POSCRITTO
Gl’Italiani della generazione cui appartengono gli autori di questo libro sono soliti definire il periodo che va dal referendum istituzionale alle elezioni del 18 aprile come quello delle grandi speranze. Lo fu. Ma fu anche quello delle grandi paure e delle prime delusioni.
Tutto sommato, nel confronto con altri Paesi diventati anche senza loro colpa campi di battaglia, l’Italia se l’era cavata abbastanza a buon mercato. Come perdite di vite umane, ne avevamo avute meno che nella prima guerra mondiale, e le ferite inferteci dai bombardamenti impallidivano di fronte a quelle subìte dagli altri Paesi belligeranti. Nel Nord occupato dai Tedeschi, la strafe, il castigo, annunziato da Hitler dopo l’8 settembre, era stato attutito dalla Repubblica di Salò (questo è un merito che non le si può contestare), e nel Sud gli Alleati erano sbarcati senza intenzioni punitive. Ma la grande illusione, covata dalla maggioranza della popolazione, che l’Italia potesse trasferirsi e inserirsi nel campo dei vincitori senza pagare dazio, come se i tre anni di guerra combattuta, sia pure di malavoglia, a fianco dei Tedeschi, potessero essere cancellati con un colpo di spugna, fece presto a cadere lasciandosi dietro una scia di amarezze e di rancori, che non rimasero senza conseguenze sulla ripresa politica. Pochi Italiani si rendevano conto che quello fattoci dai vincitori era un trattamento di favore, e che per esempio la perdita delle colonie, dolorosa per i connazionali che vi si erano trasferiti, ci liberava da un problema che altrimenti avrebbe avvelenato tutta la nostra vita politica, come l’Indocina e l’Algeria avvelenarono in seguito quella francese. L’unica vera e grave amputazione fu quella delle terre dàlmate e giuliane, che ci costò la perdita di città e popolazioni fra le più civili e le più italiane. Ma era impossibile evitarla, visto il contributo di sangue che gli Jugoslavi avevano dato alla resistenza antitedesca. Era già un mezzo miracolo che gli Alleati ci aiutassero a salvare Trieste e Gorizia. Ma più che sproporzionati alle nostre colpe, i sacrifici parvero addirittura una ingratitudine verso i nostri meriti resistenziali, che la propaganda comunista seguitava a gonfiare sino a far apparire determinante il nostro contributo alla vittoria finale, e poco meno che pleonastico quello delle armate anglo-americane sbarcate nella Penisola. E su questi sentimenti e risentimenti il partito di Togliatti poteva giuocare – e giuocò – da par suo per trascinarci nell’altro campo, o quanto meno per distaccarci da quello alleato. Gli orrori dello stalinismo non si erano ancora rivelati agli occhi di molti Italiani, che li consideravano fandonie o almeno esagerazioni della propaganda «capitalista».
L’Italia si era buttata alla ricostruzione, ma si aveva l’impressione che lo facesse febbrilmente, girando in folle, e ciascuno per sé, guidato soltanto dall’istinto della sopravvivenza. Questo trionfo del «particulare» era in stridente contrasto con le grandi predicazioni ideologiche, tutte volte all’esaltazione del collettivo e del comunitario, e aumentava la confusione, ma non alimentava le speranze. Che lo facesse per convinzione o per paura, il cosiddetto uomo della strada si era annodato al collo il fazzoletto rosso e «dimostrava» soltanto sotto quella bandiera. Tra la fine del ’47 e gl’inizi del ’48 erano in pochi a dubitare che la neo-restaurata democrazia non avrebbe retto alla grande prova elettorale e sarebbe diventata «popolare» come quelle instaurate nei Paesi dell’Est piantonati dall’Armata Rossa.
Fu in questo clima che si svolse la prima vera campagna elettorale del dopoguerra, quella che doveva decidere le sorti del Paese. Bisognava anzitutto far capire agl’Italiani l’importanza della posta. Ma non bastava. Bisognava anche persuaderli che per combattere un blocco come quello socialcomunista, reso ferreo dalla disciplina del partito di Togliatti, occorreva un altro blocco, che si poteva costituire solo intorno a un altro partito di massa. E nel campo democratico ce n’era uno solo che presentasse questo requisito: la Democrazia cristiana.
Per i moderati di parte laica, fu un boccone amaro da inghiottire. Essi non avevano un gran ricordo del Partito popolare di don Sturzo, di cui la Democrazia cristiana era l’erede. Dopo la prima guerra mondiale, esso aveva fatto concorrenza ai socialisti non solo nel tenere in agitazione le piazze, le fabbriche e le campagne, ma anche in quel cumulo di errori che avevano spianato a Mussolini la via del potere. Non aveva mai voluto intendersi con le forze cosiddette «borghesi», ch’era l’unico modo per sbarrargliela. E la sua pattuglia parlamentare (che era più di un reggimento: centocinquanta deputati) si era adoperata soltanto a paralizzare i fatiscenti governi liberaldemocratici che cercavano di riportare un po’ d’ordine fra le opposte fazioni rosse e nere.
Ma ora non c’era scelta: solo facendo quadrato intorno alla bandiera scudo-crociata, si poteva sperare di far diga alla montante marea socialcomunista. E così per la prima volta si videro scendere in campo in suo aiuto anche i laici più gelosi di questa etichetta.
La Chiesa di Pio XII fece altrettanto. E anche questo era la prima volta che succedeva. Essa aveva sempre avversato la costituzione di un partito cattolico, e quando don Sturzo aveva fondato il suo, gli aveva proibito di chiamarlo cattolico e di assumerne la rappresentanza in parlamento, ribadendone l’incompatibilità con la veste talare. Dopo l’instaurazione della dittatura fascista, quando De Gasperi, che faceva le veci di don Sturzo, dovette disciogliere il partito e cercare un posto di lavoro in Vaticano, Pio XI gli fece dare quello di bibliotecario, ma a condizione che cessasse ogni attività politica, e non volle mai riceverlo. Il suo successore, Pio XII, non abbandonò le sue prevenzioni verso il rifugiato nemmeno quando questi diventò Capo del governo e della crociata anticomunista. Ma schierò la Chiesa in suo aiuto.
Oggi si fanno molte ironie sulle armi ch’essa impiegò in quella battaglia: le «volanti» di frati e monache per convertire al voto i renitenti, le processioni, le Madonne che piangevano, la voce tonante di padre Lombardi, il «microfono di Dio». Era una propaganda che aveva realmente aspetti avvilenti, da Terzo Mondo. Ma coloro che a distanza di quarant’anni ne fanno la facile caricatura, forse dimenticano che ad essa devono, almeno in parte, la salvaguardia del diritto di fare caricature.
Pochi tuttavia erano disposti a credere che ciò bastasse a sventare il pericolo. Molto meglio organizzata, la campagna socialcomunista poteva contare su messinscene più drammatiche, su adunate più «oceaniche», su cori di folla meglio orchestrati, su slogan più efficaci. Il Ministro degl’Interni, Scelba, mi confidò che più si avvicinava la data del 18 aprile, più cresceva la massa dei capitali fuggiti all’estero, molto spesso seguita da coloro che li avevano esportati (ed è allora che chi scrive si persuase che il capitalismo meriterebbe degli uomini migliori dei capitalisti).
La paura tuttavia giuocò in due sensi. Se da una parte spinse alla diserzione molti di coloro che potevano permettersela – e che in fondo erano pochi –, dall’altra fece da mastice alla resistenza coagulandola intorno al partito e all’uomo che ne erano assurti a protagonisti. De Gasperi non aveva nulla che lo qualificasse a questo ruolo. La sua oratoria non era granché e, caso mai, era più da aula che da piazza. Non aveva il genio degli slogan ad effetto, nei quali Nenni era un maestro. Il suo italiano era un po’ tradotto dal tedesco. Insomma, non esercitava sul podio nessun carisma. Per di più, era del tutto sprovvisto di quelle arti di lusinga e di seduzione che attirano le simpatie degl’intellettuali. Di costoro, quasi tutti schierati su posizioni di sinistra, quello che gli dette l’aiuto più sostanzioso fu il gruppo che faceva capo al settimanale umoristico «Candido» di Mosca e Guareschi. Soprattutto Guareschi, sebbene laico e anticlericale, si rivelò con la sua satira efficacissimo non solo nell’interpretare, ma anche nell’orientare gli umori popolari. De Gasperi non fece nulla per sollecitarne l’appoggio, e Guareschi non chiese nulla per darglielo. I due uomini non erano fatti per intendersi, e infatti s’intesero così poco che qualche tempo dopo De Gasperi mandò in galera Guareschi ad epilogo di un processo per diffamazione. La diffamazione c’era. Ma avrebbe dovuto esserci anche un po’ di gratitudine per un uomo che del tutto disinteressatamente, e anche a dispetto delle proprie personali allergie, aveva dato al successo della DC un contributo decisivo. Il fatto è che De Gasperi non sacrificava nulla ai sentimenti e alle passioni, era incapace di abbandonarvisi: e lo si sentiva anche dalla sua disadorna oratoria che non riscaldò mai le piazze. Ma proprio questa sua antiretorica, dopo i vent’anni di retorica fascista, avvalorava l’impressione di un uomo duro, di scarsa immaginazione, in certe cose anche un po’ ottuso, ma serio, onesto e coraggioso, che meritava la fiducia e la rendeva contagiosa.