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«Io non ne sforno»

Educarci alla tolleranza: siamo tutti femministi

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Di recente ho letto un blog intitolato: «Perché le madri femministe non sono di più». Ci ho messo un po’ ad andare oltre il titolo. Lo tsunami del femminismo radicale del Ventesimo secolo ha trascinato con sé idee come questa: la maternità, con la noia e la fatica che comporta e gli stacchi dal lavoro, è la morte del femminismo.

La scrittrice e filosofa femminista francese Élisabeth Badinter ha pubblicato un libro, Mamme cattivissime, nel quale condanna il modello di genitorialità basato sulla creazione di forti legami tra madre e figlio in quanto «incatena le donne alla casa». I figli sono un conto, ma restare a casa per crescerli? Inconcepibile… La Badinter può pensarla come vuole, naturalmente, anche se dal nostro punto di vista sono tutte cazzate.

Giudizi così tranchant sono dannosi e distruttivi perché ingenerano in tutte noi, madri e non, il sospetto di avere fatto scelte di vita inaccettabili. E possono farci mettere sulla difensiva, convincerci di essere in qualche modo in conflitto con altre donne a causa dello stile di vita che abbiamo scelto. E questo non va bene.

Lo abbiamo fatto tutte: in qualche fase della nostra esistenza abbiamo dubitato di noi stesse e ceduto alla necessità di trovare un capro espiatorio. E dobbiamo piantarla.

Mi ricordo una sera di alcuni anni fa. Un incontro difficile con una donna che immaginavo essere sul «lato opposto» di questo presunto conflitto. Con il senno di poi, mi rendo conto del mio errore: presi la sua compostezza e il suo essere concentrata sugli obiettivi per il segno distintivo della donna felicemente senza figli. La immaginavo interamente dedita a se stessa, libera di attingere a riserve infinite di energia e di determinazione, mentre io avevo riserve infinite di minuscole scarpe di plastica con il tacco a spillo, involucri di merendine e fazzolettini di carta usati, i detriti della mia nidiata di piccoli esseri umani. Vedevo come la sua vita priva di figli e dedita al lavoro fosse diversa dalla mia e pensavo che i miei difetti fossero assenti in lei.

D’altra parte, non la conoscevo. La immaginavo soltanto. E al suo confronto mi sentivo orribilmente in difetto. Questa impressione mi portò in men che non si dica a convincermi che lei mi detestasse. E nel giro di mezz’ora arrivò la mia autodifesa: Bene. Neppure tu mi stai molto simpatica.

Devo ammetterlo: non è un episodio di cui vada fiera. Dieci anni dopo, non sono nemmeno sicura che le cose siano davvero andate così, ma è di certo come mi sono rimaste in mente.

Mi trovavo in un locale con un gruppo di gente di teatro dopo l’anteprima di uno spettacolo. Io, una donna vicina ai quaranta, istruita, valida educatrice e scrittrice a cottimo. Anche se quella sera non lo sapevo, stavo per diventare critica teatrale. Ero andata ad assistere allo spettacolo perché la protagonista femminile era una mia vecchia amica e dopo la seguii al pub, a bere qualcosa con il resto della compagnia. Significativamente, ero l’unica ad avere figli.

La giovane regista teneva banco con le movenze agili e sicure di una ballerina. Fu subito evidente che non diluiva le proprie attenzioni. Concentrava il suo sguardo penetrante su un singolo componente del pubblico, ignorando tutti gli altri. Avrei dovuto riconoscere subito quell’atteggiamento, una specie di visione tunnel che ho spesso riscontrato negli adolescenti insicuri, un modo di ignorare i presenti per rimanere calmi in mezzo alla folla. Invece, decisi che quella donna trasudava il genere di fiducia in se stessa che si trasforma spesso in caustico disprezzo.

La conversazione era accesa, tutta incentrata sull’uccisione di un uccello durante lo spettacolo. Quel momento, ci informò, aveva avuto troppa enfasi. La frustrazione provata dall’attore era stata spinta sull’orlo della farsa, con il risultato che il pubblico si era sentito autorizzato a ridere quando all’uccello era stato tirato il collo. Non era quello che lei voleva da quella scena. La sua intenzione era di sconvolgere.

Così propose che l’attore ammazzasse un uccello vero ogni sera. (Non scherzo, si aspettava sul serio che il direttore di scena fornisse tutti i giorni un volatile vivo, due se ci fosse stata anche una rappresentazione diurna, perché fossero uccisi davanti al pubblico pagante. Per tre mesi.)

Chiaramente, era una follia. E francamente il suo atteggiamento mi stava già dando sui nervi. Perciò, mentre me ne stavo seduta lì, circondata da attori, ex attori, stelle nascenti e stelle ormai spente, decisi di azzardarmi a esprimere un’opinione. Dissi che forse il pubblico aveva riso non perché avesse trovato buffa quella scena, ma perché si era sentito a disagio a causa di tanta indifferenza per la vita. Magari aveva addirittura visto se stesso riflesso in quell’azione. Non farsa, dunque, ma un momento di preziosa connessione. Empatia… molto più potente dello choc.

Compiaciuta dalle mie parole, raddrizzai la schiena, allontanai i capelli dagli occhi e allungai la mano verso il mio bicchiere.

La mia adorabile vecchia amica osservò generosamente: «Interessante…» ma tutti gli altri tacquero, guardando ora il proprio bicchiere ora la regista. La quale inspirò e ruppe il silenzio, lanciandomi per un istante un’occhiata falsamente comprensiva, prima di dire: «Non rideranno del mio uccello!»

Vergognosa, mi appoggiai al bancone del bar, accaldatissima nei pantaloni troppo grandi che avrebbero dovuto contenere il mio addome e consapevole, mentre ordinavo da bere, che nessuna donna (men che meno una trentanovenne che pesava 76 chili) ha mai avuto un bell’aspetto al quarto whisky in un’ora e mezzo.

Guardai la regista mandare in fibrillazione gli uomini con una risata roca mentre gettava indietro la testa e si accarezzava la gola.

Poi qualcuno fece una battuta, qualcosa di sprezzante sulle donne che fanno figli e sulla maternità. E qualcun altro le domandò se era «tentata di mettere al mondo dei marmocchi». Ah! Come se una tipa così fosse disposta a rischiare le vene varicose e la pancetta molle del post gravidanza. Ridicolo. Non riuscii a trattenere uno sbuffo.

«Bambini? Io non ne sforno», rispose lei con tono beffardo. E il suo sguardo incontrò il mio, lasciandomi momentaneamente senza fiato. Il commento successivo lo indirizzò a me, prima che le risatine servili si fossero spente.

«Ma ti invidio. Mentre io mi arrabatto nel mondo del teatro, cercando di ritagliarmi una vita, tu sei sistemata, no? Hai i tuoi figli. Quanti hai detto che ne hai?»

Giuro che potevo vedere la derisione nei suoi occhi.

Trattenni lacrime di rabbia (è una cosa che non sopporto di me, l’ira mi abbandona quando ne ho più bisogno, lasciandomi svuotata e singhiozzante come una ragazzetta lanciata in grembo a John Wayne). Come osa calpestare il mio mondo? pensai. Come osa fingere di sapere qualcosa del successo? Il vero successo. Quello che si assapora quando tuo figlio lascia andare la tua mano e varca il portone della scuola per la prima volta. Come osa dire di sapere come ci si ritaglia una vita, una vita vera, di quelle che escono dal tuo ventre e strillano per essere sentite, tenute in braccio e amate?

Decisi che quella donna non aveva nulla di elegante, di aggraziato o di composto. La sua bellezza era falsa, artefatta. Quel che avevo visto era sufficiente.

Così ingollai un gran sorso di whisky e immaginai di avanzare verso di lei, illuminata dalle luci della ribalta mentre il mondo del teatro stava a guardare. Fantasticai di raggiungerla, di sostenere il suo sguardo, i miei occhi strabuzzati per la furia, i suoi divertiti. Avrei guardato oltre i suoi occhi insolenti, i suoi zigomi perfetti e la sua bocca a bocciolo di rosa. Avrei guardato… che cosa? Il suo petto! Piatto, sterile, incapace di dare conforto.

Con un sorrisetto avrei coreografato un elegante pas de deux tirando fuori dal reggiseno con il ferretto le mie tette pendule e piene di smagliature e avrei affondato la sua deliziosa faccina nel bel mezzo di tanta materna abbondanza, dicendo con tono trionfante: «Figli? Contali!»

Naturalmente, non è quello che accadde.

Nella realtà non le diedi alcuna risposta e fui soccorsa dalla mia vecchia amica. Uscii per respirare il fumo di seconda mano della sua sigaretta (non fumo ma sono un’appassionata fumatrice passiva), cercando di non piangere.

Dieci anni dopo, mi domando se la regista fosse stata davvero sprezzante nei confronti della maternità. Oppure avevo colto qualcosa che non c’era, il prodotto delle mie insicurezze e di tre whisky di troppo? Il suo atteggiamento era semplicemente causato dall’essersi resa conto, all’improvviso e con un certo imbarazzo, che fra loro c’era un genitore (mentre in genere nel suo mondo non ce n’erano)? La mia indignazione aveva a che fare più con la mia situazione che con la sua?

In retrospettiva, sembra probabile. Non importa. In ogni caso, quella serata fu più grande della somma delle sue parti. Se quella giovane regista ce l’aveva con me, forse era per quello che io stavo facendo e magari lei pensava di dover fare: la mamma. Del resto, anch’io mi ero comportata nello stesso modo, solo che nel mio caso era stata la sua femminilità così esibita a darmi sui nervi.

Il punto è che quell’episodio mi lasciò con una sensazione di persistente malessere.

Chissà se anche per lei fu lo stesso. Io avevo il sospetto di essere inferiore per avere interrotto la carriera per fare dei figli. Possibile che lei fosse sdraiata in una camera d’albergo, intenta a spegnere l’orologio biologico con un sauvignon e lacrime solitarie, domandandosi se facesse bene a perseguire altre priorità?

Il mito duro a morire di un conflitto femminile può far sì che a ogni incontro ciascuna di noi si convinca che l’altra donna sia in vantaggio. La verità è che nessuna è in vantaggio e ognuna di noi cerca di cavarsela meglio che può. Quando si tratta di maternità e di femminismo non ci sono percorsi contrastanti, ed è sbagliatissimo perpetrare una cultura che demonizza le altre donne per il fatto di stare percorrendo faticosamente un sentiero differente dal nostro.

Perciò mi pento per il segreto disprezzo di cui la feci oggetto quella sera per via della sua dedizione alla carriera. Mi pento di averla silenziosamente giudicata per avere scelto di evitare la maternità. La perdonerei addirittura, se avesse davvero voluto esprimere pubblicamente la propria derisione per la mia scelta. Tuttavia, non mi pento di avere provato antipatia per lei a causa della sua apparente indifferenza nei confronti degli uccelli, anche se per fortuna il buonsenso sarebbe prevalso. E non intendo scusarmi per avere dato alle stampe la mia idea personale della replica ideale. E va bene così, perché c’è un’altra cosa: si può essere femministe e parlare male delle altre donne, ma forse questo è argomento per un altro libro.

Sono sempre stata troppo egocentrica e irresponsabile per avere figli. So che questo non ha mai fermato molte altre, ma sono una narcisista dotata di coscienza.

DEBBIE KASPER

Quindi…

Prima di procedere, buttiamo via il vecchio Regolamento Femminista. Non è più valido. Le nuove regole sono: non ci sono regole. L’unica cosa che conta è essere gentili con voi stesse e farvi avanti ogni volta che avete la sensazione che gli altri non vi mostrino – o non mostrino a chiunque altro – la stessa gentilezza.

Se state per affrontare la maternità per la prima volta, prendetevi un attimo per ricordarvi i vostri lati positivi. Non per soddisfare il vostro ego, ma perché è importante. Una volta che il bambino verrà al mondo, molto probabilmente occuperà ogni vostro pensiero. Un groppo di emozioni e una prolungata mancanza di sonno, insieme con la forzata astensione da molte delle vostre abitudini, comporteranno il rischio di mettere a margine per un po’ ciò che fa di voi quelle che siete. Il piccolo sarà al centro di tutto. Conviene tenere a mente che cosa è importante per voi, che cosa fa di voi persone pensanti, senzienti, vibranti.

QUALI SONO I VOSTRI MANTRA?

Innanzitutto, creiamo l’atmosfera giusta. Non fatevi venire la tentazione di ascoltare I’ve Never Been To Me di Charlene o I Am Beautiful (No Matter What They Say) di Cristina Aguilera. Ci serve qualcosa di celebrativo.

Facciamo a meno dei loro cliché «madre insoddisfatta»/«moglie irreggimentata». Andiamo oltre: Chaka Khan, I’m Every Woman. E alzate il volume!

Cercate di rispondere onestamente a queste domande:

Queste sono alcune delle cose che influenzano ciò che provate, il modo in cui reagite e vi comportate con gli altri. E incidono anche su come trattate voi stesse: sono quello che vi rende come siete.

Sapere quello che conta per voi è importante, perché fin dall’inizio della gravidanza le pressioni sociali che spingono verso una maternità perfetta sono enormi. Capita a tutte di essere risucchiate dalle opinioni altrui: le madri, le sorelle, i medici, i manuali, i talk show… E così ci mettiamo alla ricerca della dieta ideale, o del concerto di Mozart che con più probabilità ci aiuterà a mettere al mondo un genio musicale.

Un milione di voci diverse, tutte esperte, tutte che ci incitano a tenere a bada i nostri istinti e a fare a modo loro.

Resistete!

L’ineluttabile realtà è che non sarete madri perfette, chi lo è? Ma credetemi, la perfezione non è necessaria. E, soprattutto, il vostro bambino non ha bisogno che siate perfette.

Basta pensare alle persone che ci sono più care: quello che ci lega a loro è la loro individualità complessa, difettosa e autentica. Non le teniamo nella nostra vita per la perfezione che esibiscono sulla loro pagina Facebook. Perciò, conservate gelosamente i vostri tratti distintivi. Non smettete di apprezzarvi per quel che siete. E continuate a lavorarci sopra. Perché è di questo che i nostri figli hanno bisogno.

La gravidanza è un periodo nel quale rilassarsi. Godetevi il posto a sedere sull’autobus. Concedetevi lunghi bagni e cenate con calma, sedute a tavola (fidatevi, passeranno mesi prima che possiate permettervi di nuovo queste due cose). E seguitate a fare quello che state facendo. Perché non dovete puntare alla perfezione. Sarete sufficientemente brave, lo siete già.

A volte la prendo in braccio, la guardo e mi rendo conto che il mio unico compito nella vita è quello di offrirle tutte le possibilità per non finire sulla strada.

CHRIS ROCK