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Il pubblico ministero Maria Cristina Tajani, come ogni mattina, si levò dal letto prima del suono della sveglia. Non tanto, appena cinque minuti. Quanto bastava per alzarsi di soprassalto, nel timore di essere in ritardo. Come tutto nella casa della Tajani, anche la sveglia era vecchia, grossa e appariscente. Un orologio di latta laccata di rosso, con il quadrante grande come un piatto, caricato a molla e sormontato da due campanelli cromati.
La Tajani guardò la posizione delle lancette, realizzò che erano le sette meno cinque, mugugnò qualcosa e andò a preparare la solita colazione. Una tazza di caffè nero senza zucchero, due fette biscottate, una meringa, che mangiò al volo prima di entrare in bagno, dove fra doccia, creme, profumi e trucco passò quasi un’ora, come sempre. Suo marito intanto, come ogni mattina da vent’anni, dormiva sul divano letto in studio, e non si sarebbe alzato prima di mezzogiorno. Un pettegolo, o uno stupido, avrebbe detto che la Tajani e suo marito erano separati in casa. Non era affatto così. Semplicemente, lui lavorava di notte. Titolare e amministratore della tipografia Graphidea di via Fara, che aveva uno stabilimento a Paderno Dugnano. La stessa che stampava «La Notte». Se solo la Tajani e suo marito avessero parlato di lavoro il giorno prima, lei gli avrebbe potuto chiedere di tenerle da parte una copia del giornale, evitandole la passeggiata fino all’edicola. Ma la Tajani e suo marito non parlavano quasi mai di lavoro. Anzi, a dire il vero parlavano poco in generale. Il solito stupido pettegolo avrebbe detto che non avevano più nulla da dirsi, dopo quasi quarant’anni di matrimonio. Ma nemmeno questo era vero. Semplicemente, da ormai tanto tempo, avevano cominciato a parlarsi con dei bigliettini, che la Tajani lasciava al marito prima di uscire di casa. E che lui, appena sveglio, cercava impaziente, frugando nelle tasche dell’abito appeso in anticamera. Non che non si parlassero del tutto. Qualcosa si dicevano, a tavola la sera o nei rari momenti in cui potevano stare insieme per una giornata intera. Ma il filo del loro discorso, ininterrotto da quando si erano conosciuti diciassettenni in spiaggia a Sanremo, erano i biglietti.
Dopo essersi profumata a dovere, la Tajani uscì finalmente dal suo grande e luminosissimo bagno. Guardò l’orologio, erano le otto e mezza. Prese il blocco di foglietti che teneva sul tavolino di fianco al telefono e scrisse: «Ieri sera la piccola Camilla ha detto che hai pochissimi capelli. Le ho risposto che ne hai solo ventiquattro. A quel punto, ci siamo messe insieme a contare. In pratica, grazie alla tua crapa pelata, la bambina sta imparando i numeri! Un bacio, buona giornata». Staccò il pezzo di carta, lo piegò in quattro e lo lasciò scivolare nella tasca dell’abito grigio del marito, appeso vicino all’ingresso, stirato e impeccabile come sempre, pronto per essere indossato.
La Tajani uscì dall’appartamento, prese l’ascensore, si osservò nello specchio per tutto il tragitto e una volta arrivata al pianoterra recitò il suo mantra. «Buon Dio, fai che oggi io non mi incazzi più del necessario.» Uscì dal portoncino, camminò lentamente lungo via Donizetti, superò l’incrocio con via Corridoni e svoltò a sinistra in via Pompeo Leoni. Non era la strada più breve, ma le permetteva di passare di fronte al Coin, dove dalla porta automatica usciva a sbuffi l’effluvio dolce e confuso della profumeria. Quell’aroma alla Tajani piaceva più di ogni cosa. Attraversò piazza Cinque Giornate, passò di fronte alla statua di Giuseppe Grandi e arrivò all’edicola.
«“Vogue” e “La Notte»”, disse, senza saluti, preamboli.
«Buongiorno», le rispose l’edicolante.
La Tajani non replicò. Non le piaceva l’edicolante, né le piacevano le edicole in generale. Detestava l’odore della carta stampata e della plastica da imballaggio almeno quanto amava i profumi. Lasciò i soldi contati sul piattino, prese i due giornali, si guardò intorno per trovare una panchina su cui sedersi e leggere. Ma le panchine negli anni erano state fatte sparire, per paura che ci dormissero i barboni. La Tajani ripiegò allora sui gradini di pietra fredda di uno dei due caselli daziari che sorvegliano la piazza. Si sedette, mise la copia di «Vogue» in borsa e prese in mano «La Notte».
La testata del giornale era scritta in giallo, su fondo nero. «La Notte.» Più sotto: «Storie, delitti, misteri. A Milano e non solo». Di fianco, un bollino bianco con scritto in rosso: «Solo 90 centesimi». In copertina campeggiava una foto di Kellan Armstrong. Era l’immagine del suo profilo Facebook. Una faccia bella, giovane, sorridente. Il grafico del giornale aveva scontornato il ritratto del ragazzo sullo sfondo nero.
La Tajani, che quella foto di Kellan la teneva sulla scrivania da giorni, per una volta di più si sforzò di guardarla, come per cercare negli occhi del ragazzo qualcosa che potesse aiutarla a risolvere il caso. Un bagliore, un difetto, un rumore. Ancora una volta, però, in quegli occhi non trovò altro che gioia e giovinezza. Di fianco al volto del ragazzo, il titolo era: «Il giallo della morte di Kellan Armstrong». Sotto, su due righe: «Il diciannovenne figlio del console americano ucciso in un luogo di incontri gay».
Sulla sinistra, sotto la testata del giornale, c’era un’infilata di fotografie. Un ritratto a mezzobusto del console, un’immagine notturna della polizia al lavoro nella buca scattata da Sabine, una foto generica di un giovane con in testa un passamontagna nero, infine un ritratto della pm Tajani. Ogni foto aveva una sua didascalia. Sotto quella della Tajani, vecchia di qualche anno, c’era scritto «Indaga sul caso la pm Tajani, mastino dell’antidroga». La Tajani, seduta sul gradino del casello daziario, fissò a lungo la propria foto. Poi si concentrò sulla didascalia. Mastino. Bah. Sopra al colonnino delle fotografie, un bollino rosso portava l’indicazione «Dieci pagine di approfondimento sul delitto dell’anno!»
La Tajani cominciò a sfogliare il giornale. C’erano speciali sugli incontri gay, un ritratto di Kellan, uno di suo padre, due pagine illustrate con gli orari e i luoghi dei fatti. La pm constatò che era tutto più o meno corretto. I toni, le immagini e soprattutto i titoli non erano esattamente da libro Cuore. Era tutto un «atroce», «sconvolgente», «misterioso». La Tajani diede una scorsa a tutto, poi si concentrò sul servizio principale, firmato da Steno Molteni.
Aveva 19 anni, la passione della tavola da sci e in tasca il tesserino della Bocconi. Ora il suo cadavere è congelato in uno dei cassetti di conservazione dell’obitorio. Kellan Armstrong, figlio del console americano a Milano, è stato ucciso nella notte fra lunedì e martedì. L’omicidio è avvenuto alla «buca» di fronte alla Triennale, sotto la massicciata dei binari delle ferrovie Nord, luogo di incontri libertini per la comunità omosessuale milanese. Secondo la dinamica ricostruita dagli uomini della Squadra Mobile, coordinati dalla pm Maria Cristina Tajani, Kellan sarebbe stato colpito da un pugno al volto, sarebbe caduto per terra e avrebbe picchiato la testa contro una grossa pietra. Ancora ignoto l’autore dell’omicidio. E resta da chiarire anche il motivo per cui Kellan, in piena notte, si trovasse alla buca. Sull’omicidio si stende in ogni caso l’ombra dell’omofobia, vale a dire dell’odio per i gay.
Secondo quanto accertato dagli investigatori, al momento della morte Kellan era in compagnia di due suoi amici. Ragazzi della cosiddetta Milano bene, che con il nome di «Spazzini» passavano le notti ad aggredire giovani gay nei più frequentati luoghi di incontro. Kellan, così come i suoi amici, indossava un passamontagna e brandiva un micidiale manganello telescopico. La famiglia Armstrong però sostiene che il giovane non fosse lì per picchiare i gay, ma anzi per impedire che i suoi amici potessero compiere gesti violenti. A dimostrare questa teoria, che Questura e Procura ritengono attendibile, sarebbe un biglietto trovato dalla madre nella tasca dei jeans di Kellan dopo la morte, in cui il ragazzo scrive: «William Braghieri e Marco Del Cantone, con il nome di Spazzini, si sono resi responsabili di numerose aggressioni a gay negli ultimi mesi. Bisogna fermarli». Apparentemente, una denuncia mai presentata. O comunque un messaggio che Kellan voleva che arrivasse a qualcuno. I genitori del ragazzo ucciso, Liam e Carlotta Armstrong, parlano del figlio come di «un ragazzo buono e gentile», ritratto confermato dalla ragazza del morto e da chi gli voleva bene. Il console, in particolare, si dice «disperato, ma orgoglioso di quello che voleva fare mio figlio».
Tornando alla dinamica dei fatti, per come è stata accertata, la testimonianza principale è quella di un giovane italiano, studente universitario in Inghilterra. Il ragazzo riferisce agli inquirenti che lunedì si trovava alla buca, assieme al suo ragazzo. Si stavano baciando fra gli alberi quando di colpo due giovani, poi identificati negli amici di Kellan, sono usciti dall’ombra e hanno iniziato a picchiare. «Avevano in testa i passamontagna e ci colpivano con i manganelli», riferisce lo studente. Kellan sarebbe stato invece fermo, come impietrito. A un certo punto, dagli alberi sarebbe saltato fuori un misterioso uomo in mantella, con il volto coperto. L’uomo avrebbe steso a pugni gli amici di Kellan e poi lo stesso Kellan che, picchiando la testa contro il sasso, avrebbe cominciato a sanguinare. Sempre secondo il racconto dello studente, sarebbe stato l’uomo in mantella, con l’aiuto di un complice, a portare via Kellan ferito. Il corpo del ragazzo, moribondo, è stato lasciato da un’auto vicino all’ospedale Fatebenefratelli. Ma invano. Kellan Armstrong si è spento poco dopo le cinque di martedì.
Le indagini mirano ora a capire chi sia l’uomo che ha ucciso Kellan. Intanto, gli amici del figlio del console potrebbero essere indagati con l’accusa di lesioni aggravate. Secondo quanto ricostruito dalla Procura, i due ragazzi sarebbero infatti responsabili di una serie di altre aggressioni a danno di gay avvenute nelle scorse settimane in luoghi di incontro per omosessuali, come il parcheggio di Pagano e quello della stazione Romolo della metropolitana.
La pm Tajani notò che, anzitutto, Steno aveva fatto sparire dal racconto il torinese a cui era stata rubata l’auto. Evidentemente, non voleva rovinargli il rapporto con la moglie e il figlio almeno fino al processo, dove inevitabilmente la storia sarebbe venuta fuori. Notò anche che Steno, che pure non credeva alla storia del bigliettino trovato in tasca a Kellan, alla fine aveva correttamente scritto che la famiglia e gli investigatori lo ritenevano veritiero. Era il suo mestiere. Faceva il cronista, non l’opinionista.
La Tajani, seduta sul gradino di granito gelido, si accorse che la neve per strada iniziava a sporcarsi, in alcuni punti addirittura a sciogliersi. Realizzò che erano diverse ore che non nevicava, e rispetto all’ultima settimana era davvero un record. Pensando questo, alzò gli occhi al cielo. Proprio in quel momento, come un sipario, due grosse nuvole si spostarono e finalmente dopo tanti giorni Milano tornò a vedere il sole. I raggi illuminarono i marciapiedi bagnati, i cumuli di neve ingrigita, le rotaie del tram bagnate e i parabrezza delle auto. Alla fermata del 9 un pazzo, o forse semplicemente un anziano, urlò: «Il sole!» Alcuni ragazzi cominciarono ad applaudire quel fascio di luce inatteso, che di colpo aveva acceso i colori delle auto, delle sciarpe, dei cartelloni pubblicitari. Tutti alzarono gli occhi al cielo, come se stessero assistendo alle acrobazie di un aeroplano. Ma l’estasi durò appena un attimo. Una nuvola scura inghiottì di nuovo il sole, assorbendo i raggi e la loro fragile promessa di tepore.
Dalla direzione di Porta Venezia, quindi da est, soffiò una folata di vento glaciale. La Tajani incassò la testa fra le spalle, nel tentativo di ripararsi. Infilò il giornale in borsa, si alzò e si incamminò lentamente verso il Palazzo di Giustizia. Affondò le mani nella tasca della pelliccia bianca che aveva addosso. Nella destra c’era un bigliettino. La grafia, ovviamente, era quella di suo marito. C’era scritto: «Ciao, vecchio mastino». Il vantaggio dello stampatore, anche nell’era del web, è poter leggere i giornali qualche ora prima degli altri.