso il fondo della buca. Notiamo del movimento ed Emiliano scatta. Corre giù come un cane da caccia dietro una volpe. Io gli vado dietro, stando attento a non sprofondare nella neve. Quando arrivo al fondo della buca Emiliano ha già fatto il suo dovere. Gli Spazzini hanno avuto quello che meritavano. Vedo due ragazzi che si contorcono, doloranti e lamentosi. Uno invece è per terra e non si muove. Proviamo a rianimarlo. Perde molto sangue. Emiliano gli toglie il passamontagna e vediamo che ha una ferita sulla nuca. Io vorrei chiamare un’ambulanza, ma Emiliano mi dice che non c’è tempo. Dice che con ogni probabilità il ragazzo sta per morire. Allora decidiamo di portarlo noi in ospedale. Ovviamente escludiamo di usare il nostro furgone. Decidiamo di farci prestare il fuoristrada da un elegantone, che per sua sfortuna arriva proprio in quel momento alla buca. Lo vediamo da giù. È lì imbambolato sopra al ponte della ferrovia, pronto a scendere sotto e a succhiare qualche uccello. Ma si sbaglia, non ci sono uccelli da succhiare, ci siamo solo io ed Emiliano, con le sciarpe tirate su in faccia, che trasciniamo il corpo di un ragazzo moribondo. Quando lo vediamo da vicino, lo riconosciamo. Lo abbiamo già visto. Lo chiamano il torinese, non si perde una serata che sia una. Io mi nascondo dietro un albero. Emiliano mi dice di stare zitto e di aspettare lì. Con il mio Deutschen Akzent, sarei troppo riconoscibile. Lui sale dal torinese e gli spiega che ci serve il suo fuoristrada. All’inizio fa un po’ di storie, ma poi lo convince. Prendiamo la macchina, sistemiamo il ragazzo ferito sul sedile dietro, e lo lasciamo vicino all’ospedale Fatebenefratelli. Non volevamo che morisse. Semplice, no?»
Allen si esprimeva con il tono che avrebbe usato presentando in azienda i risultati di vendita dell’ultimo semestre. Steno notò che dall’inizio del racconto non aveva detto parolacce, o quasi. Solo Scheise. Ordinarono un altro giro. Steno capì che ora sarebbe toccato ad Allen fare domande.
«Come hai capito che siamo stati noi?» chiese a Steno.
«Tante cose. Quello che mi ha aiutato a mettere insieme i pezzi è stato il libro che hai regalato a Emiliano. Quello con Nadal e Julia Roberts in copertina. L’ho visto ieri sera a casa vostra sul tavolino in sala quando sono venuto a cena. Non ero riuscito a leggere il titolo, visto che era coperto dal tuo Post-it di dedica. Poi ho visto lo stesso libro in una libreria, il titolo era Il lato forte. Storie di cento grandi mancini. Ho realizzato che se lo avevi regalato a Emiliano è perché lui deve essere mancino. Un particolare che a tavola non avevo notato. E tutto nella mia testa è andato in ordine.»
Allen con un gesto della mano fece segno a Steno di stare zitto un attimo. Alle sue spalle, il barista baffuto stava infatti portando il vassoio con sopra la birra media e la vodka.
«Kellan Armstrong è stato colpito alla parte destra del volto, come dice il referto medico. I suoi due amici sono cascati a terra con un pugno al fianco. E c’è da giurare che fosse il fianco destro, visto che da quella parte c’è il fegato. Ho pensato che con ogni probabilità, quindi, chi ha colpito doveva essere mancino.»
«I mancini sono tanti», rispose Allen.
«Sì, ma poi c’era il furgone. L’uomo con la cerata, quello che mi ha consigliato di parlare con te ed Emiliano credendovi attivisti di Arcigay, mi ha detto che da qualche mese nelle serate di cruising si vedeva un furgone blu. Quando ho saputo che da due o tre mesi erano cominciati i pestaggi degli Spazzini, ho pensato che le due cose dovessero essere collegate. All’inizio mi ero fatto l’idea che fossero gli spazzini a muoversi con il furgone blu. Poi, dopo la rivelazione del libro dei mancini, ho capito che invece quel furgone dava loro la caccia.»
Allen bevve un lungo sorso di birra. Steno scolò la vodka tutta d’un fiato, poi continuò a parlare concitato.
«Un altro elemento che mi ha convinto è la descrizione fisica dell’assassino. Sembrava corrispondere a quella dell’uomo in cerata, ma calzava perfettamente anche per Emiliano. Certo, se visti in maglietta i due non si somigliano per niente. Tondo e flaccido uno, magro e atletico l’altro. Ma l’altezza è la stessa, e con un giaccone addosso è facile confonderli. Poi c’è un particolare del racconto dello studente di Warwick che mi ha colpito, e che tu ora mi hai appena confermato. Cioè il fatto che l’uomo che aveva picchiato gli spazzini avesse chiesto al secondo uomo arrivato sulla scena di non parlare per non essere riconosciuto. Doveva trattarsi di qualcuno con una voce molto riconoscibile. Ad esempio, di uno straniero con un accento marcato. Cioè tu.»
Allen accennò un applauso. Steno reagì con un’espressione soddisfatta, come un bambino degli anni Ottanta che ha appena finito un videogame in sala giochi usando un solo gettone.
«Infine c’era il poster di Gandhi con la scritta in tedesco. Ma quello l’ho capito solo all’ultimo, perché io non conosco la lingua. Me lo ha tradotto la mia amica là dietro, quella che parla con il barista al bancone. C’era scritto tipo che Gandhi non si era difeso, giusto?»
Allen sorrise e iniziò a giocherellare con il bicchiere della birra.
«La frase stampata sul poster viene da una vecchia campagna di propaganda Black Bloc. L’hanno inventata in Oregon, negli Stati Uniti, negli anni Novanta. Usa l’immagine di Gandhi per criticare la non-violenza e trasmettere il concetto che devi difenderti. L’originale penso sia Gandhi is dead. Support your local Black Bloc. Se vuoi, quel poster te lo regalo. Non credo mi servirà più. Questa mattina Emiliano è partito. Diciamo che per un po’ non si farà vedere a Milano. Diciamo pure per un po’ tanto. Io dovrei raggiungerlo domani mattina, sempre che tu non voglia denunciarmi prima. Oppure, scrivere di me ed Emiliano nel tuo articolo», disse Allen.
Steno si fermò un attimo a pensare.
«Ormai le pagine del giornale sono chiuse. E io la mattina mi sveglio abbastanza tardi. Sul sito web del giornale sarà pubblicata solo una sintesi dell’articolo stampato sulla carta. Per il resto, vale la promessa che vi ho fatto quando ci siamo conosciuti: non scriverò il tuo nome sul giornale, almeno che non sia tu a chiedermelo. Certo, le cose nel frattempo sono un po’ cambiate, ma un accordo resta un accordo. E ovviamente vale anche per Emiliano», disse Steno. Alle sue spalle, Sabine si stava davvero sbellicando dalle risate. Steno tornò a essere geloso del barista con i baffi. «Ma perché scappate? E perché proprio adesso?» chiese Steno.
«Come tu sei arrivato a noi, presto ci arriverà anche la polizia. Anzi, mi stupisce che non si siano ancora fatti vivi. Fra analisi del dna, telefoni e testimoni, non penso che ci metteranno tanto a trovarci. Mettici anche i due pugili della palestra di Emiliano, quelli che avevamo ingaggiato per darci una mano. Non sono particolarmente svegli, ma quando la notizia della morte di Kellan sarà pubblica non faranno fatica a ricollegare l’omicidio a noi. Ci conviene cambiare aria. Poi magari ci prenderanno lo stesso e amen. Oppure, trattandosi del figlio del console americano, ci farà fuori la Cia. Dico sul serio, ci ho pensato. Diciamo che non siamo stati fortunati. Fra tutti gli stronzi omofobi che potevamo ammazzare, abbiamo scelto quello sbagliato.»
«Quando siete arrivati alla buca, Kellan cosa stava facendo?» domandò Steno.
«Era lì con il passamontagna e il manganello.»
«Questo lo so. Ma dico, stava picchiando qualcuno oppure era semplicemente lì fermo?»
«Non ne ho idea. Sono arrivato dopo, te l’ho detto. Per primo è sceso Emiliano. Quando l’ho raggiunto, Kellan era già per terra. Comunque se uno va in giro con un manganello in tasca e il passamontagna in testa, a casa mia se la sta andando a cercare.»
Steno pensò che non faceva una piega.
«Cosa mi stavi dicendo della Cia?» domandò.
«Dico che magari, oltre alla polizia italiana, può essere che ci cercheranno anche gli americani. Magari quello che dico è stupido e irrazionale. Magari è una paranoia da vecchio anarchico. Come quando toglievamo le batterie ai cellulari per non farci localizzare. O come quando non facevamo mai due volte la stessa strada durante i sopralluoghi nelle città in cui progettavamo azioni, sicuri di essere pedinati. Ma non si sa mai. Io se fossi il console americano farei di tutto perché fossero trovati e puniti gli assassini di mio figlio. Non mi è facile pensare a me ed Emiliano come a due assassini, ma in questo momento è quello che siamo.»
Steno avrebbe voluto rassicurare Allen sul fatto che, secondo lui, Liam Armstrong non era il tipo da fare ammazzare nessuno. Poi ci pensò meglio e decise di tacere. La verità è che non aveva idea di cosa avrebbe fatto Armstrong.
«È per questo che ho deciso di raccontarti tutta la storia. Come ti dicevo, già questa mattina mi è venuta una mezza idea di chiamarti e chiederti di vederci. Non so se possa davvero servire a qualcosa, ma almeno se ci faranno ammazzare potrai raccontare come sono andate le cose. Anzi, non c’è bisogno che ci ammazzino. Se nei prossimi giorni la polizia farà i nostri nomi, pubblica pure questa chiacchierata come intervista. Sarà la nostra assicurazione sulla vita. O quantomeno, sarà un modo per mettere i puntini sulle i, come dite in Italia. Voglio che sia chiaro come sono andate le cose. Kellan Armstrong era armato e aveva preso parte a una spedizione punitiva. Questa è la storia.»
Steno guardò bicchierino di vodka vuoto, concentrato come se sul fondo stessero proiettando una partita di tennis. «L’ultima cosa. Che fine ha fatto la Lada Niva? Il fuoristrada del torinese, dico.»
«Dopo avere lasciato Kellan al Fatebenefratelli, siamo andati fra i prati in via San Dionigi, dopo Corvetto, verso Chiaravalle. Abbiamo lasciato la macchina aperta con le chiavi dentro di fronte a un campo rom. Forse a quest’ora sarà in Romania.»
Steno pensò che lui, al loro posto, l’avrebbe bruciata. Poi si corresse da solo. Bruciarla era il modo migliore per farla trovare alla polizia.
«È un vero peccato che una macchina così finisca in Romania», disse Steno.
«Ho detto in Romania, ma non ho idea di dove sia finita.»
«È un peccato comunque», concluse Steno sconsolato, pensando al fuoristrada nero.
Allen lasciò sul tavolo abbastanza soldi per pagare le birre e le vodke. Restava anche qualche euro di mancia.
«Per l’intervista preferirei che tu non pubblicassi foto. Se proprio devi metterne una, e solo se la polizia avrà già diffuso le nostre immagini, prendila dai social network. Fallo subito però, perché da domani conto di chiudere tutti i miei profili e sparire dalla Rete.»
«Ok», disse Steno. E provò a immaginare come avrebbero reagito la Tajani, il questore e soprattutto Scimmia se avessero saputo che lui era conoscenza della fuga degli assassini di Kellan. E che aveva addirittura intervistato uno dei due omicidi in fuga. Ma non era il momento per pensarci. Quello era il momento per dare l’addio ad Allen, recuperare Sabine al bancone del bar e andare a mangiare qualcosa. Ovviamente la parte più complicata del piano fu convincere Sabine a lasciare il suo nuovo amico. La ragazza e il barista si abbracciarono, e fissandosi negli occhi si promisero che si sarebbero rivisti presto. Steno e Allen attesero sulla porta la fine di quel lungo arrivederci, poi i tre uscirono insieme. Una volta per strada, Allen finalmente si presentò a Sabine. Poi attraversò la strada e salì sul furgone blu. Steno accese una sigaretta e in silenzio guardò il vecchio camioncino allontanarsi lentamente sull’asfalto innevato, fino a sparire in fondo a via Sammartini.
«Secondo me facciamo ancora in tempo ad andare al ristorante», disse Sabine.
«Secondo me invece facciamo in tempo a mangiarci un club sandwich in albergo», rispose Steno.
«Che palle», disse Sabine. Poi ci ripensò e corresse il tiro. «Se ce lo portano in stanza, anche il club sandwich per me è ok», concluse.
Abbracciati, Steno e Sabine camminarono fino alla Maserati che li aspettava fra i due cumuli di neve, paziente e scura, come la notte.