«Ha presente, dottore, quella studiosa americana che viveva coi gorilla, quella che fu ammazzata dai bracconieri…»
«Dian Fossey.»
«Esatto.»
«Ha sognato di essere Dian Fossey?»
«Ma no! Ho sognato di essere uno di quei gorilla.»
«Un gorilla?»
«Ero un magnifico esemplare, alto, imponente, con dei muscoli incredibili…»
«Davvero interessante. Era un maschio? Glielo chiedo perché ha parlato di “un esemplare”, “un gorilla”. Tutto declinato al maschile.»
«In effetti. Maschio. Sì, maschio.»
«Continui, la prego.»
«Allora. Sto fuggendo da… non so, credo che siano cacciatori… insomma, mi stanno dietro, sento dei colpi, sparano, ma non sono ferita. Sono in una specie di foresta, poi di colpo mi ritrovo su… come delle falesie, e sotto c’è il mare, spuntoni di roccia, e le acque che si agitano, ribollono. Lo definirei un paesaggio bretone, o forse è la Maremma d’inverno.»
«E poi?»
«E poi comincio a cadere. A volare, per essere precisi. Tipico, no?»
«Interessante.»
«Mentre volo, o cado, o quello che è… mi accorgo che in basso, su una spiaggetta di sabbia fina, bianchissima, riesco persino a distinguere i granelli che scintillano al sole, un bel sole franco, di piena estate… sotto di me c’è una famigliola. Una bella famigliola italiana di oggi, col papà un po’ sovrappeso, la mamma col costume intero e una bambina con le treccine. Hanno steso un asciugamano, o forse una coperta, e si preparano a… un picnic… Lei, per esempio, la mamma, ha un cestino termico, sa, uno di quei contenitori con dentro, bo’, una pasta fredda, un’insalata di pasta, insomma, e della frutta… uva e fichi… e lui, il padre, ha messo in fresco un grosso cocomero… l’ha messo in fresco nel mare…»
«Questo probabilmente lo associa alle sue origini. Pugliesi, se non erro…»
«Ah, no, la prego, mi risparmi la solfa delle memorie, la mia famiglia… nella mia famiglia quando si andava al mare c’erano l’autista, la cameriera, una tata per me e mia sorella, e mia madre non si sarebbe mai degnata di stendersi sulla sabbia, capirà, con tutta quella gente che passava, con quei germi… no, il punto non è la memoria, questa volta, il punto è un altro.»
«Me lo racconti.»
«Mentre cado e mi avvicino a questa gente io ho la certezza che farò loro del male. Lo so. Li mangerò, forse, o…»
«È notevole che lei si identifichi con un gorilla, che, come sa, è vegetariano… Chi pensava di mangiare, soprattutto?»
«Sentivo che stavo per piombare su di loro, e sentivo che sarebbero stati alla mia mercé, e… mi piaceva da morire. La sensazione di potere, voglio dire. Sì. La paura che di lì a poco avrebbero provato, il terrore. E dipendeva tutto da me… Mi piaceva da morire, sì.»
«E poi?»
«Poi cosa?»
«C’è arrivata, alla famigliola?»
«No. Non ne ho avuto il tempo. Mi sono svegliata.»
Una piccola vibrazione anticipa la replica del medico. Il dottor Salzano accenna un vago sorriso, scuote la lunga chioma corvina e annuisce. «Lei non è arrivata alla fine del sogno, e noi, invece, siamo giunti alla fine della nostra seduta. Ci vediamo martedì prossimo. Stessa ora.»
«Non mancherò.»
Rimasto solo, Salzano annusa il tenue profumo dal sentore di cacao amaro che lei si è lasciata dietro. Cos’è quella traccia ai confini dell’impercettibile che si annida nella scia? Se solo riuscisse a individuarla… Alba Doria. Commissario capo della polizia di Stato. Il dottore ha in terapia più di un PS di alto grado, e anche un paio di pezzi grossi dei Servizi. Problemi più ricorrenti: depressione e discontrollo degli impulsi. Alba Doria è di un’altra categoria. Un caso di grande interesse, dal punto di vista scientifico. Da farci una pubblicazione. Ufficialmente si è rivolta a lui per un disturbo post-traumatico da stress: qualche mese prima aveva affrontato e ucciso un serial killer, un certo Cardine, l’hater per eccellenza, un odiatore che era passato all’azione e aveva spinto due adolescenti a sterminare le proprie famiglie. Prima di essere abbattuto, il maniaco era riuscito a uccidere il superiore di Alba, Paolo Petti, una sorta di leggenda della polizia. Alba aveva meritato un encomio, grandi articoli sui giornali, apparizioni televisive. La prima volta che si erano visti gli aveva detto che non riusciva a darsi pace per aver fallito. L’immagine di Petti senza vita la tormentava.
Dopo dodici sedute, Salzano si è convinto che il disturbo post-traumatico sia solo un’apparenza. In Alba c’è qualcosa di molto più serio. Qualcosa di molto più profondo. Se non fosse lo stimato professionista che si vanta di essere, userebbe la parola cui l’etica e la conoscenza gli vietano di ricorrere: follia.
In Alba Doria c’è della follia. Di che genere e di che intensità, sarà compito suo scoprirlo.
Per il momento il dottor Salzano ha una convinzione: quella donna è pericolosa.
E ora, finalmente, riesce a dare un nome a quella traccia olfattiva che continua a tormentarlo. È l’odore intimo di una donna. È quell’odore. L’odore di Alba.
E ora che è riuscito a definirlo, ecco che quell’odore si fa concreto, assume una forma e una sostanza, e come una nebbiolina malsana e irredimibile invade ogni angolo dell’austero studio dalle finiture di solido, antico mogano. Una spuma alla quale abbeverarsi, fra le cui onde nuotare fino a perdersi e affondare… il dottore sa che quell’odore esiste soltanto nella sua testa, e il fatto di esserne consapevole acuisce la tensione. Che gli sta succedendo? Non è pronto a fronteggiare il naufragio di due decenni di esperienza professionale. Tutta quella maniacale concentrazione sul training… e ora questa donna…
Se non fosse lo stimato professionista che si vanta di essere, le sarebbe già saltato addosso da tempo. Forse dovrebbe interrompere la terapia. Addurre una malattia diplomatica e darci un taglio.
O forse no.
Il dottor Salzano afferra con un sospiro l’i-Phone e usa un comando vocale: «Apri il file Doria».
File aperto.
Salzano chiude gli occhi e comincia a dettare: «Roma, 4 dicembre. Per la prima volta la paziente mi è sembrata, almeno in parte, sincera…».
Alba si chiude alle spalle il pesante portone dell’antico palazzo del quartiere Della Vittoria e reprime per l’ennesima volta la voglia di fumare. Ha deciso di smettere e manterrà fede all’impegno. Mentre si avvia lungo il viale coperto dagli ultimi avanzi dell’autunnale moria del fogliame dei platani, pensa che forse dovrebbe rallentare il ritmo delle sedute. Se continuerà di questo passo, Salzano, prima o poi, passerà alle maniere forti. Non che non sia in grado di controllare eventuali avance: ne ha affrontati di peggiori, e, in fondo, questo gioco non le dispiace. Neanche il dottore le dispiace: è un bell’uomo, e deve saperci fare, come amante. A trattenerla è la banalità della situazione: la paziente che si scopa lo psico in una classica esplosione di transfert. No, non è degno di lei. E magari è anche possibile che Salzano sia, come dicono, un bravo psicanalista. Che possa aiutarla a risolvere il suo problema.
È così che Alba chiama la Triade Oscura, la sua silenziosa compagna di vita: il disturbo della personalità da cui ha scoperto di essere affetta mentre dava la caccia al serial killer Cardine. La Triade è un cocktail di narcisismo, sociopatia e capacità manipolatoria. Colpisce indifferentemente i vincenti e i naufraghi del vivere. La Triade può spingerti al trionfo o all’inferno. Chi ha la Triade è un predestinato. Questo si sente Alba: una predestinata. A cosa? Ecco il vero dilemma. Alla luce o alle tenebre? E perché definirlo “problema”, tutto questo, e non “risorsa”? In ogni caso, oggi con Salzano è stata quasi sincera. Ha sognato davvero, e nel sogno accadeva quello che gli ha raccontato.
Almeno, fino a quando il gorilla non ha incontrato la famigliola. E l’ha sbranata.
E mentre faceva a pezzi quella gente, il gorilla rideva. E lei percepiva, nel sogno, una meravigliosa sensazione di appagamento. La stessa che aveva provato la sera in cui aveva sparato a Nino Cardine mentre lui… Insomma, aveva deciso di tacere questa parte del sogno. E il finale, è ovvio. Il finale, con il suo pianto irrefrenabile e quella tristezza devastante, caliginosa, disperata…
«Ciao, Alba.»
Trasalisce, e la mano le corre d’istinto alla tasca del trench, dove tiene o la pistola o, come adesso, lo spray urticante. Detesta essere colta di sorpresa. Detesta il calo di attenzione. Detesta…
Poi lo vede. Appoggiato a un tronco spoglio, una sigaretta fra le labbra. Alto, massiccio, le spalle da rugbista, i capelli, un tempo biondo cenere, ora bianchi, un po’ appesantito, un po’ sciupato, l’espressione fra il sarcastico e il corrucciato, gli occhi grigi, un tempo luminosi, ora quasi spenti. Lo vede, e ricorda come le batteva il cuore, un tempo, nelle notti trascorse insieme, nei turni di servizio, nei rari momenti di quiete, persino quando il loro rapporto diventava di giorno in giorno sempre più difficile, e la rottura era dietro l’angolo. Ricorda l’emozione, e si sorprende incapace di riassaporarla. Incapace persino di evocarla fino in fondo.
Gli va vicino e gli tende una mano ferma. «Ciao, Gianni» dice, seria e fredda.