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Nel 1988, Peggy McIntosh ebbe uno di quei momenti di chiarezza che cambiano tutto. Uno di quelli che capitano solo ai grandi pensatori del nostro tempo. Come il meraviglioso, elegante sistema di archiviazione elettronica di sir Tim Berners-Lee, inizialmente ben accolto solo dagli scienziati del CERN e oggi universalmente noto come World Wide Web. Oppure quello che è probabilmente l’atto umanitario più grandioso del Ventesimo secolo, l’opera della tedesca Melitta Bentz, che nel 1908 brevettò per ispirazione divina una macchina per fare il caffè dotata di filtro, consentendo così a generazione dopo generazione di individui insonni di tirarsi sul dal letto al mattino e di funzionare grazie a una tazza di caffè.
McIntosh e questi altri hanno un dono. Mentre noi crediamo allegramente di sapere tutto quello che conta su una cosa, loro scoprono un modo completamente nuovo di vederla. Cambiano tutto.
Peggy era una docente universitaria, una scrittrice e una femminista, e lavorava negli Stati Uniti quando si rese conto che ciò che impediva ai suoi dotti colleghi maschi di considerarsi femministi non era il fatto che non capissero il senso dell’eguaglianza, della diversità o dell’equità. Era che non riuscivano a considerarsi (parliamo di uomini bianchi colti) privilegiati in confronto alle donne. Ma a lei era chiarissimo che lo fossero. Vedeva quello che descriveva come «un invisibile zaino senza peso pieno di certezze, strumenti, mappe, guide, cifrari, passaporti, visti, abiti, compasso, equipaggiamento d’emergenza e assegni in bianco» in possesso di ciascuno dei suoi colleghi maschi bianchi. Sapeva anche che gli americani di colore lo avrebbero visto chiaramente quanto lei.
Era già tanta roba, ma la vera genialità dell’idea di Peggy stava nel ragionamento successivo. Se gli uomini che lavoravano con lei non vedevano questo zaino, si domandò, che cosa non vedeva lei? Qual era il contenuto invisibile del suo zaino di privilegi? E se neppure lei avesse visto i vantaggi dei quali godeva?
Il risultato di questa riflessione fu il suo saggio rivoluzionario White Privilege: Unpacking the Invisible Knapsack (Privilegio bianco: svuotare lo zaino invisibile), nel quale Peggy identificava non gli «atti meschini» compiuti nei confronti degli americani non bianchi, ma i benefici meno tangibili di cui gli americani bianchi godevano ovunque senza nemmeno rendersene conto. Poter contare sul fatto che i tuoi vicini siano nel peggiore dei casi «neutrali» nei tuoi confronti quando ti trasferisci in un nuovo quartiere. Trovare i tuoi cibi preferiti sugli scaffali del supermercato locale. Vedere conduttori televisivi, poliziotti e politici con il tuo stesso colore della pelle.
Peggy si rese conto che mentre aveva dedicato tanta attenzione agli zaini dei suoi colleghi, quelli che contenevano i privilegi maschili, aveva trascurato il fatto che anche lei aveva uno zaino, con su scritto: «Caucasica». E con disappunto lo aveva trovato pieno.
Grandi cose sono possibili quando cominci a cercare di vivere la tua vita prendendo in considerazione quello che hai e che gli altri non hanno. Soprattutto quando inizi a usare il tuo invisibile kit di attrezzi in nome di ciò che è dovuto, e specialmente quando lo usi in nome di ciò che è dovuto agli altri.
Mi viene in mente l’incidente della piscina della scuola. Mio figlio aveva dodici anni. Era inverno. La piscina era all’esterno e quindi non veniva utilizzata, ma quel giorno era stata riempita per via di indispensabili lavori di manutenzione. Quando gli addetti si allontanarono per una pausa, nessuno di loro notò che il cancello che dava accesso alla piscina era aperto.
Mio figlio se ne accorse. E anche un gruppo di suoi compagni più piccoli. Chiamavamo questi bambini il suo «Fan Club», e per mio figlio erano importanti. La sindrome di Down poteva avergli reso più difficile partecipare alle loro conversazioni, ma questo non diminuiva il suo desiderio di ottenere la loro attenzione. Mio figlio avrebbe fatto qualunque cosa per farli ridere.
Io mi trovavo sulla corsia esterna della M4, a metà strada da Londra, con una collega, quando il mio cellulare squillò. Era la scuola. La mia collega rispose per me.
A quanto pareva, mio figlio si era avvicinato al bordo della piscina tenendo in braccio un bambino più piccolo e l’aveva buttato, completamente vestito, nel punto dove l’acqua era più profonda. Come se il fatto non fosse già abbastanza grave, aveva scelto l’unico bambino della scuola che non aveva ancora imparato a nuotare. Mi dissero che il bimbo stava bene – era traumatizzato però stava bene – ma mio figlio era nei guai.
Ero mortificata. Era una novità, anche per mio figlio. (I genitori che non hanno un figlio con disturbi dell’apprendimento che frequenta una scuola tradizionale probabilmente non conoscono il terrore di qualche infrazione grave, insieme con il costante timore di un’imminente espulsione definitiva.) Prima di allora non aveva mai fatto nulla che potesse mettere in pericolo la vita di qualcuno. (Okay, ignorava che quel bambino non sapesse nuotare. E a quanto pareva aveva capito subito di avere bisogno di aiuto per tirarlo fuori. E il cancello non sarebbe dovuto essere aperto. Ma insomma…)
Ovviamente, difficoltà di apprendimento o meno, la scuola era intervenuta. Ero terrorizzata. Il giorno successivo, però, accaddero due cose. La prima fu davvero notevole.
Innanzitutto, una buona porzione degli alunni più giovani ritenne che le azioni di mio figlio fossero state eroiche. Si trattò di una specie di comica ribellione su larga scala, e lui fu subito messo su un piedistallo (crearono addirittura una pagina Facebook dedicata a lui, dichiarandolo «una leggenda»). Cercare di far capire a mio figlio l’errore che aveva commesso fu reso più difficile dal fatto che il bambino che era stato buttato in piscina stava benissimo («Non è successo niente, eh, mamma?») e ancora più arduo dalle pacche sulle spalle e altri segni di approvazione che riceveva in tutta la scuola.
Ma stava accadendo anche qualcos’altro. I bambini che conoscevano meglio mio figlio, quelli che erano cresciuti con lui fin da quando aveva quattro anni, vedevano l’accaduto da una prospettiva particolare. Erano assolutamente certi che non avesse avuto cattive intenzioni.
Questi bimbi fantastici svilupparono la convinzione che a mio figlio non sarebbe mai venuta l’idea di fare una cosa del genere. Qualcun altro doveva avergliela suggerita. E cominciarono a prendere le sue parti davanti al corpo insegnanti. Insistettero sul suo buon carattere, citarono episodi precedenti, meno gravi, nei quali era stato istigato, e pretesero che si cercassero i responsabili.
In un primo momento gli insegnanti chiesero spiegazioni a mio figlio, ma all’età di dodici anni lui non era in grado di raccontare cosa fosse realmente accaduto. In ogni caso, non ne ebbe bisogno. I suoi compagni dissero che le telecamere interne avrebbero chiarito la verità. Il suo insegnante di sostegno restò colpito e si mise a lavorare sul caso. Dopo avere esaminato ore di registrazioni, finalmente si trovò quel che si cercava. Un gruppetto di ragazzini appostati nelle vicinanze della piscina. Ragazzini che sapevano di non dover varcare il cancello ma che non avevano scoraggiato mio figlio dal farlo.
Ecco la bellezza di un’educazione che accetta la diversità. Nel tempo gli amici di mio figlio avevano imparato a conoscerlo, e avevano imparato anche a svuotare il proprio zaino. Avevano fatto amicizia con un bambino che aveva tanto da dare ma meno attrezzato di loro. E adesso avevano trovato il coraggio di prendere le sue difese.
I loro genitori potevano essere orgogliosi: quei ragazzini erano davvero in gamba. Avevano imparato, stando semplicemente a guardare, come si sarebbero dovuti comportare. E che è bello lottare per la giustizia e comportarsi correttamente con le persone. Pubblicamente.
Il saggio di Peggy non era semplicemente un esercizio accademico estremamente creativo, era una chiamata alle armi. Aveva messo davanti allo specchio chiunque si fosse ritenuto giusto ed equo e ci sfidava a non guardare solo i nostri svantaggi ma anche i nostri privilegi, a vederci in un contesto più ampio.
Per accettare davvero la diversità dobbiamo prima riconoscere il potere e le libertà che sono nel nostro zaino e poi arrabbiarci in nome di quelli che non hanno gli stessi vantaggi. Questo, secondo me, deve essere alla base del moderno femminismo. Dobbiamo lottare per ciò che è dovuto, a chiunque, ma dobbiamo farlo con vera integrità, un po’ di umiltà e tanta empatia. Di certo, nessun genitore può respingere un compito del genere.
(Mio figlio, se ve lo state domandando, è davvero una leggenda, ma non perché ha buttato nella piscina della scuola, completamente vestito, un bambino che non sapeva nuotare. Scrisse una lettera di scuse, si beccò una bella ramanzina e per breve tempo finse di voler fare il bagnino. Non ho idea se l’esperienza abbia finalmente convinto l’altro bambino a imparare a nuotare, ma lo spero… non tutto il male vien per nuocere e così via.)
Siamo tutti avvantaggiati e svantaggiati dalle circostanze della nostra nascita. Tutti abbiamo una combinazione di entrambe le cose. E cambia di minuto in minuto, a seconda di dove siamo, di chi vediamo o di cosa dobbiamo fare.
PEGGY MCINTOSH
Nessuno può darti eguaglianza né giustizia né altro… Te le prendi.
MALCOLM X
Quindi…
- È tutta una questione di empatia, la capacità di riconoscere un’ampia gamma di emozioni quando le sperimenti tu stesso e quando le vedi sul volto delle persone che ti stanno attorno. La ricerca suggerisce che i bambini empatici se la cavano meglio: prendono decisioni più sagge, che vanno a loro beneficio ma non hanno un impatto negativo sui sentimenti degli altri. Più resilienti, sono meglio attrezzati per resistere alle prepotenze, alla pressione dei coetanei e agli ostacoli. E tendono ad avere risultati migliori negli studi. Ma soprattutto, le persone empatiche sono semplicemente più simpatiche. È bello frequentarle, lavorare e vivere con loro.
- Il messaggio principale qui è sempre lo stesso: date l’esempio. Per crescere ragazzini empatici dobbiamo essere a nostra volta empatici e compassionevoli. Naturalmente possiamo spronare i bambini con le parole, ma nessuna dose di chiacchiere, per quanto massiccia, contribuirà ad alimentare l’empatia e la compassione nei nostri figli a meno che non ne vedano in abbondanza nelle nostre interazioni con loro e con gli altri, ogni giorno. Quindi date l’esempio.
- Si comincia da subito. I genitori empatici fanno il possibile per rispondere ai bisogni emotivi del proprio bambino appena nato. Il bimbo che viene confortato quando prova dolore, rassicurato quando è nervoso, incoraggiato quando è esitante, avrà la sensazione che le sue emozioni siano importanti. Questo significa che crescendo avrà più probabilità di vedere che anche le emozioni di chi lo circonda sono importanti. È logico.
- Mentre i vostri figli diventano grandi, siate pazienti quando qualcuno commette errori in vostra presenza. Parlate dell’effetto che fa essere la persona che sbaglia. Siate compassionevoli. Poi chiedete ai vostri figli di partecipare alla conversazione. Quando mostrano empatia, complimentatevi con loro. «Oh, è proprio un bel modo di guardare questa cosa. Hai ragione, sì, lui deve essersi sentito cattivo/sciocco/preoccupato.»
- Non siamo sempre gentili, purtroppo non lo siamo. Ci sono comunque occasioni in cui perdiamo le staffe, quando siamo stanchi e qualcuno peggiora la situazione mettendoci del suo. E qualche volta questo accadrà davanti ai bambini. Ma va bene così. Quello che importa non è essere compassionevoli ed empatici in ogni istante, ma scusarci davanti ai figli quando sbagliamo. Nessuno di noi è perfetto, e va bene così. Siamo sufficientemente bravi. Quando commettiamo un errore, ciò che conta di più non è quello che abbiamo fatto ma quello che facciamo dopo. Perciò, dite le cose come stanno. «Non è stato giusto da parte mia. Ero stanca e me la sono presa con mamma/papà/nonno/nonna/il tizio in coda davanti a noi. Mi spiace, questo deve avervi rattristati tutti.»
- Complimentatevi molto con le persone, compresi i vostri figli. Non in modo superficiale – «Ehi, quel vestito ti sta benissimo!» – ma dicendo cose che contano, che aiutano a diventare adulti. «Sull’autobus hai fatto passare quella signora anziana. Sei stato molto gentile.» Oppure: «Sono felice che oggi al parco tu abbia diviso la merenda con la tua amica. Pensi che fosse triste perché tu l’avevi e lei no?»
- Allo stesso tempo, non esagerate con i complimenti: se ne fate troppi, perdono incisività. E poi, diventa strano.
- Dite cose tipo: «So che sei arrabbiato perché vuoi giocare con quel giocattolo, ma non va bene lanciare gli oggetti». Non dite: «È una brutta cosa».
- Dite cose tipo: «So che sei arrabbiato con tuo fratello perché ti ha portato via il panino, ma come pensi che si senta ora che lo hai colpito? Cosa puoi fare adesso per farlo sentire meglio?» Non dite solo: «Chiedigli scusa».
- È molto importante che vi prendiate il tempo per costruire il vocabolario affettivo di vostro figlio. Le emozioni sono complicate, quindi perché lasciar fare al caso? Perché dare per scontato che fra l’età di uno e vent’anni capiscano tutto per osmosi sociale? No, affrontate la questione di petto. Lavorate sulle emozioni. Provate qualcuna di queste cose:
- Sfogliate le riviste con i vostri figli e ritagliate le facce che esprimono determinate emozioni. Attaccatele su un cartellone.
- Quando leggete loro le favole, parlate di come le azioni dei personaggi fanno sentire gli altri. Nominate le emozioni. Tirate fuori il cartellone delle emozioni e trovate le corrispondenze.
- Quando i vostri figli diventano più grandi, fate conversazioni simili a proposito dei film e dei libri.
- Quando parlano dei traumi adolescenziali, discutete con loro delle emozioni di chiunque abbia avuto un comportamento scorretto. Fate in modo che vedano il problema dalla prospettiva dell’altra persona e poi cercate di stabilire insieme se questo cambia qualcosa.
Provate prima a comprendere, poi a essere compresi.
STEPHEN R. COVEY
Empathy di Alanis Morissette è un’ode agli empatici di ogni dove, alle belle persone che fanno sentire notati e compresi quelli che si sentono soli e invisibili. È il pezzo perfetto da ascoltare in questo momento. Perché è così che vogliamo che siano i nostri cari, no? Splendidi!