VI
Steno sapeva che le probabilità di cavarne qualcosa erano quasi nulle, ma decise di tentare lo stesso. All’ora di cena, di regola, a Milano le portinerie sono chiuse. E lo erano ovviamente anche alle otto di quella sera nei palazzi dei Bastioni di Porta Nuova. Steno passò mezz’ora a citofonare ai campanelli con scritto «Custode» delle case con installata all’ingresso una telecamera di sicurezza. Cominciò dai palazzi di piazzale Principessa Clotilde, a est dell’ingresso del pronto soccorso del Fatebenefratelli. Nessuna risposta. Si spostò a ovest rispetto all’entrata delle ambulanze. Stesso risultato. Provò a suonare il citofono di un vecchio palazzo giallo, vigilato da due grosse telecamere, di cui una puntata sulla strada. Niente. Tentò con l’edificio di fianco, un casermone squadrato anni Cinquanta, con la facciata decorata da un mosaico di minuscole piastrelle. Anche lì, nessuno rispose. Dal portoncino di ingresso uscì però una signora, con un cappotto rosso, un piccolo cane al guinzaglio, fasciato in un cappottino, anche quello rosso. Il cane era piccoletto e la donna in proporzione lo era anche di più. Per arrivare a guardare Steno negli occhi, la signora dovette alzare il mento tanto da assumere una posa imperiosa vagamente mussoliniana. Anche la stazza e i lineamenti ricordavano quelli del duce. Steno pensò che, vista l’età della donna, avrebbe tranquillamente potuto essere la sorella di Benito Mussolini.
«Serve qualcosa?» domandò brusca la donna.
Steno pensò che sarebbe stato meglio evitare la storia del cadavere. Avrebbe fatto troppe domande. Non avendo preparato nessuna storia alternativa da raccontare, improvvisò.
«Sono un giornalista e sono qui per scrivere un articolo sulle bande di zingari che rubano nelle auto la sera», esordì Steno. «Ieri notte ci sono stati parecchi furti. Ho visto che avete due telecamere all’ingresso. Mi chiedevo se avessero ripreso qualcosa.»
La signora scrutò Steno da capo a piedi, una vera ispezione.
«Furti nelle auto?» chiese la donna, sospettosa.
«Esatto. Furti nelle auto», confermò Steno.
«Zingari?» domandò ancora.
«Sì, zingari.»
«Be’, io sto al sesto piano e non ho una gran vista. Diciamo che da tre metri non distinguo un gatto da una sciarpa arrotolata. Anche se dovessero rubare qui davanti a casa non penso riuscirei a vedere nulla dalle finestre. Comunque, per le telecamere è già passata la polizia. I filmati li hanno presi loro, ma non ci hanno voluto dire perché li volevano. Non hanno parlato di furti, né di zingari. Hanno fatto il giro di tutte le portinerie fino a laggiù, in piazzale Baiamonti.» E allungò un dito indice tondo tondo come un piccolo wurstel. «La nostra portinaia però voleva sapere tutto e non si è arresa. Ha insistito parecchio. E dio solo sa se è una che sa insistere. Glielo avrà chiesto tre o quattro volte ai poliziotti. Perché volete i video? Perché volete i video? Ovviamente era curiosa. Ma c’era questo poliziotto scortese che non le rispondeva. Niente, nemmeno una parola. Era giovane come lei, ma non le somigliava per niente. Non era gentile ed era anche abbastanza brutto», disse la signora. Poi ci pensò meglio, e rimarcò: «Anzi, decisamente brutto».
«Mi lasci indovinare», replicò Steno, con aria di speranza, «era basso, aveva i capelli molto corti, la pelle scura, la fronte piatta, le orecchie a sventola e due braccia lunghe come quelle di una scimmia.»
La signora sembrò sinceramente stupita dalla precisione nella descrizione. «I capelli, non so dire come li aveva, perché portava il cappello. A parte quello, è lui. Lo conosce?» domandò la signora Mussolini del sesto piano.
«No, ma ne ho visti tanti di poliziotti così», replicò Steno e porse alla donna un biglietto da visita nero e giallo, con le grafiche del settimanale «La Notte» e il proprio numero di cellulare. «Casomai dovesse avere qualche novità.»
Appena salito in macchina Steno accese il motore, in modo da attivare il riscaldamento. La neve aveva coperto completamente il parabrezza. Non si tolse il giaccone, né la sciarpa.
Provò a chiamare Scimmia. Nove squilli, nessuna risposta.
Gli scrisse un messaggio: «Ti saluta la signora con il cappotto rosso e il cane». Scimmia non rispose. «Chiamami», aggiunse allora Steno.
Per ingannare l’attesa, fece partire una canzone di Johnny Cash sul telefono, fino a quando non arrivò finalmente il messaggio di risposta di Scimmia.
«Non posso ora. Sono in Questura incasinato. Ci vediamo dopo, mi faccio vivo io. Forse ho bisogno di te per capire una cosa. Io di macchine non so niente.»
Bravo Scimmia.
Steno fece pressione sull’acceleratore, e facendo slittare leggermente le ruote posteriori sulla neve prese via Castelfidardo verso il Villa Garibaldi. Cioè, casa.
Alberto gli aveva riservato il suo parcheggio preferito, a due passi dall’albergo, di fronte al negozio di costumi per carnevale. Aveva occupato il posto con una montagna di cartoni. A Steno bastò spostarli il tanto che serviva per farci stare la Maserati. Il signor Barzini parve particolarmente felice nel vederlo arrivare. «Steno ricordati che questa sera hai il turno al bar», gli disse.
Steno annuì immediatamente, fingendo di esserne consapevole. In verità se n’era dimenticato. Il caso di Kellan Armstrong e i cocktail bevuti la sera prima lo avevano distratto dall’impegno che aveva preso con la direzione dell’albergo che lo ospitava. In particolare, con il signor Barzini. E tutto avrebbe voluto Steno Molteni nella vita, fuorché mancare alla parola data al signor Barzini, l’unico vero amico di suo padre, e l’unica figura certa della sua infanzia.
Entrambi figli di portiere d’albergo a Bellagio, il padre di Steno e il signor Barzini erano seri e taciturni fin da bambini. Il primo giorno di scuola elementare, senza dirsi una parola, si erano scelti come compagni di banco. Lo erano rimasti fino al diploma all’istituto alberghiero Commendator Martarelli. Il giorno della maturità avevano attraversato il lago di Como a nuoto, da Bellagio fino a Colico. Quella sera avevano deciso che si sarebbero fatti crescere i baffi. Si erano promessi a vicenda che solo quando uno di loro fosse morto, l’altro se li sarebbe tagliati. Entrambi ovviamente mantennero la promessa. E per fortuna nessuno dei due aveva ancora dovuto mettere mano al rasoio.
A lungo il padre di Steno e il signor Barzini avevano lavorato insieme all’Hotel Villa Serbelloni a Bellagio, gomito a gomito come a scuola. Il padre di Steno si era fermato lì. Il signor Barzini, il giorno del suo trentaduesimo compleanno, aveva invece deciso di trasferirsi a Milano, una scelta fatta senza ragioni apparenti. Il padre di Steno, pur sconvolto dalla partenza dell’amico, non aveva chiesto all’amico spiegazioni. E il signor Barzini, apparentemente tranquillo come sempre, non ne aveva fornite. L’ultimo giorno di lavoro insieme, i due uomini si erano salutati con una stretta di mano. Poi si erano comunque visti quasi tutte le settimane per anni, dato che nei giorni di riposo il signor Barzini non rinunciava a tornare a Bellagio.
Quando aveva saputo che anche Steno, l’unico figlio del suo unico vero amico, aveva scelto di trasferirsi a Milano, il signor Barzini gli aveva fatto trovare una stanza pronta all’albergo Villa Garibaldi, di cui era portiere e responsabile del personale di servizio. Il patto era chiaro: Steno ci avrebbe potuto dormire al prezzo scontatissimo di 20 euro a notte, fino a quando non avesse trovato una casa. Per tutto il periodo di soggiorno, Steno avrebbe avuto il trattamento degli altri ospiti. Letto rifatto ogni mattina, pulizie quotidiane, servizio in camera.
Dopo un mese che Steno era a Milano, il vecchio barista del turno di notte in hotel si licenziò. Steno, che con shaker e tumbler ci sapeva fare, lo sostituì per qualche sera con grande gioia dei clienti. Delle clienti soprattutto. Rispetto al vecchio barista, Steno dietro al banco era un bel vedere. L’accordo fra Steno e la direzione del Villa Garibaldi, dopo le prime sere di prova al bar, divenne questo: Steno avrebbe potuto vivere nella stanza 301, la doppia che già occupava dal suo arrivo a Milano, al prezzo scontatissimo di 10 euro a notte. In cambio, avrebbe dovuto lavorare al bar per tre sere a settimana. Nelle altre serate, del bar si sarebbe occupato lo stesso signor Barzini, che fra le altre cose era un barman eccezionale.
Nonostante il signor Barzini fosse il migliore amico di suo padre, Steno fin da bambino gli dava del lei. E quando in casa si parlava del signor Barzini, ci si riferiva a lui sempre e solo come al signor Barzini, mai per nome. Anche ora che vivevano nello stesso hotel, ed erano di fatto colleghi al bar, Steno si guardava bene dal prendersi qualsiasi tipo di confidenza.
«Certo, non si preoccupi signor Barzini», gli disse Steno, in piedi di fronte al banco dell’accettazione. «Alle dieci in punto sarò al bar.» Poi scappò in camera per fare un bagno caldo.