CAPITOLO NONO
LA VIGILIA
Il Fronte democratico popolare di Togliatti e Nenni non comprendeva soltanto i comunisti e i socialisti. Vi erano incluse formazioni minori, come la Democrazia del lavoro, il Partito cristiano sociale – flebile contraltare trasformista della Democrazia cristiana – e anche elementi socialdemocratici e repubblicani. Questa tecnica d’un blocco – antifascista, resistenziale e laico – che si opponesse alle bieche forze dell’oscurantismo, riecheggiava – ed era, alla luce di ciò che andava accadendo, un’eco per più motivi sinistra – altre coalizioni «democratiche» attuate e imposte nei Paesi dell’Est. Nelle liste uniche «popolari» a più voci, contavano solo le voci comuniste e socialiste. Si sarebbe poi visto anche in Italia alla luce dei risultati che il PCI aveva tutto organizzato per farsi la parte del leone: nella vittoria, se ad essa si fosse arrivati, ma anche nella disfatta che invece si avverò. Sulla trincea opposta stava essenzialmente la DC, cui in caso d’esito incerto si sarebbero affiancati i socialdemocratici, i repubblicani, e i conservatori dell’alleanza stretta tra i liberali e l’Uomo Qualunque.
Le elezioni del 18 aprile erano un avvenimento decisivo, quale che fosse l’angolazione da cui lo si considerava. Walter Lippmann ne individuò con molta lucidità, in uno scritto della vigilia, la straordinaria importanza. «Dopo la seconda guerra mondiale» scrisse «l’Armata Rossa è avanzata fino al centro dell’Europa. Tutti i Paesi rimasti alle sue spalle sono stati sottoposti al dominio comunista. Ma fino a oggi nessun Paese che non sia stato occupato o circondato dall’Armata Rossa è diventato comunista… Se il popolo e il governo italiano si arrendono ora al comunismo, l’Italia sarà il primo Paese in cui la sola quinta colonna comunista, separata dalle altre quattro colonne dell’Armata Rossa, sarà riuscita a conquistare uno Stato moderno. Il risultato in Italia dimostrerà dunque se il Cremlino può o meno assicurarsi il controllo dell’Europa attraverso la guerra fredda.» Questo era il dilemma. È molto facile parlare oggi di atmosfera isterica, di toni apocalittici del Clero, di metodi propagandistici che arrivavano al ricatto: ricatto della fame (se votate Fronte popolare gli Stati Uniti non ci aiuteranno più), o ricatto religioso (la scomunica per gli aderenti al blocco socialcomunista). La posta legittimava ogni mezzo. Dall’una e dall’altra parte ci si batté con il randello, non con il fioretto: si può riconoscerlo e magari deplorarlo, aggiungendo peraltro che le caratteristiche della lotta imponevano quel comportamento.
La Chiesa si batté in prima linea ammettendo e addirittura ostentando questo suo interventismo che in taluni momenti dovette parere eccessivo anche allo stesso De Gasperi. Pio XII aveva già detto che la scelta era «con Cristo o contro Cristo». I Vescovi di grandi diocesi – Ildefonso Schuster a Milano, Giuseppe Siri a Genova, ma anche altri – precisarono che costituiva peccato mortale sia il non votare sia il votare «per le liste e per i candidati che non danno sufficiente affidamento di rispettare i diritti di Dio, della Chiesa e degli uomini». La distinzione, che sarebbe venuta con Giovanni XXIII, tra l’errore e l’errante, era sconosciuta a questa dura impostazione. I presuli presero cura di precisare che il comunismo era contrario alla fede – a coloro che ne condividevano l’ideologia doveva essere negata l’assoluzione – «anche quando si presenta, come attualmente accade, sotto spoglie che non sono sue».
In apparenza il legame tra la Democrazia cristiana e la Chiesa – che era operativamente un legame tra la Democrazia cristiana e le parrocchie – assicurava una penetrazione capillare nell’universo dei credenti al messaggio politico democristiano. Esisteva inoltre l’Azione cattolica, che il fascismo aveva compresso e condizionato ma mai soppresso, ed esisteva la SPES, il Servizio propaganda e studi della DC sorto a metà del 1947 proprio per rendere più efficace l’azione del partito. In questa struttura Pio XII e il suo prosegretario di Stato, monsignor Montini, dovettero tuttavia avvertire lacune e debolezza. Si affidarono allora a Luigi Gedda, presidente degli uomini di Azione cattolica, per la creazione, nel febbraio del 1948, dei Comitati civici.
Luigi Gedda, uno studioso che era stato allievo del famoso endocrinologo Pende, e che si era specializzato in ricerche sui gemelli, era l’esponente di un integralismo cattolico esasperato. Dal ’34 al ’46 aveva diretto, con indubbio talento organizzativo e slanci mistici, il settore giovanile dell’Azione cattolica, per essere poi preposto agli uomini di AC. Era ambizioso, e probabilmente riteneva che le sue qualità meritassero più alti riconoscimenti: ne faceva fede una lettera – rimasta senza risposta – che indirizzò a Badoglio, dopo il 25 luglio 1943. «Le forze dell’Azione cattolica moralmente sane, di provata fedeltà alla patria e scevre di passionalità politica» proponeva «possono essere vantaggiosamente impiegate.» E indicava una vasta gamma di utilizzazioni, che avrebbero portato l’Azione cattolica a surrogare la Gioventù italiana del Littorio, l’Opera nazionale dopolavoro, l’Opera nazionale maternità e infanzia, e via dicendo. Infine Gedda si dichiarava pronto a suggerire persone idonee a dirigere l’EIAR (la RAI dell’epoca) per «controbattere la propaganda sovversiva del fuoriuscitismo comunista favorita dalle radio straniere le quali fanno opera di disfattismo spirituale, patriottico e politico».
Quest’uomo impastato di fede e di arrivismo era però riuscito a radunare in piazza San Pietro, davanti al Papa, nel settembre del 1947, settantamila «baschi blu» (il colore, spiegò, gli era stato ispirato dal gran mazzo di fiordalisi offerto alla Madonna di Lourdes, durante un pellegrinaggio) e in altre occasioni masse imponenti di baschi verdi, creati poco dopo. Pio XII fu conquistato dalla sua sicurezza e dalla sua fermezza. De Gasperi ne era più impensierito che affascinato. Pensava in particolare agli interessi della DC, al pericolo d’un secondo partito cattolico, alla concorrenza dei Comitati civici nella raccolta di fondi elettorali.
Gedda, forte del placet Vaticano, si diede a tessere una rete di trecentomila volontari affiancati alle ventiduemila parrocchie italiane. E ritenne sempre d’aver avuto un ruolo determinante nel successivo trionfo. «Il 18 aprile» dichiarò «è stata una bella pagina scritta dall’Italia cattolica, un’Italia che per quasi un secolo era rimasta in stato di clandestinità. La vittoria fu della DC, ma questa fu la veste di circostanza della protagonista, l’Italia cattolica che si era andata preparando da almeno tre generazioni a questo grande momento… Dovevamo svegliare il gigante addormentato, chiarirgli le idee, spingerlo a raccogliere l’indimenticabile appello del Vicario di Cristo.»
I dirigenti democristiani del tempo tendono a ridimensionare, se non a minimizzare, l’apporto dei Comitati civici, rilevando, come Gonella, che «la nostra forza veniva dalle parrocchie… e anche senza l’intervento di Gedda questo appoggio non ci sarebbe certamente venuto a mancare». Andreotti ha riconosciuto ai Comitati civici un contributo prezioso nel «portare la gente a votare», insegnare ai meno colti dove bisognava mettere la croce, coniare slogan efficaci come «coniglio chi non vota», in riassunto «scuotere gli strati più assonnati della popolazione». Le sinistre, e i radical-chic che hanno in odio il 18 aprile, insistono sui risvolti superstiziosi e pittoreschi di quella mobilitazione e ricordano «le Madonne che piangevano e muovevano gli occhi». Ma c’era ben altro.
C’era anzitutto il netto miglioramento della situazione economica, dovuto insieme alla politica di risanamento einaudiana e al consistente appoggio americano. Ormai la crescita dei salari aveva sopravanzato quella del costo della vita (rispetto al 1939 il rapporto nella primavera del 1948 era di 1 a 49 per il costo della vita, di 1 a 51 per i salari). Non mancavano gli elementi negativi, come la crescita dei disoccupati di mezzo milione d’unità, ma la gente avvertiva che l’Italia stava economicamente risorgendo. E avvertiva inoltre che questo slancio avrebbe perso ogni vigore qualora l’Italia avesse votato per il Fronte.
Nel periodo tra la metà del ’47 e la metà del ’48 – che richiedeva una saldatura tra gli aiuti dell’UNRRA, finiti, e gli aiuti del piano Marshall, ancora da iniziare – Washington destinò all’Italia un contributo di emergenza di trecento milioni di dollari, essenzialmente in alimentari e medicinali. Fu stabilito che l’arrivo in un porto italiano di ogni centesima nave di aiuti fosse celebrato con una cerimonia cui intervenisse il dinamico ambasciatore Dunn. I comunisti ne trassero spunto per accusare l’ambasciatore di essersi trasformato in propagandista della DC: e sostennero che l’Italia vendeva agli Americani la sua indipendenza in cambio di cibo.
Ma gli Italiani, che non sono sciocchi, sapevano che l’URSS non avrebbe mai voluto né potuto fare alcunché di simile: e che se, per pura ipotesi, l’avesse fatto, la gratitudine comunista per il generoso gesto del Paese del socialismo avrebbe di gran lunga superato, in servilismo e piaggeria, ogni manifestazione filoamericana. Dunn, – chi può negarlo? – collaborò apertamente con il governo, ossia con la DC. Ogni opera e iniziativa finanziata dagli USA nasceva tra discorsi inneggianti all’amicizia italo-americana e all’opera del governo De Gasperi. Sarebbe stato strano fosse avvenuto il contrario. L’America intera – gli Italoamericani in particolare, ma anche gli altri – si sentiva coinvolta nella contesa elettorale; centinaia di migliaia di Americani – sollecitati da una campagna insistente e intelligente – inviarono lettere a cittadini italiani, di loro conoscenza o non, per esortarli a non dare un voto – al Fronte – che avrebbe significato l’esclusione dell’Italia dal piano Marshall, il blocco all’emigrazione italiana negli Stati Uniti, e anche, per completare la rosa dei castighi, la maledizione di Dio. Dove si può supporre che la minaccia trascendente contasse assai meno di quelle concrete e attuali.
Il Fronte, conscio del peso che la minaccia di interruzione degli aiuti americani poteva avere sulle elezioni, tentò di parare il colpo: e andava spiegando – a mezza bocca i comunisti, ammanettati a Mosca che del piano Marshall era nemica, un po’ più chiaramente i socialisti – che quand’anche le sinistre avessero vinto, gli invii USA sarebbero stati bene accettati. La contromosssa americana fu risoluta. Con una serie di dichiarazioni sempre più perentorie il governo di Washington – direttamente o attraverso indiscrezioni di stampa lasciate volutamente filtrare – ammonì gli Italiani: non potrete, diceva in sostanza, essere nemici dell’America e mungerla nello stesso tempo. Finché venne una conferenza stampa in cui Michael McDermott, alto funzionario nel Dipartimento di Stato, dissipò ogni possibile equivoco. «I comunisti in Italia hanno sempre detto di non volere l’ERP [European Recovery Program, etichetta ufficiale del piano Marshall, N.d.A.]. Se i comunisti vinceranno – cosa che non possiamo credere, conoscendo lo spirito e lo stato d’animo del popolo italiano – non si porrà più il problema di un’ulteriore assistenza economica da parte degli Stati Uniti.»
Nel caso non bastasse, il generale Marshall in persona intervenne a Berkeley il 20 marzo 1948: «Dato che l’associazione all’ERP è completamente volontaria, i cittadini di ogni Paese hanno il diritto di cambiare idea e, in effetti, di ritirarsi. Se decidono di votare per mandare al potere un governo nel quale la forza politica dominante… ha spesso, pubblicamente ed enfaticamente proclamato la propria ostilità per questo programma, questo voto potrebbe essere giudicato solo come una prova del desiderio di tale Paese di dissociarsi dal programma stesso. Al nostro governo non rimarrebbe che prendere atto che l’Italia si è tagliata fuori dai benefici dell’ERP».
Queste prese di posizione furono vituperate dalle sinistre come ricattatorie. In questa ottica tutta la politica internazionale è ricattatoria, specie nei rapporti bilaterali. Il ricatto americano aveva almeno una particolarità positiva: domandava al popolo italiano di decidere, con il voto, cosa dovesse essere dato, e cosa dovesse essere ottenuto. Ai popoli dell’URSS e dei satelliti questa facoltà di scelta, per il piano Marshall, era stata negata.
La strategia occidentale per influire sulle elezioni non poteva ignorare né la ferita giuliana, tuttora sanguinante, né in generale le dure condizioni del trattato di pace. Agli Americani si associò volonterosamente, su questo terreno, il ministro degli Esteri francese Bidault, che a un certo punto parve perfino disposto a restituire una parte dei territori alpini tolti meschinamente all’Italia, e propose che fossero ridate all’Italia stessa, senza condizioni, le vecchie colonie (ma qui si scontrò con un inflessibile diniego inglese). Il perno delle iniziative restava comunque Trieste, dove il Territorio libero tardava a prendere forma, e non si era ancora arrivati alla designazione di un governatore. Gli Occidentali temevano tra l’altro – in base a rapporti probabilmente infondati dei loro diplomatici – che l’URSS potesse giuocare d’anticipo, e pronunciarsi per un ritorno della zona A all’Italia.
Il 20 marzo (1948) Bidault s’incontrò a Torino con Sforza e gli comunicò, anche a nome degli Americani e degli Inglesi, una nota in cui si proponeva che il Territorio libero tornasse sotto la sovranità italiana. Poiché era fuori discussione che gli Jugoslavi cedessero la zona B, il passo riguardava in sostanza la zona A. L’URSS, cui la nota era anche diretta, esitò a rispondere, e quando lo fece il suo fu un niet appena camuffato da formule giuridiche. Nenni commentò che «i tre regalano ciò che non hanno (la sorte di Trieste dipende dalla Jugoslavia) e si tengono quello che hanno (Briga, Tenda, le Colonie)». L’«Unità» si scagliò contro il «volgare tentativo di trascinare l’Italia in un’atmosfera di guerra». La nota tripartita ebbe per il momento valore platonico sulla sorte di Trieste: probabilmente non solo platonico sul voto.
Qualcuno – ad esempio Antonio Gambino nella sua Storia del dopoguerra – ha dedicato molta attenzione all’ipotesi d’un intervento militare americano se il Fronte avesse prevalso. A Washington la fiducia – per la verità crescente a mano a mano che il 18 aprile si avvicinava – si alternava a fasi di pessimismo. I pronostici degli esperti davano al Fronte tra il 37 e il 45 per cento dei suffragi, nessuno osò prevedere quanto sarebbe stata bassa la sua marea, coincidente con l’altissima marea democristiana. Il Dipartimento di Stato e il Consiglio nazionale di sicurezza, organismo quest’ultimo che è alle dirette dipendenze del Presidente, esaminarono in diversi documenti le opzioni che potevano presentarsi in vista del 18 aprile. Non mancarono opinioni drastiche e avventurose, come quella di George Kennan, allora direttore del Policy Planning Staff, che si domandava se al governo italiano non convenisse mettere fuori legge il Partito comunista, rimandando sine die le elezioni. Secondo Kennan una guerra civile, cui sarebbe seguito l’intervento militare americano, con una possibile divisione dell’Italia, «sarebbe preferibile a una vittoria elettorale (del Fronte) senza spargimento di sangue e senza nostra opposizione che darebbe ai comunisti l’intera Penisola e disseminerebbe il panico nelle aree circostanti». Ma il Dipartimento di Stato annotò, a lato di questa relazione, che le idee in essa espresse erano «poco sagge». L’autore della postilla volle probabilmente usare un eufemismo.
Il Consiglio nazionale di sicurezza – che aveva ben presenti, non dobbiamo dimenticarlo, le esperienze dei Paesi dell’Est – stabilì, nella più dura tra le sue indicazioni, che in caso di dominio comunista del governo italiano «con mezzi legali» si potesse ricorrere a una mobilitazione parziale delle Forze Armate americane anche ripristinando la coscrizione obbligatoria «come chiara indicazione della decisione degli Stati Uniti di opporsi all’aggressione comunista e di proteggere la sicurezza nazionale». Era consigliato inoltre che gli USA rafforzassero le «posizioni militari nel Mediterraneo» (ossia, ne deduce arbitrariamente Gambino, avrebbero staccato dall’Italia la Sicilia e la Sardegna) e inoltre fornissero «ai gruppi clandestini anticomunisti assistenza finanziaria e militare». È evidente da questo contesto che il Consiglio nazionale di sicurezza fondava le contromisure sul presupposto che si fosse consolidato in Italia un regime comunista «tipico», ossia oppressivo e intimidatorio: tale cioè da costringere gli oppositori ad agire nella clandestinità. In questo scenario estremo le misure ventilate sono rimarchevoli più per il loro grado di prudenza che per quello di interferenza nelle vicende italiane.
«Il Fronte vince – vota Fronte.» Questo era lo slogan primario dell’alleanza socialcomunista, corredato da altre parole d’ordine accessorie che insistevano sulla soggezione del governo a forze estranee e reazionarie (gli Stati Uniti, il Vaticano) e sulla dubbia italianità dello stesso De Gasperi il cui cognome veniva distorto in Von Gasper. L’affluenza ai comizi di sinistra era immensa, e i leader più emotivi ne erano ubriacati. Il Fronte contrapponeva il suo radioso futuro progressista al capitalismo clericale e austriacante del governo, imputava a De Gasperi le concessioni agli imprenditori con l’arricchimento ruggente di molti, il colpo di spugna sull’epurazione, il tradimento della Resistenza. Gli intellettuali s’erano schierati largamente con le sinistre; un appello lanciato dall’Alleanza per la cultura aveva raccolto quattromila firme. Molte erano di opportunisti e conformisti i quali sapevano che se la DC avesse vinto, la loro adesione allo schieramento opposto non li avrebbe pregiudicati, mentre se avesse vinto il Fronte l’averlo subito preferito sarebbe stato di enorme vantaggio. Ma si contarono tra i firmatari anche uomini eminenti che in nome del laicismo e della tradizione risorgimentale e anticlericale finivano per identificare la libertà di pensiero con le sinistre, e l’oscurantismo con De Gasperi e i suoi alleati. Così figurarono nelle liste Arturo Carlo Jemolo, Giacomo De Benedetti, Guido Calogero, Giacomo Devoto.
L’ottimismo dei leader non era soltanto di maniera. Secondo Nenni «le prospettive del Fronte stanno tra la certezza della maggioranza relativa e la possibilità della maggioranza assoluta». Da un riassunto pubblicato dall’«Unità» la mattina stessa del voto risultava che tutti i «federali» comunisti esprimevano la fiducia in avanzate massicce, uno scatto in avanti dall’otto al dieci per cento nel Lazio e in Abruzzo, abbondanti maggioranze assolute in Toscana, in Emilia, in Liguria, in Piemonte, forti affermazioni anche nel Sud.
A posteriori Giancarlo Pajetta spiegò che i comunisti, avendo visto che il loro appello «era stato accolto anche da gruppi di socialdemocratici, di cattolici di sinistra, di repubblicani, di intellettuali progressisti», erano convinti «di essere riusciti a ricreare un’atmosfera simile a quella del CLN» e le piazze plaudenti «ci confermavano nella certezza di avere con noi la maggioranza del Paese…».
Tale era la fiducia in un successo che Togliatti e Nenni si posero il problema della Presidenza del Consiglio. Lelio Basso ne discusse con entrambi e, rievocando quei conciliaboli, rivelò poi che secondo Nenni il posto toccava senza dubbio ai socialisti, mentre Togliatti, cauto e insinuante, obiettava che in teoria un socialista sembrava più indicato d’un comunista per occupare quella poltrona senza allarmare i ceti medi, ma che, essendosi Nenni «qualificato come un estremista», forse la moderazione da lui stesso (Togliatti) dimostrata «lo rende ormai accettabile a larghi strati della borghesia». Da altre fonti fu invece riferito che i socialcomunisti pensavano a un Presidente del Consiglio indipendente, o alla designazione d’un democristiano di sinistra come Gronchi (il che implicava evidentemente una sorta di «compromesso storico» ante litteram).
Vi fu anche una querelle preelettorale sul comportamento che il Capo dello Stato avrebbe dovuto tenere nel caso il Fronte avesse avuto la maggioranza relativa. I socialcomunisti sostennero che De Nicola fosse tenuto, come primo atto, a offrire l’incarico di formare il governo a un esponente della formazione più forte (il problema sarà riaffacciato negli anni ’80, quando diventerà concreta l’eventualità di un sorpasso comunista in danno della DC). La DC era di tutt’altro avviso, e affermava che in una repubblica parlamentare non conta l’entità numerica del partito più forte, ma l’entità numerica di una possibile concreta maggioranza.
De Nicola non rappresentava, contro quella che i democristiani e i loro alleati consideravano un’insidia politica, giuridica e costituzionale, una buona difesa, anzi. Citiamo dal Da Vittorio Emanuele a Gronchi di Domenico Bartoli: «Nei corridoi romani si diceva che De Nicola, prima che fossero conosciuti i risultati del 18 aprile, avesse scoperto una semplice regola aritmetica per risolvere il più grave problema politico che si ponesse al Capo dello Stato: quella di affidare il potere al leader del gruppo parlamentare più numeroso… Sembra dubbio che De Nicola potesse effettivamente ricorrere a questo espediente infantile per non prendere nessuna responsabilità su di sé. Ma la voce era insistente». Fu una voce che in definitiva giovò a De Gasperi. Questi poté infatti proclamare che per sventare il pericolo «rosso» non bastava fare della DC il partito singolarmente più forte. Bisognava dare alla sola DC un solido vantaggio sul Fronte.
Le ultime illusioni il Fronte le ebbe dai comizi di chiusura della campagna elettorale. Per ascoltare Togliatti in piazza San Giovanni, la sera di venerdì 16 aprile affluì a Roma una folla oceanica. Questo politico professorale, che citava i classici e ostentava finezze da erudito, cedette allora, forse per deliberato calcolo, forse per tracotanza, forse perché eccitato dalla massa, alla volgarità che del resto in lui conviveva benissimo con la cultura. Poiché De Gasperi gli aveva rinfacciato d’aver «come il diavolo, il piede forcuto» Togliatti replicò che, tentato per un momento di mostrare che i suoi piedi erano normali, aveva poi cambiato idea: «Mi tengo le scarpe ai piedi, anzi ho fatto mettere ad esse due file di chiodi e ho deciso di applicarle a De Gasperi dopo il 18 aprile in una parte del corpo che non voglio nominare». I militanti erano in delirio. Ma durò poco.
Abbiamo riassunto gli elementi – politici, sociali, economici, emotivi – che prepararono il 18 aprile. Ma questa serie di addendi, che pur dovevano essere illustrati, non dà la somma alla quale si pervenne. Sbagliava Gedda, nel suo oltranzismo clericale, riducendo il trionfo della DC a una rivalsa, se non a una vendetta, dell’Italia cattolica: perché la misura di quel trionfo – lo dissero i successivi referendum riguardanti problemi che incidevano direttamente sul terreno della fede – superò di gran lunga l’ambito del mondo clericale e parrocchiale e anche dei credenti praticanti. Sbagliò chi vide nel risultato esclusivamente l’effetto d’un ricatto della fame. La scelta incluse anche questi elementi. Ma fu, consapevolmente o inconsapevolmente, di più ampio respiro: fu – o almeno fu intesa – come scelta tra libertà e non libertà. Gli Italiani sono abbastanza smaliziati per capire i trucchi e gli inganni della propaganda politica. Ma sapevano, o sentivano, che sotto le affermazioni e le promesse della DC v’era un solido fondo di verità.
Il «mito dell’America», la «rendita di posizione degli Stati Uniti» per usare le espressioni di Gambino, non erano il frutto di leggende: derivavano da conoscenze ed esperienze, magari eccessivamente acritiche, ma vere. La potenza, lo sforzo di solidarietà, la democrazia degli Stati Uniti erano fatti, non fanfaluche. Così come erano percepiti intensamente l’onestà di Alcide De Gasperi, il suo liberalismo di fondo, il sostanziale pluralismo della DC dove si dispiegava un arco di opinioni – quasi di ideologie – che andava dalla destra monarchica alla sinistra che sarebbe poi stata definita catto-comunista: e dove non mancavano, già allora, esponenti tutt’altro che teneri verso quella potenza protettrice – gli Stati Uniti – che pure dava loro un totale appoggio.
Nell’affresco elettorale democristiano spiccavano le tonache dei preti, i bigotti, le pinzòchere, i baschi blu, i baschi verdi, le Madonne pellegrine. Ma dietro quelle figure appariscenti, la vera forza stava sullo sfondo. Era la forza di chi voterà DC – svuotando gli altri partiti moderati o centristi – per salvaguardarsi da una sorte, politica ed economica, tipo repubblica popolare dell’Est. Il ragionamento di Gedda va radicalmente rettificato, se non rovesciato. Non vi fu un’Italia cattolica che si rivestì di panni democristiani; vi fu un’Italia democratica, liberale, anticomunista che rivestì – insieme all’Italia propriamente cattolica – panni democristiani.
Il Fronte, che attribuì poi la sconfitta ai voti delle beghine analfabete, ebbe invece il torto di fidare troppo sulla ignoranza e sprovvedutezza dell’elettorato. Non che talune particolari critiche dei socialcomunisti alla gestione di De Gasperi e di Einaudi fossero irragionevoli. Vennero commessi, dalla DC e dai suoi governi, in quegli anni e ancora più negli anni successivi, errori gravi: ma non fu commesso né tentato il crimine supremo di togliere la libertà.
Il Fronte si sforzava di spiegare che, dandogli il voto, il popolo italiano avrebbe avuto un avvenire più democratico, ma poi portava come modello politico e sociale l’Unione Sovietica. Questo non era abbellimento propagandistico della realtà. Era menzogna. Mentivano gli oratori del Fronte, mentivano più di ogni altro i notabili del PCI quando, di ritorno dai loro frequenti viaggi in URSS o nei Paesi ad essa assoggettati, descrivevano le meravigliose conquiste di quei popoli, e le condizioni di vita ideali ad essi assicurate, in contrapposto alla miseria e alle sofferenze degli operai e dei contadini italiani.
La faziosità è ammessa, tra avversari: ma la falsità di questi confronti superava i limiti della decenza. Già si sapeva abbastanza di Stalin e dei suoi sistemi, anche se non tutto. La DC utilizzò quelle verità per screditare la campagna delle sinistre. La conseguenza fu che la propaganda socialcomunista, smantellata nel suo cuore ideologico, divenne poco credibile anche là dove era sorretta da buone ragioni. Fu una tragedia soprattutto per i socialisti. Almeno i comunisti recitavano il loro copione. Ma il PSI dovette adattarsi a una complicità da molti sofferta: come Vittorio Foa che poi rimpianse d’aver dovuto, per dovere di militante, gettare «chi comunque la pensasse diversamente da noi nel campo degli imperialisti e dei rinnegati».
In un discorso elettorale il ministro dell’Interno Scelba aveva avvertito che «nel caso di violenza o di attentati alla libertà del voto, il governo è pronto a intervenire anche durante le votazioni, per sospenderne lo svolgimento». Il che corrispondeva allo slogan dallo stesso Scelba lanciato: «O votano tutti, o non vota nessuno». Togliatti aveva polemizzato con lui sostenendo che spettava al nuovo parlamento di pronunciarsi sulla regolarità delle elezioni, e che il governo non aveva la facoltà di intervenire mentre erano in corso. I sospetti e le accuse di disordini, brogli, pressioni indebite sugli elettori, e anche di un colpo di Stato a risultati ottenuti, correvano in entrambi i campi.
Scelba ha successivamente spiegato, in una conversazione con Gambino, che «era stata messa a punto un’infrastruttura capace di far fronte a un tentativo insurrezionale comunista». A questo scopo l’intero Paese era stato diviso in una serie di grosse circoscrizioni, comprendenti varie province, e affidate a un funzionario, una sorta di prefetto regionale, riservatamente designato per assumervi la responsabilità dell’ordine pubblico in caso di emergenza. Il designato non era necessariamente il prefetto più importante. Poteva anche essere un questore che godesse dell’assoluta fiducia di Scelba. Inoltre, per impedire che i socialcomunisti paralizzassero il sistema di comunicazioni impadronendosi dei gangli vitali, «avevamo organizzato un sistema di comunicazioni alternative, servendoci come punti di appoggio d’un certo numero di navi italiane e alleate presenti nel Mediterraneo».
Nei ranghi del Fronte (ma quasi esclusivamente tra i comunisti), furono adottate misure per l’emergenza. Secchia era fatto apposta per preparare le ore X, e fu attivissimo in quei giorni, con la collaborazione di Nino Seniga, viceresponsabile della Commissione di vigilanza. Furono verificati e rafforzati i collegamenti con ex partigiani, furono fissate parole d’ordine e sistemi di comunicazione. «I capi delle brigate partigiane che si sono sciolte solo tre anni prima» ha scritto Miriam Mafai «riprendono contatto con i loro uomini. Quello che si prepara può essere un nuovo 25 aprile: la consegna è di tenersi pronti ad ogni evenienza. E gli uomini dissotterrano le armi, le preparano e in molte zone addirittura tornano ad ostentarle in segno di prematura vittoria o minaccia.»
Un fratello di Pietro Secchia, Matteo, andava e veniva dall’ambasciata sovietica portandone consigli, ordini, e si può facilmente supporre, anche fondi. Fu affannosa la ricerca di recapiti clandestini per i maggiorenti del PCI. Citiamo ancora la Mafai: «Appartamenti, ville e casali vengono acquistati, altri vengono affittati per conto del partito da prestanome assolutamente insospettabili (generalmente professionisti che non risultavano iscritti al PCI), altri infine vengono messi a disposizione da ignare zie, nonne, cugine di fedeli militanti appartenenti alla buona borghesia romana e milanese. Di tutti questi appartamenti e recapiti, di città e di campagna, Nino Seniga ha una pianta dettagliata, nome del proprietario, indirizzo, telefono. Ed è lui, con gli altri compagni della Vigilanza, a decidere dove dovranno rifugiarsi, nei giorni del pericolo, i dirigenti più autorevoli del partito. Va a finire che Togliatti – che in verità detesta questi spostamenti – è costretto a dormire per alcune notti in una stanzetta dell’Istituto Eastmann, in viale della Regina, una stanza cui poteva avere accesso solo uno dei medici di servizio. Non dormono a casa loro, naturalmente, nemmeno Secchia, né Longo, né Scoccimarro, né D’Onofrio. Non dormono a casa loro i segretari regionali e provinciali. I membri della Direzione hanno avuto tempestivamente assegnato un recapito dove, qualunque cosa fosse accaduta, sarebbero stati al sicuro, e assieme al recapito avevano ricevuto documenti falsi e una somma di denaro, una somma assai alta, sufficiente per uscire dal Paese se necessario o, se necessario, per rimanervi in condizioni di illegalità. I documenti più importanti del partito erano già stati messi in salvo per tempo». Si può ammirare la prudenza, l’esperienza, la disposizione alla lotta, comunque gli fosse imposta, del Partito comunista. Ma si deve anche osservare che le cautele del PCI erano il riflesso d’una sua peculiare concezione della vita politica, e della conquista del potere. Secchia attribuiva agli avversari le intenzioni che egli avrebbe indubbiamente covato, se si fosse trovato al loro posto.
Nenni non aveva di questi patemi. Attese le notizie a Gussago, presso Milano (dove votò), nella villa d’un amico del quale era abitualmente ospite quando andava nella capitale lombarda. Era affranto, e annotò: «Per ora non ho che un desiderio: dormire, dormire, dormire!».