VIK
Sapete di essere brave nel reframing quando state singhiozzando sulla pagina delle offerte di lavoro in un autogrill, a chilometri da casa, e ricevete dal vostro ex capo un messaggio che dice: «Come va il nuovo lavoro?» Al che rispondete: «A meraviglia! Non sono mai stata così felice! E tu come stai? Sgobbi ancora in quel posto infernale?»
Okay, brave a mentire spudoratamente, allora.
Mi ero trovata malissimo in un posto dove ero riuscita a fare un’ottima carriera nell’arco di otto anni. Il gruppo di donne con cui lavoravo era straordinario e volevo un gran bene a tutte, ma stavo esaurendo le energie. Era un’organizzazione di beneficenza e i soldi erano pochi. Come manager, mi spremevano.
Così, un pomeriggio surreale di dicembre, sono a una conferenza a Leicester, esausta, e soccombo al potere seduttivo di una donna molto carismatica, che mi stende con la scia di patchouli che emana e con il suo implacabile ottimismo.
Non ho alcuna possibilità. Sono fottuta.
Un attimo dopo (questa è la mia impressione) sto camminando nei giardini di un hotel raffinato mentre lei mi espone i progetti grandiosi che ha per me e mi prospetta l’enorme divertimento e le avventure che avremo insieme. Io me la bevo.
A un certo punto si allontana per rispondere a una telefonata. Crede che io non la senta, sospetto, ma la direzione del vento la tradisce. Ha un tono gelido. Non so con chi stia parlando, però sono felice che non si tratti di me. Lo stesso vento mi percuote, mi raggela, mi spaventa un po’. Poi smette di soffiare.
Alcune settimane dopo comincio il nuovo impiego, emozionata e piena di aspettative. Sarà un’occasione d’oro, lavorare per un genio creativo, un viaggio liberatorio e molto edificante nel prossimo capitolo della mia vita professionale. Imparerò a respirare invece che a mangiare per superare i momenti di crisi e mi dedicherò ai mantra o allo yoga. Sono una dea!
Il mio addestramento va più o meno così: zero tempo con il nuovo capo. Preparo i panini per gli assistenti. Sento alcune voci interessanti e piuttosto preoccupanti su «quello che succede realmente qui». Comincio a farmi domande su quell’impero, su quel mondo dei sogni in cui credevo di addentrarmi gioiosamente. Ma il primo giorno fa sempre paura, no? Scrivo un messaggio alle mie ex colleghe: «Sarà bello, qui! Neppure un foglio elettronico in vista, ragazze!»
È tardi, e finalmente vedo la mia capa carismatica.
«Bene, adesso devo parlarti delle persone che sono scontente della tua nomina», dice sorridendo e afferrandomi la mano.
Segue una tirata terrificante. I colleghi più anziani – persone con le quali dovevo costruire un rapporto – vengono a poco a poco distrutti dal resoconto di tutte le loro manchevolezze e nevrosi. «Meglio che tu lo sappia subito, no? Sono felicissima che tu sia qui con noi!» Inizio a domandarmi se questo «genio creativo» non sia in realtà solo un tiranno egoista che indossa belle sciarpe. Penso di essermi fatta fregare.
Cosa racconto a mio marito e ai miei figli del mio primo giorno di lavoro?
Riassunto dei dodici mesi successivi
Innumerevoli giornate per strada, cercando di resistere alla tentazione di tornare a casa.
Attacchi di panico.
Diarrea fulminante mentre sono in piscina.
Una dipendenza dal cioccolato bianco.
Un paio di nuove alleate che mi fanno sentire meglio (la sorellanza c’è sempre, ovunque).
Una serata in un centro benessere con una collega che mi dice che un fantasma di nome Sheila è seduto sul mio grembo. Mentre cerco di non ridere mi scappa un po’ di pipì (lei pensa che io sia profondamente commossa).
Una serata ancora più memorabile in cui la grande capa mostra a un gruppo di colleghi esausti un montaggio su DVD che ha realizzato per sua figlia, nel quale lei fa la voce fuori campo. È mezzanotte ma siamo costretti a guardarlo fino alla fine, dopodiché lei dice, estasiata: «Questa bambina ispirerà tutto il mondo». Adesso rido.
Un marito spaventato.
Un piccolo esaurimento nervoso.
Un nuovo lavoro.
Sotto l’effetto dei farmaci, mentre guardavo Cash in the Attic, parlai con mia figlia. Avevo detto ai ragazzi che avevo fatto un grande passo avanti che però si era rivelato un grosso sbaglio. Ero scoraggiata perché pensavo che non sarei riuscita a rimediare a quell’errore e sarei finita a lavorare alla cassa di un discount. Non che ci sia qualcosa di male nel fare la cassiera, mi ero affrettata ad aggiungere. Nel frattempo, ragazzi, sono a casa e sarò supercreativa in cucina con un budget limitato, quindi non abbiate paura.
Prima che arrivasse la nuova offerta di lavoro, mio figlio era rilassato e certo della mia capacità di trovare un impiego. Non cedeva facilmente al panico, era un bambino già adulto, calmo e talvolta insondabile. Mia figlia, allora diciannovenne, era ansiosa e mi scrutava. Così parlammo.
«Mamma, ti rendi conto che quella tipa era sclerata? Non credo che tu avessi la minima possibilità, sul serio. Voglio dire, lo yoga ininterrotto? Non si può gestire un’azienda con stronzate del genere!» disse. Io mi misi a piangere, improvvisamente e copiosamente, e lei temette di avere detto qualcosa di sbagliato, così mi asciugai il naso con la sua manica, dicendo che gliel’avrei fatta pagare, a quella là, e ridemmo e parlammo dei sogni, delle ambizioni e di quello che non andava per il verso giusto.
Non avevo risposte, ma avevo delle esperienze fresche fresche, e gliele raccontai perché ci riflettesse mentre stava per entrare a sua volta nel mondo del lavoro.
I miei figli mi hanno vista lavorare in casa e fuori casa, stare via per parecchi giorni di seguito. Mi hanno vista concedere interviste di prima mattina in televisione, hanno fatto smorfie entrando nel mio studio e scorgendo i peni attaccati con il Velcro alla scrivania (per insegnare, gente), hanno pianto al telefono con me mentre ero lontana centinaia di chilometri perché papà aveva comprato il ketchup sbagliato e stava violando i diritti umani insistendo perché raccogliessero le calze sporche dal pavimento. Le mie amate colleghe, presenti e passate, sono state punti di riferimento nella loro vita. Mi hanno vista fremere di rabbia, soccombere e, di tanto in tanto, avere successo nelle mie imprese professionali (e hanno vacillato di fronte alle mie paure e ai miei fallimenti). Hanno visto il padre fare altrettanto, anche se – non vi mentirò – io sono un po’ più melodrammatica di lui nelle mie reazioni.
Mi sono piaciuti in uguale misura gli anni trascorsi a casa quando i bambini erano piccoli e gli anni al lavoro quando sono cresciuti. Consapevole del fatto che dalle mie scelte, dalle nostre scelte come famiglia, dipendeva la loro sicurezza emotiva, volevo che mi vedessero come una donna illuminata dal suo lavoro e per questo ancora migliore come madre. Avevo molto da raccontare sull’insegnamento e sui miei viaggi di lavoro, opinioni informate, esperienze e la capacità di pagare il mutuo (e le calze sporche non mi turbavano più di tanto). Dovrete domandare a loro se sono stata un modello di ruolo femminista. Prima rideranno un bel po’, badate bene, e poi diranno cose poco gentili e non vere sulle mie reazioni eccessive.
Non è il critico che conta, non la donnaa che indica come la donnaa forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un’azione. L’onore spetta alla donnaa che sta realmente nell’arena, il cui volto è segnato dalla polvere, dal sudore e dal sangue, che lotta davvero… che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di avere osato abbastanza, dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria né la sconfitta.
THEODORE ROOSEVELT, in un discorso pronunciato all’Università della Sorbona, 1910
Quando si tratta di mantenere in equilibrio il lavoro e la famiglia, non ci sono regole. È questione di fare quello che va fatto, seguire l’istinto e procedere con cautela. Ascoltate la grande Ella Fitzgerald che canta It Ain’t What You Do, It’s The Way That You Do It. Anche lei lo sapeva.
Quindi…
- Lavoro e figli: non esiste un copione prestabilito. L’unica certezza è che proverete ogni sorta di emozione e farete ogni tipo di scelta, buona e meno buona. Alcune saranno determinate dalla necessità economica, altre dall’ambizione, altre ancora apparentemente perfette. Non si può mai dire.
- Da tutto ciò i vostri figli possono ricavare lezioni preziose. Sono lezioni su come affrontate le difficoltà. Su come decidete che c’è quasi sempre qualcosa da imparare sia dai trionfi sia dai fiaschi sul lavoro, anche quando vi sentite malconce e miserabili. Ci sono nuove persone da conoscere e c’è da capire chi e cosa evitare in futuro.
- I ragazzi crescono senza imparare come affrontare le sconfitte perché da loro ci aspettiamo la perfezione a scuola e nelle scelte relative al lavoro. Questo è disastroso per quanto riguarda il femminismo, perché le donne sono tenute a essere perfette su tutti i fronti, compreso il loro aspetto. Si pretende che diano l’impressione di non fare alcuno sforzo, nonostante tutto. E questo è disastroso per un essere umano, perché la vulnerabilità è fondamentale. Non avere paura di buttarsi serve a scoprire chi siete e cosa volete. Perciò non mirate alla perfezione, vostra o dei vostri figli: agite e vedete come va. Anche un periodo di lavoro di otto settimane in un negozio serve a qualcosa. Magari a maturare un’avversione definitiva per le casse e i clienti, ma almeno avrete pagato le bollette!
- Quando avete figli, un sacco di gente vi suggerisce come comportarvi riguardo al lavoro e alla maternità. E lo stiamo facendo anche noi. Ma forse quello che stiamo dicendo è semplicemente che potete fare entrambe le cose. In ogni caso, la maggior parte di noi non ha possibilità di scelta. Però ai vostri figli fa molto bene vedervi come una persona distinta da loro, una persona che riceve stimoli e guadagna. Allo stesso tempo, dovete essere presenti nella loro vita. Sta a voi scegliere la formula giusta, a seconda del vostro mondo. Ma non è un processo fluido e senza errori, è un percorso esplorativo lento e faticoso.
- Vi sentirete parecchio in colpa. Perché spesso vi ritroverete in un posto e avrete la sensazione di dover essere in un altro. Magari vi siete perse la lezione di judo di vostro figlio, oppure siete arrivate in ritardo a una riunione perché il vostro bambino non è stato bene. Ma non potete fare tutto, e avere dilemmi è normale. Siete abbastanza. Perciò tiratevi su il morale. Non tormentatevi troppo davanti ai vostri figli: probabilmente loro sanno che vi sentite da cani e sfrutteranno la situazione per ottenere qualcosa in cambio, quindi fate un gioco insieme e andate avanti gioiosamente nonostante la vostra imperfezione.
- Attenzione. A volte il genitore migliore è quello temporaneamente assente. Se dovete andare via per lavoro, fatelo con allegria, perché crescere i figli può essere mortalmente noioso ed è sempre stancante, quindi avere la possibilità di levarsi di torno è un bene! Per loro e per voi. Sarete felici di tornare a casa e avrete meno probabilità di sentirvi male all’idea di aiutarli a fare i compiti (tutto a un tratto ne avrete una gran voglia). Loro hanno bisogno di sentire la vostra mancanza e di potervi raccontare storie nelle quali non comparite, prima che li mandiate a lavarsi i denti. Cospirare con i fratelli durante le vostre assenze serve a rinsaldare i legami fra loro. I vostri figli sono una piccola gang che è riuscita a non morire mentre voi eravate a cena fuori per lavoro. Risultato: una pausa per tutti dalla noia domestica. E un bonus aggiuntivo: a volte altre persone riescono a capire i vostri figli e le loro faccende meglio di voi, specialmente gli adolescenti e i parenti più anziani, quindi accettatelo.
- I discorsi che è essenziale che i bambini sentano sono quelli che danno lo stesso valore alle scelte lavorative di entrambi i genitori, sempre che ce ne siano due e siano un uomo e una donna. Questo principio, che è alla base della comprensione del femminismo, fa sì che i bambini sappiano che uomini e donne possono e devono avere le stesse opportunità di scelta per quanto riguarda le decisioni lavorative e di vita. Vedendolo messo in pratica, ricalcheranno questo schema.