Introduzione

Perché il femminismo?

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Essendo cresciuta fra gli anni Settanta e gli Ottanta, il femminismo mi faceva paura. Avevo la sensazione che il movimento femminista fosse un club esclusivo per donne irritabili e aggressive e che farne parte mi avrebbe costretta a essere arrabbiata per qualsiasi cosa. Avrei dovuto odiare gli uomini, leggere tutto il catalogo della casa editrice Virago e non depilarmi.

Non faceva per me.

In ogni caso, non avevo bisogno del femminismo, mi dicevo. Me la sarei cavata con le mie sole forze. Il mio sesso non sarebbe stato un ostacolo.

Le cose sono andate diversamente. A diciannove anni cominciai a stare male. Ero una studentessa universitaria ed ero lontana da casa, ma potevo farcela. Sarei andata da un medico e avrei risolto il problema. Gli spasmi persistenti che ogni mattina mi costringevano a vomitare o mi facevano cedere le gambe furono attribuiti a cause psicologiche dal mio medico, che mi definì «nervosa». Gesù, pensai, se mi sto inventando questi disturbi sono più malata di quanto credessi. Lui mi mandò da uno psicologo clinico, che confermò la sua diagnosi. Per un anno.

Fino al giorno in cui ebbi un violento attacco di epilessia in pubblico e un dottore del pronto soccorso mi diagnosticò l’epilessia mioclonica giovanile. (Avrei voluto baciarlo. Quando me lo disse, feci un gran sorriso.)

Il mio medico curante mi faceva slacciare il reggiseno tutte le volte che andavo nel suo ambulatorio, per potermi auscultare. A ogni appuntamento, indipendentemente dal motivo per cui ero lì. Avevo diciannove anni. Portavo reggiseni con il ferretto. Non mettevo in discussione la sua richiesta. Lui era un medico e io non avevo mai usato uno stetoscopio. Certo, mi sentivo in imbarazzo, ma chi ero per dubitare?

A vent’anni feci il mio ingresso nel mondo del lavoro: vendite e marketing nella City. Fui accolta da Zachary, un Adone in completo gessato, nato e cresciuto a Chelsea, che sfoggiava una Filofax e bretelle rosse. Quel mattino interruppe il nostro incontro per fare una telefonata. Chiamò un collega di un piano più alto e gli disse: «Deve avere la quarta o la quinta». Immaginai che stesse parlando di me.

Era il mio primo giorno di lavoro, ma fu quella frase a rimanermi impressa.

Nove anni dopo, insegnavo alle scuole superiori ed ero capo dipartimento in un istituto di Londra quando misi al mondo un bellissimo bambino con la sindrome di Down. Verso la fine del congedo per maternità feci una telefonata alla direttrice, chiedendole di passare al part-time. Volevo trascorrere più tempo con mio figlio, per attuare i programmi di intervento precoce così importanti in questi casi.

La direttrice era giovane, aggressiva, single, senza figli. Mi rispose senza nemmeno fermarsi a riflettere: «No, i part-time sono sempre un fallimento nel campo dell’istruzione e tu hai un bel po’ di carne al fuoco in questo momento». Intendeva dire che come neomamma, in particolare come neomamma di un bambino con un disturbo dell’apprendimento, non sarei stata in grado di affrontare le difficoltà della vita domestica e gli impegni lavorativi. Magari ha ragione, pensai. Deve averla: ha molta esperienza.

Naturalmente, non aveva ragione. Non l’avevano neppure il medico curante e lo psicologo clinico. E io non possedevo gli strumenti per esprimere l’ingiustizia che avvertivo in quelle situazioni.

Perciò, il punto è che il femminismo non dev’essere per forza radicale. Non è necessariamente stridulo, arrabbiato o peloso. È una questione di giustizia, di consapevolezza di sé, di coraggio. Implica il rispetto dell’autorità e dell’esperienza altrui ma non la loro automatica accettazione. Di certo mai a spese di ciò che sappiamo essere vero e giusto. Ed era stato l’anello mancante della mia storia.

Non me ne sono resa conto finché sono diventata a mia volta madre.

Le femministe non sono un gruppo di interesse di nicchia: sono membri della vostra comunità, persone corrette e rispettose. Si divertono molto, lavorano sodo, non commettono ingiustizie e non ne subiscono da nessuno.

È quello che voglio per i miei figli.

VIK

Sono cresciuta nelle case popolari di South Bristol negli anni Settanta. Per sopravvivere in quel posto, da bambino, dovevi essere bravo a giocare a British Bulldog, che implica il saper correre e una certa violenza. Le femmine erano tollerate solo se si accontentavano di avere il ruolo di vittime consenzienti.

Quando cominciava la carica, io mi dirigevo verso le gambe di Peter Denford («Denford Nylons», come chiamavamo affettuosamente lui e suo fratello, dal nome dell’emporio di tessuti sintetici dell’epoca. Ancora oggi a pensarci mi viene da ridere. Mi spiace, Peter!). Pensavo di potermi chinare e lanciarmi attraverso le sue gambe arcuate mentre lui si accucciava, pronta per l’imminente assalto.

Mi sbagliavo sempre e finivo a faccia in giù sulla ghiaia. Ma non piangevo mai, altrimenti mio fratello si sarebbe vergognato di me e io sarei stata esclusa dal gioco.

Avevo sette anni. I maschietti comandavano. Quando Lee Morris mi tirò giù le mutande per dare un’occhiata, i genitori presenti mormorarono e dissero: «Ah, il primo amore…» Non era un’epoca illuminata, in cui i più deboli venivano protetti.

Le donne che abitavano nella mia strada cucinavano, facevano le pulizie e parlavano dell’argomento principale, che era quanto bevevano i loro uomini e come loro reagivano a questa abitudine alcolica. Ricordo, senza scusarmi per la mia nostalgia romanticizzata e sfocata, di essere stata terribilmente felice.

Ero la più giovane di quattro fratelli, tre femmine e un maschio. Godevamo di un’enorme libertà ed eravamo amati e ignorati in parti uguali, in modo sano e gioioso.

Cani alsaziani, moto Chopper, mele caramellate fatte in casa e falò… Le vacanze sull’isola di Jersey, tutti stipati in una Ford Cortina sul traghetto che arrivava da Weymouth. Pensioni dove potevi scegliere succhi di frutta come antipasto. Bizzarro, no? Durante il giorno ci era consentito arrostirci sulla spiaggia e andare fin quasi a Guernsey sulla nostra minuscola barchetta, poi ci asciugavamo e ci preparavamo per i divertimenti serali. Quelle spettacolari serate fuori riguardavano gli uomini.

«Adesso tocca a noi», diceva lo zio Dave, ed era un’affermazione interessante e veritiera, perché non mi pare di ricordare che le sue giornate fossero piene di attività svolte con i figli.

Gli uomini rimanevano tutta la sera al bancone del bar. Nel frattempo, le donne stavano al tavolo «di famiglia» con i bambini di varie età, molti già addormentati, alcuni che scivolavano senza scarpe sulla pista da ballo e altri che bevevano di nascosto un goccio di birra sotto il tavolo, incitati dai padri, che di tanto in tanto ci facevano il grande onore di ricomparire. L’obiettivo era quello di continuare a bere fino alla fine. Poi qualcuno faceva girare un’enorme bottiglia di champagne e ci mettevamo tutti in posa con sorrisi malinconici per farci fotografare.

Era fantastico.

Nel 1976 ci trasferimmo in un quartiere vicino all’università, dove incontrai persone che avrebbero potuto appartenere a una specie diversa. Dopo avere superato l’esame di ammissione arrivai alla Fairfield Grammar School e mi feci alcuni interessanti nuovi amici, che mi invitarono a casa loro per il tè.

Le nostre famiglie erano molto diverse. La mia amica Lynn Cox e suo fratello Neil chiamavano la mamma e il papà con il nome di battesimo. Questo mi spaventava: non ero sicura che fossero davvero i loro genitori, ma non volevo fare domande in proposito. Inoltre, ero terrorizzata dal loro uso di parole come «appropriato» e «fondamentale»: pensavo che fossero portoghesi, o qualcosa del genere. A casa mia dicevamo «figa», o «non voglio quella merendina», oppure «zitti, comincia il programma di vostra madre».

Anche il cibo che si mangiava dai Cox fu una rivelazione: miele, pane nero e stufati serviti in pesanti piatti di terracotta che, come scoprii in seguito, in origine contenevano olive (oh, che eleganza!). A cena, il padre di Lynn chiedeva alla moglie cosa ne pensasse dei fatti di cronaca, o com’era andata la giornata al lavoro. Io rimanevo a bocca aperta per lo stupore (probabilmente avevo in bocca un’oliva).

Poi suonavano il piano. Nel giro di tre ore passai dal terrore al desiderio. Volevo che i Cox fossero miei. Erano stati in India e avevano barattoli pieni di couscous. Non sapevo che cosa fosse il couscous, ma sembrava molto intelligente. Parlai di loro a mio fratello e lui disse: «Maledetti hippy». Ma io mi sentivo al tempo stesso affascinata e alienata. Non perché fossero seduttivamente bohémien e chiaramente intellettuali, ma perché non riconoscevo le regole seguite dalle donne e dalle ragazze di quella famiglia. Come mai erano così diverse?

Da bambina non sentii mai pronunciare la parola «femminismo». Quello che invece sentivo intorno a me erano donne forti e straordinarie, trattate come esseri inferiori da uomini che a loro volta venivano trattati come eroi. Quando ci radunavamo con le altre famiglie, gli uomini erano sempre serviti per primi. Il pezzo di carne più grande, la fetta di arrosto migliore. Non ricordo una sola donna che avesse un lavoro, o un sogno proprio. Di certo non sogni dei quali parlasse, o che andassero al di là degli elettrodomestici e dei pacchetti vacanze. Sicuramente non erano oppresse, non tutte, almeno, però erano rassegnate a qualcosa che non riuscivo a vedere o capire fino in fondo. Ma mi rendevo conto che non mi piaceva.

A quattordici anni conobbi il ragazzo che sarebbe diventato mio marito: aveva diciannove anni ed era gentile e tranquillo. Possedeva un’auto, e molto in fretta ottenne anche il mio cuore. A sedici anni – nessuno parlava di università o di fare carriera, e mia sorella stava diventando madre – trovai lavoro in un ufficio paghe. Ci fidanzammo, facemmo una festa e spendemmo quarantasei sterline per un anello. Avevo diciassette anni quando acquistammo la nostra casa e a diciotto mi sposai. Era quello che facevano tutti, non esistevano alternative, così cominciai a comprare tende color pesca e imparai a usare la friggitrice.

Avevamo degli amici, e in una coppia in particolare l’uomo era un inqualificabile misogino. Una volta mi opposi alla sua arroganza e contestai il fatto che mi interrompesse a metà frase: ero davvero scocciata. Lui mi rise in faccia. Fui definita affettuosamente un po’ «impertinente». Ingoiai il rospo. Sapevo di essere più intelligente di tutti quegli uomini ma non avevo il coraggio di affermarmi. Sarei diventata impopolare, meno attraente. Non conveniva. Non avevo mai visto una donna comportarsi in quel modo ed essere apprezzata, e io volevo a tutti i costi piacere.

1989. La Open University. Santo cielo, che rivelazione, che felicità! Tutti quei cliché sull’apprendimento, che sono cliché proprio perché sono così gioiosamente veri.

E poi, eccomi incinta: un Elvis in miniatura in una vasca di plastica per i pesci. Sto per compiere ventun anni. Lui è meraviglioso e qualcosa (non più lui) si sta girando dentro di me. Poi, il 1994: nel cuore della notte, nel mio letto, mia figlia… insistente, irritata e poi serena. Per circa cinque minuti…

Sei mesi dopo siamo in un pub, è estate e i miei bambini si stanno godendo il sole. Un amico di famiglia mi passa accanto mentre vado in bagno. Mi guarda le tette, poi alza gli occhi e dice: «Sì, mi piacciono grosse». Sento commenti simili da una vita. E faccio per sorridere stancamente, per apparire lusingata e non fare la difficile, come ci si aspetta in questa tribù.

Poi osservo la mia bambina nel passeggino, guardo lui e rispondo: «Lance, non devi parlarmi così, perché non va bene. Non puoi guardare le parti del mio corpo, decidere se ti piacciono e dirmelo. Non è un complimento. E probabilmente è per questo che a trentasette anni sei ancora single. Amico, piantala…»

Mi ci erano voluti dieci anni di porzioni più piccole a tavola e troppe partite di British Bulldog, ma finalmente, dopo due figli, avevo trovato la femminista che era in me, e che ci sarebbe rimasta.

Voglio che mia figlia faccia un sacco di cose…

Voglio che ami e desideri le persone ma non si definisca per mezzo di quelle persone.

Voglio che non abbia le mie nevrosi, le mie cattive abitudini e le mie inibizioni, ma anche che sappia che essere «imperfetti» è l’unico modo di essere davvero felici.

Voglio che mi adori (se devo essere sincera).

Voglio che sia arrabbiata per alcune cose, che agisca per risolverle a modo suo, ma che riesca comunque a riderne e poi ascolti con me Neil Diamond per un po’.

Voglio che si goda il suo corpo. Che lo dipinga, lo vesta, ne abbia cura, lo muova senza preoccupazioni sulla pista da ballo. Voglio che si goda i suoi poteri femminili ma sappia che sta a lei decidere come usarli e con chi.

Voglio che apprezzi gli uomini (e che per lo più li compatisca). Come compagni, come colleghi, come amanti, se vuole, e che sia gentile e si aspetti gentilezza in cambio.

Voglio che si renda conto che essere femminista significa tutte queste cose, e che è il più bel regalo che io possa farle.

Voglio che mio figlio sia un uomo, non un macho

Voglio che capisca che essere uomo non significa dover essere macho, perché sono tutte stronzate. E non significa nemmeno che deve avere paura di mostrare timore, dolore, compassione e gentilezza, perché queste cose fanno di una persona una brava persona, una persona autentica, indipendentemente dai genitali.

Voglio che mio figlio abbia delle avventure. E che mi invii le foto di (alcuni di) quei momenti, aggiungendo: «Questo ti piacerebbe!» anche quando è evidente che non sarebbe così.

Voglio che mio figlio abbracci sua nonna/zia/papà/sorella/zio fino a lasciarli senza fiato, e che non gli importi nulla di chi lo sta guardando.

Voglio che mio figlio ami senza paura e con tutto il cuore. Voglio che apprezzi, ami e si goda le donne della sua vita, e anche gli uomini. E che affronti tutto con rispetto, empatia e un enorme divertimento.

Voglio che mio figlio ami la sua casa, qui con noi e poi con chiunque lo faccia sentire altrettanto bene e al sicuro. Ma farà meglio a venire a guardare South Park con me e a mangiare regolarmente il chimichanga, sia chiaro!, altrimenti mi arrabbio.

Voglio che mio figlio prenda in considerazione quello che secondo la nostra società dovrebbe piacergli e desiderare e poi faccia quel che gli pare. Se è il macramè, farò la scorta di filati. Se è il campionato di lotta libera, farò la scorta di Valium. Comunque sia, voglio che sia protagonista della sua vita, e porterò la Polaroid.

Voglio che mio figlio conosca e celebri le donne per le stesse ragioni per le quali ammira gli uomini e non abbia timore di dirlo ad altra voce, in modo sensato. Voglio che mio figlio sia femminista perché non gli passerebbe mai per la testa di essere altrimenti.