IV

 

 

 

 

 

 

 

Steno uscì dall’albergo e fu investito da aria gelida e neve. Ebbe l’impressione di essere sul ponte di una nave nel mezzo di una tempesta al polo. Il vento scuoteva la massa biancastra dei fiocchi in modo irregolare, senza direzione. Tener aperto l’ombrello era del tutto inutile. Il vento gonfiava la tela come una vela, mentre le folate di neve lo colpivano da ogni parte, come i pugni a gragnuola di un aggressore maldestro. Steno chiuse l’ombrello e agganciò il manico al gomito. Alzò il bavero del cappotto e infilò in tasca le mani, nonostante avesse i guanti. Sul fondo della tasca riuscì a sentire con le dita la sagoma del portachiavi d’acciaio. Era grosso e pesante. Il tridente simbolo della Maserati. Sorrise e accelerò.

Steno passò veloce davanti al teatro Strehler, già decorato con luci natalizie. Voltò a sinistra sul marciapiedi e cominciò a camminare verso largo Cairoli, schivando passeggini coperti da teli di plastica, anziane con scarponi di pelo e ragazzini che si lanciavano palle di neve da una parte all’altra della strada.

 

Prima ancora di riuscire a vedere l’auto parcheggiata, sentì un vocione uscire dal fagotto di coperte e sacchi a pelo ammassato sul gradino di fronte alla vetrina della banca: «Eccolo!»

«Alberto!» rispose Steno, e si rannicchiò sulle gambe in modo da portare i propri occhi all’altezza di quelli dell’amico, steso sui cartoni.

«Scusa se mi sono allontanato questa mattina, ma sono andato a farmi una doccia al centro del Comune. A mezzogiorno ero di nuovo qui a fare la guardia», disse Alberto. Steno notò che si stava facendo crescere la barba. Una barba bianca, piena e dall’aspetto soffice. Una cosa inusuale visto che, da quando lo conosceva, Alberto ogni mattina andava a sbarbarsi nel bagno di un bar di piazza Cadorna. Dopo la toilette, si sedeva al tavolino d’angolo e aspettava che gli fossero serviti cappuccino e brioche.

«Cosa fai, il barbone?» chiese Steno, e si passò la mano sulla propria guancia, onde l’amico comprendesse a cosa si riferiva. In tanti mesi Steno non aveva ancora capito se si poteva scherzare sul fatto che Alberto era un barbone, o se poteva farlo solo lui. Quindi, nel dubbio, ci andava cauto.

«Si avvicina il Natale. Se somigli a Babbo Natale, i bambini si fermano a guardarti e le mamme sono costrette a tirare fuori il portafogli. Non ci avevo mai pensato, l’ho letto in un libro di Carlo Verdelli. Sto provando e funziona», fece Alberto esibendo la smorfia scaltra del televenditore.

«Che paraculo», rispose Steno. Entrambi si misero a ridere.

 

La vecchia Maserati Ghibli nera era posteggiata di fronte al gradino che Alberto aveva scelto come letto per quella notte, oltre al marciapiedi e a una fila di alberi, tra un furgoncino bianco e una Panda. Sul lungo lunotto di vetro non si era depositato che qualche fiocco di neve, segno che Alberto lo aveva pulito in anticipo.

«Che bella macchina», disse soddisfatto Alberto.

Steno gli sorrise. E vedendolo così, steso sul cartone bagnato, gli venne in mente l’immagine di un barbone morto di freddo un paio di notti prima. La avevano diffusa i volontari del 118, per mettere in guardia sul rischio di altre morti. Pensò per un attimo se parlare o no, e alla fine parlò, pur sapendo che sarebbe stato inutile. «Alberto te l’ho già detto tante volte», esordì Steno, cauto, «almeno in queste notti che si gela, sarebbe meglio che tu dormissi in macchina. Le chiavi le hai. Guarda che con questo freddo è pericoloso dormire per strada. È inutile che ti spieghi il perché, li leggi anche tu i giornali.»

Era una guerra persa. Anche il signor Barzini, nei giorni precedenti, aveva insistito con Alberto perché quantomeno nelle notti più fredde dormisse in una piccola stanza riscaldata al pianoterra. Era una sorta di androne, di fianco al locale della caldaia, che in hotel veniva usato come magazzino della lavanderia. Il signor Barzini aveva già sistemato una branda pieghevole fra i cesti delle lenzuola. Ma Alberto non l’aveva nemmeno voluta considerare. Si era limitato a sorridere e stringere forte la mano al signor Barzini, in segno di ringraziamento e rifiuto.

«Sto bene per strada», disse Alberto a Steno, che gli stava di fronte in piedi e lo sovrastava. «Questa giacca è di Gore-Tex, non è una schifezza da cinquanta euro come quella rossa che avevi tu l’altro giorno. Ho anche la calzamaglia in microfibra. E comunque, di freddo muoiono solo gli ubriaconi.» Poi aggiunse: «A proposito, Steno. Se devi parlare con qualcuno, mangia prima una mentina. Puzzi di alcol. Dovresti bere meno».

Che fosse Scimmia a dirgli che aveva bevuto troppo, passi. Ma sentirsi dare dell’ubriaco da un barbone era davvero troppo. Dunque aveva varcato il limite di guardia: meglio darsi una regolata e uscire un po’ meno la sera.

 

Steno appoggiò la mano guantata alla maniglia cromata lucida. Aprì la portiera e si sedette sul sedile di pelle chiara. Infilò le chiavi nel quadro, le ruotò di un quarto di giro e gli otto cilindri, perfettamente sincronizzati, cominciarono a suonare. Come un’orchestra. Come l’acqua di una grande cascata. Quattromilasettecentodiciannove centimetri cubici di melodia.

Agganciò la cintura di sicurezza al fermo e impugnò con la mano sinistra il volante rivestito in legno. Calcolò a occhio che sarebbe potuto uscire dal parcheggio anche senza fare manovre, vista la distanza dell’auto di fronte. Prima di partire, voltò la testa verso il marciapiedi. Alberto lo stava guardando, orgoglioso di come aveva pulito l’auto dalla neve. Poi sterzò tutto a destra, inserì la prima e fece una pressione leggera sull’acceleratore, il tanto che bastava per mettere le ruote in strada. Con le gomme invernali, la Ghibli sulla neve non se la cavava male. Di sicuro non era un fuoristrada, ma non aveva problemi ad arrivare al Palazzo di Giustizia.

 

Parcheggiò in via Freguglia sotto la massa marmorea del Tribunale ed entrò in un bar a comprare un pacchetto di mentine, come gli aveva suggerito di fare Alberto, poi infilò l’ingresso principale in corso di Porta Vittoria. Salì la scalinata monumentale, superò con un cenno della mano il controllo delle guardie e lasciò risuonare i suoi passi nella vastità dell’immenso atrio, su cui affacciano l’aula magna e la Corte d’Assise, una più imponente dell’altra. Dopo un lungo corridoio, sormontato dal bassorilievo in pietra di un fascio littorio, sbucò nell’atrio centrale. L’ascensore lo scaricò al quinto piano, che insieme al quarto ospita gli uffici della Procura.

 

L’ufficio del sostituto procuratore era di fianco alle macchinette del caffè. Una circostanza che infastidiva molto Maria Cristina Tajani. Ogni volta che passava di fianco alla macchinetta, squadrava i cancellieri e i carabinieri in pausa, che ciondolavano con il bicchierino di plastica in mano: «Buono il caffè? Volete anche dei pasticcini? Ma lavoro solo io in questa Procura?» I cancellieri restavano impassibili. Solo dopo che si era allontanata si concedevano un risolino furbo. I carabinieri commentavano: «Cosa vuole questa scassacazzo». Ma sempre a mezza voce, coprendo la bocca con le dita. Nessuno in Procura, nemmeno il procuratore, aveva voglia di litigare con la Tajani.

L’area caffè era deserta a quell’ora del pomeriggio. La porta della stanza della Tajani era chiusa, ma dal vetro opaco si poteva facilmente intuire una luce accesa. Nonostante fosse reduce dalla notte di turno, alle cinque del pomeriggio passate la pm era ancora in ufficio. Niente di nuovo, per chi la conosceva.

Steno bussò e accostò l’orecchio alla porta. Da dentro, sentì un mugugno, un vuoto di silenzio e poi un urlo: «Avanti!» La dottoressa Tajani era seduta dietro alla sua scrivania, con i capelli neri corvini pettinati alla Elvis Presley, i piccoli occhi scuri puntati su Steno, le labbra cariche di rossetto rosso. Alle orecchie aveva due grossi cerchi finto oro. Al collo, una gigantesca ed elaborata collana, finto oro anche quella, con il logo di Versace come pendente. «Buongiorno dottoressa. Sono qui per il turno», esordì Steno.

«Oggi non tocca a me. Ero di turno ieri. Comunque non ho niente da dirle. È stata una notte tranquilla. Grazie e arrivederci», rispose lei.

Steno capì che doveva giocarsi il tutto e per tutto subito. Non avrebbe avuto più di dieci secondi prima di essere cacciato fisicamente dalla stanza.

«Un turno tranquillo, a parte l’omicidio del figlio del console americano», le disse.

La dottoressa Tajani omologò la sua immobilità alla rigidità del marmo che aveva intorno. Scrutò Steno. Poi gli domandò: «Quanti anni hai?»

«Ventisette a gennaio.»

«Quindi ventisei», constatò la Tajani.

«Esatto, ventisei», confermò Steno.

«Quando tu sei nato, io mi ero già rotta le palle di fare il magistrato», disse il sostituto procuratore Tajani. Steno non poteva saperlo, ma era la battuta che faceva a tutti i giovani che varcavano la porta della sua stanza. Anzi, solo ai giovani che le stavano simpatici, visto che gli altri li cacciava molto prima.

Steno capì di piacerle. E disse senza pause: «Dottoressa, mi chiamo Steno Molteni, sono un giornalista del settimanale “La Notte”. Forse non lo conosce, è nato poco più di un anno fa». La Tajani inarcò un sopracciglio, peraltro già arcuato di suo, disegnato con la matita nera parecchio sopra l’orbita dell’occhio. In quel momento Steno pensò che, se avesse avuto dei lineamenti un po’ più regolari, la Tajani sarebbe potuta somigliare a Moira Orfei. Ma non li aveva, i lineamenti regolari. Aveva invece una mascella da lottatore, addolcita solo dal grasso, il mento marcato e due zigomi che parevano albicocche impiantate sottopelle. «Qualsiasi cosa lei mi dirà, io non la scriverò comunque prima di venerdì, quando il giornale sarà in edicola», disse Steno come premessa generale, per tranquillizzare la sua interlocutrice.

La Tajani rispose: «Voi della “Notte” avete anche un sito Internet». Steno rimase stupito. Non solo la pm conosceva il settimanale, ma sapeva addirittura dell’esistenza del sito. Mentre il giornale vendeva bene, per essere un settimanale locale di cronaca nera, il sito per ora aveva meno contatti dei blog sulla pesca al pesce siluro. Lo curava interamente uno stagista di ventidue anni con gli occhiali spessi, che il primo giorno di lavoro aveva detto al capo che gli sarebbe piaciuto occuparsi «di Esteri, cinema e politica internazionale».

Invece da mesi non faceva altro che pubblicare sul web foto ricordo di morti ammazzati. E cominciava a piacergli.

Steno rassicurò la Tajani: «Sul sito non pubblicheremo nulla. Il mio capo nemmeno sa della morte di Kellan Armstrong al Fatebenefratelli questa notte». Tradotto: non solo si può fidare di me, dottoressa, ma alcune informazioni le ho già. Ad esempio, che il morto si chiama Kellan Armstrong e che è deceduto all’ospedale Fatebenefratelli.

Il volto della Tajani si contrasse in un’espressione pensosa e difensiva. Poi le rughe trovarono altre pieghe, un’altra disposizione. Ora sembrava più disgustata che pensosa. Prese in mano un elastico verde, di quelli che tengono insieme i fascicoli, e cominciò a giocarci.

«Cosa vuoi sapere?» tagliò corto.

 

La Tajani fece qualche resistenza ma poi disse quello che poteva dire. Sì, Kellan Armstrong era senza dubbio il figlio del console americano a Milano. Il console, arrivato in ospedale la mattina, lo aveva riconosciuto. E sì, con ogni probabilità era stato lasciato per terra sul marciapiedi dei Bastioni di Porta Nuova da un’auto che si era poi allontanata. Era logico pensare che lo stesso conducente avesse suonato il clacson, forse per attirare infermieri e soccorritori, e fosse poi fuggito. Nessuno però fra il personale dell’ospedale aveva visto l’auto allontanarsi.

Dopo il riconoscimento del cadavere da parte del padre, il corpo era stato trasferito dall’ospedale all’obitorio in attesa di autopsia. La causa del decesso, secondo le prime analisi, era una profonda ferita alla nuca. Ferite importanti riguardavano anche il naso, lo zigomo destro e alcuni denti, sempre dalla parte destra del volto. Non c’erano segni di violenza sul resto del corpo, se non qualche livido compatibile con una caduta a terra o comunque con un impatto con superfici dure. Non si escludeva al momento che Kellan Armstrong potesse essere morto a seguito dell’urto in un incidente stradale. Ma la dinamica più probabile sembrava l’aggressione o una colluttazione. Kellan aveva indosso un paio di guanti di pelle. Le nocche erano integre, nemmeno segnate, come il resto delle mani. Difficile dire se il ragazzo avesse fatto a pugni o si fosse comunque difeso in qualche modo.

Di certo, sembrava avere preso un forte colpo alla nuca dato con un oggetto pesante e appuntito. Un badile, una pietra, un piccone, una picozza da montagna. Le ferite sulla parte destra del volto erano invece state provocate dall’urto contro un oggetto duro. Ma non erano lacerate come quella sulla nuca. In ogni caso, l’autopsia avrebbe potuto dare indicazioni migliori.

 

«Anche se l’autopsia la facciamo in fretta, per avere dei risultati decenti ci vorranno un paio di giorni», disse la Tajani, «e puoi scommetterci che la faremo in fretta. Ti lascio immaginare la reazione del procuratore quando ha saputo che era morto il figlio del console americano.»

Un paio di giorni. Quindi in tempo per la pubblicazione della «Notte». Era martedì e il giornale sarebbe uscito in edicola venerdì. Quindi, tre giorni dopo. Steno sorrise a quel pensiero. La Tajani interpretò correttamente e decise di togliergli speranze inutili.

«Ovviamente sto parlando solo dei primi rilievi cinetici e dell’analisi dei tessuti», disse la pm. «Per il dna ci vorrà molto più tempo, altro che due giorni.»

A quel punto Steno decise che era arrivato il suo turno. Le disse tutto quello che sapeva, sbagliando oppure omettendo di proposito alcuni particolari: orari, luoghi esatti, circostanze specifiche. Non voleva far capire al magistrato di avere letto la relazione di intervento della polizia. Né voleva far intendere che la notizia gli fosse arrivata da qualcuno che partecipava all’indagine. La fonte sarebbe tranquillamente potuta essere un medico, un infermiere o chiunque altro in ospedale. Steno non le disse, ad esempio, che sapeva che il morto non aveva con sé il telefono, né nessun altro dispositivo elettronico. Quella sul telefono se la sarebbe tenuta come ultima domanda.

La Tajani ascoltò la ricostruzione fatta da Steno ed evitò di correggere le imprecisioni sparse nel racconto. Anzi, fu felice di constatare che il suo interlocutore conosceva solo parte della vicenda. Passi non avere idea di chi sia l’assassino di un ragazzo morto dodici ore prima, ma saperne addirittura meno di un giornalista di ventisei anni sarebbe stato davvero troppo.

«Delle indagini si occupa la polizia o i carabinieri?» chiese Steno con un eccesso di teatralità.

«Polizia, Squadra Mobile», fece lei e proseguì, dicendogli il pochissimo che poteva dirgli sul corso delle indagini. Stavano controllando i filmati delle telecamere di sicurezza di palazzi e negozi, registrati nelle ore in cui l’auto si era fermata in corso di Porta Nuova. Purtroppo quelle dell’ospedale non avevano inquadrato nulla. Il corpo era stato lasciato sul marciapiedi del viale centrale, e la visuale era impedita dalle auto parcheggiate, da una fila di alberi e da una specie di stretto controviale.

Per il resto, la Tajani disse che stavano facendo «le solite cose». Steno ribatté: «Quindi, parlate con parenti e amici, cercate testimoni e controllate le celle telefoniche». La Tajani lo guardò come una mamma guarda il figlio di un anno che cerca di uscire dal box. Poi respirò a fondo e allargò le braccia, segno inequivocabile che la conversazione era conclusa.

 

Steno ringraziò, poi fece la domanda che aveva tenuto per quel momento.

«Kellan Armstrong non aveva con sé il cellulare, vero?»

La Tajani rimase impassibile. «No, non lo aveva. Può darsi che glielo abbiano rubato», disse. «In questo caso, significa che con ogni probabilità stiamo indagando su una rapina finita male.»

Non torna, pensò Steno. Kellan aveva in tasca il portafogli con dentro i contanti. Nessuno ti ruba il telefono e ti lascia in tasca i contanti.

«Il fatto che avesse in tasca i contanti non significa nulla», stigmatizzò la Tajani. «A logica, il rapinatore potrebbe avergli preso il telefono e poi essere scappato. Diciamo che sia andata così, solo per ipotesi: il rapinatore gli prende il telefono. Poi gli chiede il portafogli. Kellan per qualche ragione si rifiuta di consegnarglielo, oppure semplicemente prende tempo, e quello lo colpisce. Capisce di averlo ferito in modo serio e scappa, senza prendere il portafogli.»

Poteva essere.

«Oppure Kellan poteva essere uscito di casa senza avere con sé il telefono», disse Steno.

E la Tajani: «Può darsi».

 

Invece non poteva darsi. Steno non poteva immaginarlo. La Tajani, invece, lo sapeva bene.

La Squadra Mobile aveva già fatto visita nella mattina a casa degli Armstrong. Un bel palazzo del Settecento in via dei Giardini, a due passi dal consolato americano e dalla Questura. Una visita fatta con tutta la cortesia del caso, ovviamente, trattandosi del console degli Stati Uniti. E, cosa più importante, del compagno del questore nel doppio a tennis. Era stato il questore in persona a chiamare Liam Armstrong. Gli aveva assicurato che della morte di suo figlio si sarebbero occupati ovviamente i migliori uomini a disposizione. E che la polizia sarebbe stata disponibile a collaborare con le autorità americane. La garanzia arrivava direttamente dal ministro degli Interni, che aveva scritto ad Armstrong, indicando al console il proprio numero di telefono cellulare.

Della visita a casa Armstrong erano stati incaricati due commissari capo, con cui il questore lavorava da anni. Erano stati a casa del console per almeno mezz’ora. L’intento era anzitutto quello di mettersi a disposizione e capire in modo discreto se il padre fosse a conoscenza di qualche elemento utile per scoprire l’assassino del figlio. Dopo tristi e difficili convenevoli, Armstrong aveva detto ai poliziotti: «Né io né mia moglie siamo riusciti a trovare in camera di nostro figlio il telefono e il computer portatile. Siamo convinti che qui non ci siano. Se volete perquisire camera sua, fatelo pure. Vi chiedo solo di aspettare qualche ora. Domani mattina mia moglie verrà con me in obitorio. Non voglio che lei sia in casa quando la camera di Kellan sarà rivoltata». Per il resto, Liam Armstrong aveva detto quello che dicono quasi tutti i padri dei ragazzi uccisi. Kellan non aveva nemici, frequentava solo gente a posto, nessuno aveva ragione di volergli fare del male. Frasi che non dicono nulla sul ragazzo, né sulla ragione per cui sia stato ucciso, ma che aiutano gli investigatori a capire il rapporto che il morto aveva con i suoi genitori.

 

«Tornerò a trovarla», disse Steno alla Tajani.

«Se proprio devi», fece lei. E per la prima volta dall’inizio della chiacchierata accennò una specie di sorriso. O quantomeno alzò il labbro superiore, scoprendo una fila di denti bianchissimi, macchiati in alcuni punti di rossetto.

Steno sorrise a sua volta e uscì dalla stanza.

Appena chiusa la porta, realizzò di essere soddisfatto di come era andato l’incontro con la Tajani, e più in generale di come si erano messe le cose nella sua vita nelle ultime ore. La notte con Sabine, l’arrivo a sorpresa di Scimmia con una notizia che nessun altro giornalista aveva, le dritte del pubblico ministero.

Di tutte le cose che la pm gli aveva detto, una gli era rimasta impressa più delle altre: le telecamere di sicurezza dell’ospedale non avevano inquadrato il momento in cui il corpo di Kellan Armstrong veniva lasciato sul marciapiedi, per via del fatto che la strada era molto larga e che gli occhi elettronici erano puntati sul controviale cieco. Ma questo non significava che la macchina non fosse stata inquadrata da altre telecamere, anche a una certa distanza dall’ospedale, lungo i Bastioni di Porta Nuova.

Steno decise che sarebbe partito da lì: dalle telecamere. Poi avrebbe provato a contattare Scimmia per chiedergli se c’erano novità. Guardò fuori da uno dei finestroni del tribunale. Il cielo scuro era mosso dall’indistinta figura bianca della neve, che cadeva, quasi ininterrottamente, ormai da due giorni.

Prima di uscire dal Palazzo di Giustizia, Steno controllò l’orario sullo schermo del telefono. 19:22.