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«Bellissimi capezzoli» e altre insopportabili dottrine

Maternità precoce: aumentare la fiducia in se stesse

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Mi è piaciuto abbastanza avere un bambino, non la metterò giù più pesante di così. Ma non avevo intenzione di permettere alla maternità di interrompere il mio lavoro di archeologa.

MARY LEAKEY

A ventotto anni incappai in una gravidanza mal pianificata. Da sei anni ero professoressa in una scuola superiore vicino a Londra e avevo già una buona posizione. Mi piaceva insegnare, amavo gli studenti, ero appassionata alla mia materia e stimavo quasi tutti i colleghi. Ero pronta per qualcosa di più.

La domanda era: che cosa? Un altro avanzamento di carriera? Assumermi la responsabilità di un dipartimento più grande? Del corpo docente? O fare un bambino?

La maternità mi sembrava ancora un’avventura da persone adulte, ma in qualche modo, una volta che l’idea mi si presentò come una possibilità, mise radici e non si lasciò più cacciare via. Mi ci vollero solo due mesi per rimanere incinta. Avevo preso quantità industriali di acido folico e letto tutti i manuali e le rubriche di consigli in circolazione. Sgomberai una stanza che non utilizzavo, la riempii di tutine per neonati e di pannolini e cominciai a mangiare ossessivamente verdura. Ero pronta.

Perciò, è ancora più strano che non avessi mai riflettuto sulla decisione più importante che tocca alle neomamme. Me lo avevano detto tutti in più di un’occasione: allattare al seno è meglio. Ma d’altra parte ci trovavamo a nord di Londra, in una zona piena di verde e abitata dalla classe media. Accantonai la questione. Il pensiero di tirare fuori le tette in pubblico era terribilmente imbarazzante. C’era tutto il tempo per decidere… In ogni caso, io ero stata alimentata con il biberon: era quello che si faceva in Inghilterra negli anni Sessanta e non mi aveva causato alcun danno.

Quattro settimane prima del termine, partorii l’essere umano più piccolo che avessi mai visto. Pesava poco più di due chili, però, come disse la mia meravigliosa ostetrica: «È minuscolo ma è tosto!» Un’ora dopo aggiunse che era possibile che avesse la sindrome di Down. Risultò che aveva ragione, su entrambe le cose.

Mentre ero ancora in ospedale, scoprii che tutte ci tenevano tantissimo ad allattare al seno. Ogni volta che ci provavo con mio figlio, però, lui rimaneva affamato e si infuriava. Decisi che non ero capace di allattare, ignara che il cromosoma in più influenzava il tono muscolare del mio bambino, rendendogli molto più difficile succhiare. Mi rimproverai per non essere stata capace di mettere al mondo un bimbo perfetto (in realtà è perfetto, solo che non me ne rendevo ancora conto) e di nutrirlo secondo natura. Assalita dal senso di colpa, ovviamente ero molto triste e delusa.

Le ostetriche del reparto capirono che io e mio figlio avevamo bisogno di aiuto e mi attaccarono a una grossa macchina, blu e molto rumorosa. Faceva un male cane.

Una serie di sconosciuti si presentò al mio capezzale per darmi consigli, o per osservarmi, o per far dondolare il mio pargoletto a testa in giù sul palmo di una mano per osservare il suo scarso tono muscolare. Trascorsi gran parte dei primi tre giorni singhiozzando.

Poi arrivò la consulente per l’allattamento al seno. Grande, grossa e americana, parlava a voce molto alta con la testa sempre inclinata, come se le puerpere fossero tutte sorde e stupide. Con un tono da confessionale, disse che aveva sentito che avevo problemi ad alimentare il mio bambino e poi mi esaminò il seno.

«Oh!» esclamò con stupore. «Ma lei ha dei bellissimi capezzoli!» La sua constatazione fu seguita da un attimo di silenzio, e io completai il suo pensiero: Allora, qual è il suo problema?

Persi la pazienza. Volevo essere madre, volevo godermi il mio piccolino, volevo conoscerlo, capire quello che gli serviva e fare del mio meglio per darglielo. Ma nessun altro doveva impicciarsi degli affari miei: c’erano stati fin troppi estranei che mi studiavano i capezzoli, li pizzicavano, cercavano di infilarli nella bocca di mio figlio.

Le dissi quindi di lasciarmi stare, che gli avrei dato il biberon. Avevo bisogno di fare qualcosa in modo facile. Il taglio cesareo era molto dolorante, e così pure le mie tette. Il test dei cromosomi del bambino non prometteva niente di buono e il suo elettrocardiogramma ancora meno. Stava perdendo peso e diventando giallastro, e io volevo nutrirlo in santa pace.

Con il suo accento californiano e un tono accondiscendente, lei disse: «Va bene. Può dargli il biberon». Ma non ero per niente sicura che parlasse sul serio.

Alcune ore dopo stavo ancora singhiozzando, quando un’altra neomamma si avvicinò al mio letto stringendo la sua bambina addormentata. Dopo diciotto anni non ricordo più il suo nome, ma io e lei facevamo parte del gruppo di donne che erano entrate in ospedale alcuni giorni prima del parto a causa della pressione alta. Era di Manchester ed era certa del suo diritto di decidere come comportarsi (tenere in braccio la figlia mentre camminava per il reparto, per esempio, invece di portarla in giro dentro una carrozzina come dettava la polizza assicurativa).

Mi sfogai con lei, riferendole quello che mi aveva detto la consulente per l’allattamento al seno. Lei si arrabbiò molto. «Mandali tutti a quel paese! Lui è piccolino e le tue tette sono grosse. Io sto usando l’Aptamil. Ho letto un po’ di cose. Dicono che è il più simile al latte materno. Dagli il biberon! Che vadano al diavolo!»

Certo, sapevo che l’allattamento al seno è l’opzione migliore per i neonati, ma era assolutamente al di là della mia portata. Con il senno di poi, mi rendo conto che allattare al seno non è la cosa migliore per il bambino se fa sentire la madre inadeguata e incapace di funzionare a dovere.

Naturalmente incolpavo me stessa per tutto quello che stava accadendo. Fu solo due anni e mezzo dopo, quando nacque mia figlia – dotata di un patrimonio genetico tipico – e si attaccò subito al seno (che rifiutò di mollare per i successivi tredici mesi) che compresi quale sfida insormontabile avevano presentato le mie tette per mio figlio.

E solo allora capii perché quel giorno avevo avuto ragione ad arrabbiarmi con la consulente per l’allattamento al seno. Il suo lavoro sarebbe dovuto essere quello di aiutarmi a comprendere il mio figlioletto affamato, assicurarsi che mi rendessi conto che c’erano dei motivi per i quali farlo mangiare era così difficile e che nessuno di quei motivi dipendeva da noi, dandomi i consigli che permettono alle madri di bambini con la sindrome di Down di allattare al seno. E poi, dopo avermi fornito la giusta quantità di informazioni e di comprensione, ritirarsi e lasciarmi fare la mia scelta, senza giudicarmi o provocarmi sensi di colpa. Vera scelta, vero sostegno… Ma non si era comportata così: quella donna mi aveva fatto sentire come se avessi fallito, come se fossi caduta al primo ostacolo che la maternità mi aveva messo di fronte. Mea culpa.

Così, da quel giorno in avanti usai il biberon e, anche se non mi liberai mai del tutto dal senso di colpa, fui contenta della mia decisione. Dare il biberon a mio figlio mi permise di funzionare come lui aveva bisogno che facessi, e a ogni poppata mi innamoravo un pochino di più di lui. Crebbe forte e sano, superò le aspettative di tutti e fece piazza pulita di alcuni stereotipi, diventando un ragazzo sicuro di sé e affascinante.

Negli ultimi diciotto anni ho pensato tante volte alla mia favolosa compagna di reparto di Manchester e ho provato un’enorme gratitudine nei suoi confronti. Una donna che non aveva capito nulla mi aveva fatta sentire imperfetta, ma al momento giusto quella neomamma mi aveva fatto capire l’importanza dell’essere «sufficientemente brava».

Questa sì che è sorellanza!

Quindi…

Fin dai primi giorni, quando siete esauste e non riuscite a immaginarvi se non completamente saldate a quella personcina, dovete tenere a mente questo:

Un sacco di madri farebbero qualsiasi cosa per i propri figli, tranne permettere loro di essere se stessi.

BANKSY

Non fondete la vostra identità con quella di vostro figlio!

Non è affatto come pensavo che sarebbe stato. Pensavo, come è mio solito, che sarei stata in grado di inserirla nella mia vita, ma tutti noi siamo stati inseriti nella sua.

DAWN FRENCH, sull’avere una figlia

Prendete in mano la situazione: stabilite le vostre regole!

Ricordate, non siete costrette a essere…

E non siete obbligate a sentirvi:

NON SIETE COSTRETTE AD ALLATTARE AL SENO!

Gravidanza, parto, notti insonni, capezzoli doloranti e poppate alle tre del mattino… faticoso, eh? È ora di ascoltare un po’ di musica. Per esempio, Do That To Me One More Time dei Captain & Tennille. Potreste sentirvi meglio se cantate a denti stretti, con lo stile di Phil Mitchell in EastEnders.

a. Se temete per le vostre parti intime, date le loro recenti avventure, fatele esaminare da un medico prima di rimettervi in attività. In fin dei conti sembra che tutte si siano fatte dare un’occhiata di recente, no? Prima regola: dovete rimettervi in sesto!