Ogni domenica la madre di Alba convoca le amiche per il rito del burraco. Come se gli altri giorni della settimana fossero diversi e ogni occasione non fosse buona per qualche mano. Alba, inutile dirlo, detesta il burraco. Così come detesta la baronessa Giatti, vedova di uno speculatore edilizio legato al Vaticano, e la dottoressa Giuntini, che almeno per qualche anno, prima di sposare il diplomatico Malvoli, ha finto di lavorare in un ente pubblico. Per non parlare di Chicca e Bea, le sorelle Bonaventura-Mugnani, mogli di commercialisti votati alla nobile arte dell’elusione fiscale e alla cornificazione seriale a mezzo escort dell’Est.
Una congrega di streghe della Cassia con capello biondo lunghetto, shatush d’ordinanza e gonna al ginocchio. Perennemente votate a un cicaleccio pettegolo ispirato al più scatenato disprezzo sociale. Fasciste ontologiche, seguaci del Belli (“io so’ io e vvoi nun zete un cazzo”), furbe come il demonio, avide, ciniche, perverse, e nel contempo stupide come oche: si sono ammazzate di risate quando Alba ha mostrato loro I canti dell’Olgiata, la sarcastica macchietta che il comico Corrado Guzzanti, qualche anno prima, aveva dedicato a quelle come loro. Hanno scambiato la satira per apprezzamento. Oppure, ed è più probabile, hanno riso perché consapevoli della propria eternità. In effetti, riflette Alba, stanno tornando di moda. Sono la versione nostrana del tea-party, e ci stanno mettendo sotto.
«Alba, tesoro, per una volta ti vedo rilassata!»
Se avesse ancora voglia di lottare, dovrebbe rispondere alla madre: mi vedi rilassata perché non hai mai capito un accidente di me. Ma da un pezzo ha rinunciato alla lotta. Con le persone come donna Elvira, è fatica sprecata.
«È il piacere di rivederti, mamma.»
«Che cara!» tubano le amiche.
«Sì, un’adorabile bugiarda» conferma Elvira.
Esauriti i convenevoli, si passa al tè. Se le chiedessero perché si ostina a sottoporsi al rito domenicale, Alba risponderebbe: perché dura poco. Mamma ha fretta di sbarazzarsi di me per potersi dedicare al burraco, io recito la parte della brava figlia, ci scambiamo il minimo possibile di informazioni, poi ciascuna riprende la propria vita.
«Io sono passata al tè verde» si premura di informare Bea Bonaventura-Mugnani, mentre Chicca, che a sessant’anni ha scoperto una vocazione letteraria, annuncia la pubblicazione del suo primo romanzo.
«Ah! E cos’è, un giallo, una storia d’amore?» domanda Elvira.
«Oh, sai che i gialli li odio, con tutti quei morti. E le storie d’amore, al giorno d’oggi, se non c’è di mezzo un po’ di sesso non interessano a nessuno…»
«Invece l’amore senza sesso…» commenta, sarcastica, Elvira.
Le amiche ridacchiano. La battuta deve contenere un’allusione a qualche evento piccante della sua esistenza. Un segreto che Alba ignora, e del quale, francamente, le frega poco o niente.
Chicca arrossisce. Spiega che ha raccontato una “saga di famiglia”, ispirandosi alla loro vita. Alba avrebbe una battuta pronta: sarà un libriccino piccino picciò, visto che nella vostra vita non è successo mai un beneamato. Ma si astiene, ancora una volta. Manda giù un sorso di tè e lo accompagna con una fetta di crostata ai mirtilli. Made by l’indiana della Giuntini. Se non altro, nella scelta delle cameriere sono delle vere artiste. Sua madre osserva, di tanto in tanto interviene con un’osservazione caustica, e sorride. Ha dieci anni più delle amiche, ma non li dimostra. E anche le altre quattro si tengono al passo coi tempi. La Giuntini, per mostrarsi cortese, chiede ad Alba se stia lavorando a qualche caso interessante.
Elvira previene la risposta. Di solito, puntualizza, la figlia è così riservata che si ha l’impressione che non lavori mai. Risate generali. Bea sospira di sollievo.
«Meno male. Ve l’ho detto, a me queste cose fanno impressione.»
«In realtà qualcosa ci sarebbe» s’inserisce Alba, perché quando è troppo è troppo.
E racconta della ragazza che un maniaco ossessionato dai nodi e dal sadomaso voleva tagliare a pezzetti. Un lampo di irritazione guizza negli occhi di Elvira. Sperava, a colpi di sarcasmo, di distogliere l’attenzione da quella figlia questurina. L’onta della famiglia. La certificazione del suo materno fallimento. Bea è impallidita.
La Giuntini rivolge ad Alba un’occhiata di velluto. «Povera cara, che lavoro duro che ti sei scelta!»
«A me piace» risponde lei, caparbia.
La Giuntini si lancia in un’appassionata filippica contro gli uomini che abusano delle donne. Tutte le altre si uniscono. Alba non crede alle sue orecchie. Per una volta si trovano d’accordo. No. C’è qualcosa che non torna.
«Credo sia straniera» provoca.
«Questo non cambia niente» osserva la Giuntini, ma già nel tono c’è poca convinzione.
Seguono alcuni istanti di silenzio. Poi il comune sentire muta, prima impercettibilmente, poi con sempre maggior puntiglio, fino a culminare in un crescendo furioso. Certo, queste ragazze che affrontano da sole tanti pericoli. Certo, di solito queste disavventure non capitano a chi se ne sta a casa propria. Certo, normalmente sono prostitute. Certo, vengono in Italia perché nei loro Paesi stanno male. Certo, stanno male anche perché ci sono leggi severe. Certo, qua da noi entrano quando vogliono e fanno come cavolo gli pare. Certo, stanno male, ma non possiamo farli entrare tutti. Certo, siamo i fessi d’Europa, tutti vengono da noi, voglio vedere i francesi o gli spagnoli. Certo, qua da noi c’è la pacchia. C’era, perché adesso sta cambiando. Per fortuna. Certo, ma anche questi qua, i nuovi che comandano, hanno ancora troppi scrupoli. Per esempio, basta che in TV passi il video di un bambino negro, e tutti a piangere. Ah, sì. Che palle! E te li piazzano all’ora di pranzo e di cena, quando magari ti stai godendo la tua famiglia, e ti fanno sentire in colpa, ti fanno. Sono dei ricattatori, ecco che sono.
Vanno avanti così per un bel po’. Finché non decidono che nessuna di loro ha niente da rimproverarsi, che non si sentono colpevoli di un bel niente, e che si fottano i miserabili, i poveri, le zoccole e i dannati della Terra.
Amen.
Poco dopo, Alba è in strada. Disgustata, ferita da un’ineludibile sensazione di sconfitta. Niente, niente di ciò che potrà pensare o fare avrà il minimo effetto sullo stato delle cose. C’è di che essere sconfortati. Le vecchie non sono solo eterne. Sono l’avanguardia della modernità. Perfette per l’era dell’odio digitale, anche se non sanno come si accede ai social. I soloni di Cupertino devono aver studiato la madre e le sue amiche, prima di impiantare Facebook e compagnia cantante. Come concretizzare l’antico sogno dell’eterna cultura provinciale: poter sparlare di tutto e di tutti senza pagare dazio. È uno di quei momenti in cui pensa: abbiamo giustiziato Di Corrado, forse abbiamo sbagliato e forse era la cosa giusta. Su questo non saremo mai d’accordo, con il Biondo.
È un contagio, sì. Un contagio. Il contagio dell’odio. Sua madre e le sue amiche l’hanno indirizzato verso il bersaglio sbagliato. Ma è lo stesso odio che prova anche lei, Alba. Per altri. Per altre storture. Se s’illudeva di essere unica, deve ricredersi.
Calano le ombre della sera. Comincia a piovere. Goccioloni che presto si trasformano in un diluvio. La Dacia Duster bianca slitta sull’asfalto bagnato.
Alba avverte il morso dell’infelicità. Il giovane PM le ha mandato almeno dieci messaggi. È già diretta a casa quando, con una brusca inversione, imbocca la Tuscolana. Ha il badge in borsa, l’ufficio è deserto. Potrà lavorare in santa pace.
A qualcosa, tutto questo odio dovrà pur servire.