CAPITOLO TERZO
I PRIMI PASSI
L’importanza e la passionalità del referendum avevano messo in ombra la contemporanea elezione della Costituente, specchio assai più sfaccettato degli orientamenti politici italiani. La Democrazia cristiana ottenne 8.080.000 voti, il 35,2 per cento del totale, contro i 4.758.000 voti dei socialisti (20,7 per cento) e i 4.360.000 voti (19 per cento) dei comunisti.
Solo di poco dunque i due partiti di sinistra, uniti dal patto di unità d’azione, risultavano insieme più forti della DC che confermava il suo diritto ad assumere la guida del governo. Era per di più arbitrario sommare i voti della sinistra, come se si trattasse d’un blocco omogeneo: lo era in particolare perché il Partito socialista, uscito bene dalla sentenza elettorale era minato dalle faide intestine. Sotto un unico simbolo convivevano – come era del resto nella tradizione – due anime socialiste, quella massimalista – e quindi filocomunista o, come si diceva allora, fusionista – che aveva il suo uomo rappresentativo in Nenni, e quella riformista, autonomista, che aveva trovato un leader in Saragat.
Gli autonomisti s’erano sentiti incoraggiati da un successo che – contrapposto al mediocre risultato comunista – suggeriva che PSIUP e PCI andassero ciascuno per la sua strada, raccogliendo suffragi in settori sociali diversi. Con le sue maggioranze nelle metropoli industriali (Milano e Torino), dove aveva distanziato sia la DC sia i comunisti, il PSI ambiva ad essere il partito dell’avvenire, di una Italia moderna, industrializzata, efficiente. Purtroppo questo progetto si rivestiva, nell’ala massimalista, dei colori d’un populismo arcaico, pasticcione, fazioso, e attratto dalle esperienze del «socialismo reale», cioè dei regimi comunisti. Il partito si ubriacava di parole anche quando voleva passare al concreto, e un piano di Morandi per il risanamento della situazione economica («è necessario ottenere una riduzione del costo della vita… elevare senza emissione di nuova moneta il potere di acquisto dei salari e degli stipendi… effettuare nello stesso tempo l’assorbimento su vasta scala della mano d’opera eccedente o disoccupata… diminuire i costi di produzione ai fini di accrescere l’esportazione» e così via) era aria fritta, e della più ovvia.
Il Partito comunista era stato sconfitto alle urne, e una risoluzione della direzione lo ammetteva senza mezzi termini: «Ci proponevamo di ottenere tra il nostro partito e il partito socialista una somma di voti che ci permettesse di contare la metà dei deputati della Costituente. Questo obiettivo non è stato raggiunto. Ci proponevamo inoltre di affermarci come il partito più forte della classe operaia e come il secondo partito del Paese. Anche questo obiettivo non è stato raggiunto». La delusione (in taluni la costernazione) fu grande, al vertice e ancor più alla base. I militanti che vivevano di riunioni, dimostrazioni e cortei, e che vi vedevano il PCI dominare incontrastato, che ignoravano come entità irrilevante quella che fu poi definita «maggioranza silenziosa», scoprirono d’un tratto che la realtà era ben altra e che il loro partito, egemone nella Resistenza, era fortemente minoritario nel Paese.
Al quarto posto si collocò, con un milione e mezzo di voti (meno del sette per cento), l’Unione democratica nazionale: ossia la formazione capeggiata dai «quattro vecchi» (Croce, Bonomi, Nitti e Orlando) nella quale erano confluiti, per l’occasione elettorale, il PLI e i demolaburisti. Fu un risultato modesto, in particolare ove si pensi che i liberali si erano pronunciati nel loro congresso per la Monarchia (pur lasciando libertà di scelta agli elettori). La loro immagine, storicamente gloriosa, era sembrata all’elettorato troppo vecchia (proprio per quei quattro capofila), troppo debole, troppo compromissoria. Avvenne così che gran parte del voto schiettamente moderato e tiepidamente monarchico si riversasse sulla DC, che era stata repubblicana nel suo congresso, ma agnostica nel comportamento di molti suoi esponenti: e che il voto monarchico ruggente si orientasse in buona misura verso il Movimento dell’Uomo Qualunque, al quale andarono infatti un milione 211 mila voti, e trenta seggi.
«L’Uomo Qualunque» fu dapprima la testata di un giornale nato sotto il segno della protesta. L’aveva fondato Guglielmo Giannini che, da buon teatrante, autore di commedie senza troppe pretese, ma di grande mestiere, aveva vivissimo il senso del pubblico e sapeva coglierne a volo gli umori. Questi umori erano soprattutto dei malumori provocati, specialmente nel Sud, non soltanto dalle frustrazioni e dai disagi della sconfitta, quanto dalla diversa temperie in cui erano immersi i due tronconi del Paese. Occupato subito dagli Alleati, il Sud non aveva avuto la Resistenza, e quindi non ne condivideva le passioni. Subiva il vento del Nord come un sopruso, che gli risvegliava nel sangue nostalgie borboniche, e rifiutava tutto ciò che puzzasse di CLN.
Giannini intuì questo stato d’animo, e lo interpretò alla perfezione, soprattutto in due rubriche del suo giornale, le «vespe» e le «parolacce». Sebbene di madre inglese, era un Napoletano verace, alla Scarfoglio, portava il monocolo, la sua eleganza era un po’ da guappo, e se nei rapporti umani non mancava di finezze, nel suo linguaggio di giornalista sapeva adeguarsi a quello del loggione e della taverna. Ma fu proprio questa voluta rozzezza a renderlo efficace. Senza rifuggire dal turpiloquio, ostentato anzi come antitesi della nuova oratoria e pubblicistica, egli prese a smontarne i miti, l’enfasi resistenzialista e il virtuismo democratico. Ebbe il compito facilitato dai suoi avversari, specialmente da quelli di sinistra, che con le loro pretese di palingenesi e le loro smanie epuratrici stavano provocando nel Paese una crisi di rigetto. In pochi mesi «L’Uomo Qualunque» raggiunse quasi il milione di copie. E probabilmente fu proprio questo successo la sua disgrazia. Giannini se ne sentì indotto a creare addirittura un partito. Chi scrive può testimoniare ch’egli non aveva in realtà né vocazione né ambizione politica. Tant’è vero che, fondato il partito, egli l’offrì a Nitti («Ve lo volete accolla’» gli disse «’sto pupazzo?»), che rifiutò. Il vecchio statista lucano sapeva benissimo che il qualunquismo non era affatto, come dicevano i suoi denigratori – che erano tutti – una riedizione del fascismo. Giannini non era mai stato fascista, aveva perso l’unico figlio nella guerra voluta dal fascismo, era l’interprete di una certa «maggioranza silenziosa» (ma non tanto) che anche sotto e contro il fascismo aveva protestato. Ma Nitti sapeva anche che un partito (ma Giannini lo chiamava «Movimento») senza radici nella storia né ancoraggio ideologico, basato soltanto sulla protesta, non poteva avere un domani. E così fu. Ma ciò non toglie che nel ’46 avesse un presente. Glielo assicuravano gli altri partiti coi loro errori, e soprattutto con la loro pretesa di riscrivere la storia d’Italia a loro immagine e somiglianza e presentando il ventennio mussoliniano come un lungo golpe perpetrato da un manipolo di criminali contro il popolo.
Alla politica, che voleva impadronirsi di tutto – ed erano i primi segni di quella partitocrazia che tuttora avvelena l’Italia – Giannini oppose una vaga alternativa di «Stato amministrativo», non politico o almeno non politicante, che soddisfaceva soprattutto una piccola borghesia impiegatizia meridionale, allergica a una demonizzazione del fascismo in cui si sentiva coinvolta. Era una reazione di pelle, povera d’idee, su cui non si poteva costruire nulla di duraturo. Ma ciò non toglie che Giannini un servigio lo rese: sgonfiò, ridicolizzandoli, molti miti, smascherò molte bugie. Ci sono voluti decenni perché alcune delle verità sbandierate da Giannini, come ad esempio il fatto che il fascismo aveva goduto un imponente consenso popolare, venissero riconosciute e, sia pure a denti stretti, accettate.
La stella di Giannini declinò con la stessa rapidità con cui si era accesa. Il qualunquismo era stato un fenomeno spontaneo, reazionario nel senso etimologico della parola. E si esaurì quando la sua funzione divenne superflua, cioè quasi subito. Giannini morì povero e solo: nemmeno il giorno del funerale gli furono risparmiati scherni e beffe. Solo il «riflusso» gli ha reso, trent’anni dopo, un po’ di giustizia.
All’ascesa qualunquista corrispose l’anemizzazione del Blocco della Libertà, monarchico schietto, che dovette accontentarsi di seicentomila voti. Sul versante di sinistra si assistette alla virtuale sparizione del Partito d’azione che, pur alleato a un partito sardista, racimolò meno di mezzo milione di voti, al di sotto del due per cento. Il Partito d’azione era stato distrutto dal suo carattere arrogantemente elitario, dall’indifferenza agli umori del popolo (di cui non mancava occasione per proclamarsi apostolo), dalle lotte intestine. In realtà era già finito con il congresso di febbraio, e con la secessione di Parri e La Malfa che fondarono un Movimento democratico repubblicano al quale ebbero l’imprudenza di pronosticare buone fortune elettorali. Crollò invece il Partito d’azione, e non decollò il Movimento democratico repubblicano che, presi due soli seggi alla Costituente, defunse presto anch’esso. Meglio andarono le cose per il Partito repubblicano storico che – in odio alla Monarchia – non aveva avuto alcuna «contaminazione» governativa, e che raccolse un milione di voti (4,4 per cento).
Così, dei 556 Costituenti, ci furono 207 democristiani, 115 socialisti, 104 comunisti, 41 dell’Unione democratica nazionale, 30 qualunquisti, 23 repubblicani, poi liste minori. Loro compito non era di legiferare – le sinistre l’avrebbero voluto, scontrandosi con la recisa opposizione democristiana e liberale – ma di elaborare la nuova Costituzione. Inoltre la Costituente diede maggioranze parlamentari al governo, e dibatté i problemi del momento: ed erano di eccezionale gravità, in politica interna e in politica internazionale.
Tre erano le scadenze immediate che si ponevano ai partiti maggiori, e ai loro capi: l’elezione del presidente della Costituente, la nomina del Capo dello Stato – provvisorio, in attesa che la Repubblica avesse il suo primo Presidente designato con tutte le formalità volute dalla Costituzione ancora in fieri – e la formazione di un altro governo, essendo previsto dalla legge sul referendum che quello in carica desse le dimissioni.
De Gasperi e Nenni avevano concordato che a presiedere la Costituente fosse chiamato un socialista. Ma Nenni – benché forse tentato – rifiutò la carica che molti gli offrivano. «È troppo neutra per me. Essa mi collocherebbe al di sopra dei partiti, mentre io sono nella mischia e non intendo allontanarmene.» Avrebbe visto volentieri su quella poltrona Romita, che «meritava dal partito una manifestazione di cordiale solidarietà e amicizia». La vicenda ebbe invece tutt’altro epilogo, e Nenni stesso la raccontò in questi termini nei suoi taccuini: «La questione della presidenza della Costituente si è conclusa questa sera con un inaspettato colpo di scena. Il mio rifiuto non è servito a Romita, ma a Saragat. E questo non per una manovra di Saragat, ma per un eccesso di furberia da parte dei miei amici. Questi si erano messi in testa che De Gasperi da un lato e Saragat dall’altro mi spingessero alla presidenza per immobilizzarmi in una cornice dorata. E hanno fatto il ragionamento infantile del rovesciamento del gioco. Non hanno pensato che il prestigio personale di Saragat uscirà rafforzato dalle sue nuove funzioni. Infatti egli che era perplesso dopo l’elezione, mi ha telefonato più tardi che capiva la manovra, ma ne prendeva l’utile, sicuro di sventarne l’insidia». Stilettate tra compagni di partito, preludio a ben altro.
Se la presidenza della Costituente era, nella sostanza, una questione interna dei socialisti, il nome del Capo dello Stato poteva uscire solo da una trattativa interpartitica. Poiché De Gasperi non era disposto a farsi promuovere (e rimuovere dal governo) la lista dei nomi possibili si restringeva alle figure insigni del prefascismo, recuperate dal postfascismo. Attento ai dosaggi, preoccupato di rassicurare la mezza Italia monarchica, De Gasperi aveva in mente un identikit ben definito del primo Capo dello Stato repubblicano. Doveva essere filomonarchico, e doveva essere meridionale. Perciò non erano proponibili né il piemontese Einaudi né il lombardo Bonomi. Benedetto Croce sembrava rispondere ai requisiti richiesti. E i socialisti, lanciandone la candidatura, erano convinti d’andare sul sicuro. L’idea fu attribuita a Nenni che in verità se ne fece paladino, ma senza entusiasmo. «Alla direzione» raccontò lui stesso «è sbucata fuori d’improvviso la questione della nostra adesione a una eventuale candidatura Croce… La proposta iniziale è di Cacciatore. L’hanno ripresa Silone, inquadrandola nel più vasto piano del laicismo, e Saragat per esigenza di equilibrio interno. Io trovo l’iniziativa avventata, ma dopotutto non mi spiace di dare una punzecchiatura ai democristiani.» E Nenni in persona firmò sull’«Avanti!» del 23 giugno (mancavano due giorni all’apertura della Costituente) un articolo in favore di Croce Capo dello Stato.
Il filosofo si mostrava riluttante a impegnarsi totalmente nell’attività politica. Ma al di là di queste remore personali, esisteva un veto democristiano, morbidamente ma ostinatamente motivato. Croce, obiettava la DC, era presidente del PLI, quindi legato specificamente a un partito, non super partes come il suo delicato ruolo imponeva. Il pretesto era buono, ma rimaneva un pretesto. Altri erano, agli occhi della DC, gli handicap di Croce: la scarsa malleabilità, e il laicismo intransigente. Sua era stata la opposizione alla richiesta democristiana d’avere il Ministero della Pubblica Istruzione, quando s’era formato il ministero Parri. De Gasperi aveva ceduto, ma non dimenticato. E il povero Nenni, bocciatogli Romita in casa, si vide bocciare Croce fuori casa. Croce declinò, con una lettera a Nenni, l’offerta socialista. Ma rinunciava a ciò che non era più, comunque, alla sua portata.
Chi allora? De Gasperi sosteneva Orlando, ma era pronto ad accettare un altro nome idoneo. E il nome fu quello di Enrico De Nicola, che era napoletano, era stato consigliere della Corona (suo l’espediente della Luogotenenza per Umberto) e, infine, come sperimentato parlamentare e come giurista insigne, avrebbe saputo meglio di chiunque altro ideare un protocollo e una procedura tutte da inventare per una carica «anomala».
Ma se la carica era anomala, ancor più lo era l’uomo designato a ricoprirla. Grande avvocato napoletano, si era affermato non con l’eloquenza focosa e alluvionale che caratterizzava la scuola forense meridionale, ma col suo ferrato puntiglio giuridico, e soprattutto procedurale. In un ambiente non sempre cristallino, ammorbato dalla spregiudicatezza, dalla venalità e anche da compromissioni camorristiche, aveva portato un suo personale, severissimo costume. Non incassava i vaglia dei clienti se non dopo aver deciso di occuparsi del loro caso, e non prendeva un soldo se, esaminato semplicemente il fascicolo, decideva per il no. Scapolo, ritroso, solitario, suscettibilissimo, perse quasi tutto il patrimonio accumulato in una lunga e fortunata vita professionale perché, da patriota imprevidente, aveva avuto fiducia nei titoli di Stato. Allo scoppio della guerra investì in buoni del Tesoro, all’interesse del 3,50 per cento, dieci milioni (di allora, ovviamente), che furono polverizzati dall’inflazione. La sua eleganza accurata e antiquata, la sua rettitudine, il suo stile, l’avevano reso popolare in una città che vedeva in lui ciò che avrebbe voluto essere, e che non era.
Sulla scia dei brillanti successi forensi, De Nicola era approdato alla politica, ed era stato eletto deputato di Afragola sconfiggendo il candidato giolittiano. Il che non gli impedì di essere fatto dallo stesso Giolitti sottosegretario alle Colonie, nel 1913. Era allora trentaseienne. Praticò la vita pubblica con gli stessi scrupoli di correttezza esasperata cui s’era ispirata la sua vita professionale. «Aveva l’abitudine» riferì Bartoli nel suo Da Vittorio Emanuele a Gronchi «di scrivere la corrispondenza privata su carta senza intestazione, e di fare affrancare le lettere a proprie spese.» Gli fossero piaciuti il potere, e il governo, De Nicola sarebbe diventato senza difficoltà Ministro, Presidente del Consiglio. Manifestò prestissimo, invece, la sua vocazione al rifiuto. L’assunzione di una carica pubblica era preceduta sistematicamente da una fase durante la quale De Nicola si faceva pregare, e accettava, se accettava, di malavoglia. Altrettanto sistematicamente sopravveniva una seconda fase durante la quale De Nicola si dimetteva, e veniva indotto a recedere dalla sua decisione – quando recedeva – con insistenze non minori di quelle che erano state necessarie per indurlo ad accettare. Gli estenuanti negoziati si svolgevano sovente a lunga distanza, perché De Nicola, alla minima contrarietà, si rifugiava nella sua villa di Torre del Greco, e di là era difficilissimo stanarlo. Questo cerimoniale contrassegnò il cursus honorum di De Nicola che era Presidente della Camera quando il fascismo si impadronì del potere.
Occupava la sua poltrona a Montecitorio il giorno che Mussolini – nel novembre del 1922 – minacciò di fare dell’aula «sorda e grigia» un bivacco di manipoli: e non redarguì l’oratore. Anzi richiamò al silenzio il deputato socialista Modigliani che aveva gridato «Viva il parlamento». Una dimostrazione di pavidità che a De Nicola fu sempre rinfacciata. Durante il ventennio De Nicola, rassegnato ogni incarico, si appartò dignitosamente, sospendendo la serie delle offerte, dei rifiuti, delle rinunce alle rinunce. Accettò tuttavia, nel 1929, la nomina a senatore che Mussolini – il cui consenso era indispensabile – forse non propose, ma che certo non avversò.
Proprio perché così riluttante ad occupare poltrone, in un Paese dove per conquistarle i politici si scannavano, De Nicola finiva per essere subissato di proposte. Gliele facevano sapendo che le declinava, e che, se diceva sì, si trattava pur sempre di un sì provvisorio e fragile, che non sbarrava definitivamente la strada agli altri concorrenti. Ma i suoi no erano dosati, c’erano quelli definitivi e irrevocabili, c’erano quelli tenaci, e c’erano quelli che preludevano all’assenso, purché estorto. Nelle elezioni per la Costituente non aveva voluto candidarsi. Era un no vero. Gli avevano fatto visita, per indurlo a entrare nella Unione democratica nazionale, Benedetto Croce e Porzio. «L’ho fatto io che non sono un uomo politico» aveva detto Croce «a maggior ragione dovete farlo voi che vi siete occupato di politica per tanti anni.» Dopo di lui Porzio era ricorso alla mozione degli affetti: «Mi sono sognato mamma tua» aveva detto a De Nicola, la cui risposta era stata fulminea: «Anch’io l’ho sognata: mi ha detto di non presentarmi candidato». Avendo a che fare con un personaggio di questa fatta, la Costituente deliberò la sua nomina a Capo provvisorio dello Stato senza chiedergli se era d’accordo. Il 27 giugno – mentre già sul suo nome convergevano tutti – ribadiva di non volerne sapere, e quando Saragat, nell’imminenza del voto, lo chiamò per vincerne la ritrosia, staccò il telefono. Solo a elezione avvenuta pronunciò il sospirato sì, e molti sospettarono che il precedente irremovibile no alla candidatura in una lista di partito mirasse proprio a lasciarlo libero per la successiva ben più alta designazione.
Capo dello Stato per ventidue mesi – cessò di essere provvisorio e assunse la qualifica di Presidente della Repubblica solo il primo gennaio 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione – De Nicola rifiutò il fasto del Quirinale, e preferì il Palazzo Giustiniani, noto come sede di una delle massonerie italiane, che è accanto a Palazzo Madama. Pazientemente, ingegnosamente, da procedurista raffinato, elaborò il protocollo sul quale la Repubblica avrebbe poi largamente campato di rendita, senza tuttavia perseverare nello stile sobrio e sparagnino di questo suo primo Presidente. Era schivo, ma con impennate di puntiglioso orgoglio se appena avvertiva un’ombra di irrispettosità. Fu un Capo dello Stato senza corazzieri, e senza first lady.
Con De Gasperi e i Ministri era cordiale, cauto, buttando là qualche avvertimento politico, ma più sovente insistendo perché alcuni atti solenni non avvenissero di venerdì, giorno infausto. Il suo soggiorno a Palazzo Giustiniani fu punteggiato di scatti umorali, e da qualche sdegnoso ma temporaneo ritiro a Torre del Greco. Su alcuni «incidenti» più gravi con il governo, e sulle vicende della sua mancata ricandidatura ed elezione, ritorneremo. Da Palazzo Giustiniani uscì in collera, così come in collera lasciò negli anni successivi la presidenza del Senato e quella della Corte costituzionale. Risolse brillantemente nella sua esistenza, infinite volte, gli altrui dilemmi umani, o giuridici, o politici, ma non risolse mai il suo proprio dilemma: che era quello d’un amore-odio per il potere, per le dignità, per gli onori. Questa incertezza lo rendeva, lui così amabile, litigioso e anche offensivo. Sembrava scaricasse sugli altri l’insoddisfazione per quel suo piacere morboso di volere gli inviti, infuriandosi se non gli erano rivolti, per poi sdegnarli.
Le trattative per il secondo governo De Gasperi, cui De Nicola aveva dato l’avvio il 1° luglio, si trascinarono per dodici giorni, con gran dispetto di Nenni che accusava De Gasperi di averle condotte troppo lentamente: un «errore di metodo», diceva, che «ha rischiato di buttarci in una crisi senza fine». Non immaginava, Nenni, quali altre lungaggini negoziali aspettavano la neonata Repubblica. De Nicola aveva seguito, per le consultazioni, una regola molto nobile e molto perditempo, dopo d’allora sempre rispettata, che impone di sollecitare i pareri di personaggi insigni ma del tutto inutili allo scopo per il quale sono convocati.
A sua volta De Gasperi si muoveva con la tenacia del montanaro e la cautela dell’uomo di Curia, risoluto comunque a trarre tutto il possibile utile dalla vittoria elettorale. Cinque furono le novità di rilievo nel nuovo Ministero: la designazione di Nenni agli Esteri (e la perdita degli Interni per i socialisti); la rinuncia di Togliatti; l’ingresso dei repubblicani; l’uscita dei liberali; l’assegnazione del Ministero della Pubblica Istruzione a un democristiano, Guido Gonella.
Delle quattro, l’ultima era senza dubbio la più interessante. La scelta di un esponente dei partiti laici per il dicastero che governa la scuola era stata uno dei punti fermi delle precedenti trattative. Lo stesso De Nicola s’era detto favorevole al mantenimento di questo principio. Ma De Gasperi, consapevole della sua forza, proprio su questa preclusione, e sulla sua inaccettabilità, s’era impuntato. Quando i socialisti Ivan Matteo Lombardo e Ludovico D’Aragona gli avevano comunicato che la direzione del loro partito voleva un laico a quel posto, la replica di De Gasperi era stata ironica, quasi provocatoria: «Non ho mai pensato di proporre per l’incarico un sacerdote». I due precisarono che per laico intendevano un non democristiano, e De Gasperi li incalzò domandando se alla Pubblica Istruzione potesse andare un ebreo, un ateo, un qualsiasi anticristiano, ma non un cattolico. D’Aragona, che era un gran brav’uomo, ma non all’altezza del suo interlocutore, ammise che, sì, le cose stavano proprio a quel modo. E De Gasperi un po’ teatralmente si alzò, fece cenno alla delegazione democristiana che lo affiancava di fare altrettanto, e dichiarò che considerava il negoziato interrotto. Ci volle una mediazione di Togliatti per riannodarne le fila. E all’Istruzione andò Gonella, uomo colto e democratico cristallino, ma anche integralista convinto.
Poiché gli Interni se li era tenuti De Gasperi, Nenni ebbe dunque gli Esteri. Ma fu convenuto che, essendo in pieno sviluppo la discussione parigina sul trattato di pace con l’Italia, e avendovi De Gasperi partecipato fino a quel momento, l’insediamento di Nenni sarebbe stato rinviato. Avvenne infatti il 18 ottobre. Nel frattempo, Nenni ebbe l’interim di De Gasperi alla Presidenza, durante le sue assenze. Era evidente a ogni persona di buon senso, e sicuramente De Gasperi lo era, che Nenni non aveva le qualità d’un buon Ministro degli Esteri. Dotato di intuito politico e di carisma demagogico, non aveva nulla dell’uomo di Stato, anzi ne era la negazione: gli mancavano specialmente quelle conoscenze ed esperienze internazionali – al di fuori dell’ambito socialista – che la politica estera richiede. Per di più il suo temperamento – che qualcuno ha definito «femmineo» – lo rendeva molto sensibile alla forza, fosse quella di Togliatti o fosse quella dell’Unione Sovietica. Per Nenni De Gasperi aveva umana simpatia e amicizia. Ma agli Esteri lo mandò per calcolo freddo, se non cinico.
Togliatti si defilò – la poltrona di guardasigilli fu occupata dal suo compagno Fausto Gullo – per motivi che possiamo soltanto ipotizzare. Probabilmente l’esperienza di guardasigilli lo aveva deluso. Aveva scontentato i «duri» del suo partito, e non era riuscito a catturare gli amanti della legge e dell’ordine. L’amnistia, formulata con imprecisione e applicata dalla magistratura con eccezionale latitudine, aveva azzerato le pendenze penali di molti ex fascisti; o di ex partigiani che, finita la guerra civile, l’avevano continuata per loro conto e tornaconto, ammazzando e rubando. Era stato passato un colpo di spugna su crimini che l’esasperazione delle passioni non bastava a giustificare. Di fronte a talune sentenze l’opinione pubblica di sinistra rimproverava a Togliatti – e dal suo punto di vista non aveva torto – la dizione che escludeva dall’amnistia solo gli autori di «sevizie particolarmente efferate», e che mandò liberi parecchi biechi figuri di Salò. Così come andarono liberi parecchi «giustizieri» che si fregiavano della qualifica di partigiani. In compenso Togliatti aveva ottenuto per la Resistenza riconoscimenti formali – come l’aggiunta del suo vilipendio alle altre ipotesi di questo reato già esistenti – che contribuivano a renderla impopolare, anziché a tutelarla. Ma vi doveva essere nel ritorno di Togliatti al partito, a tempo pieno, anche un disegno politico. È la diagnosi di Vittorio Foa: «I comunisti, dato che le circostanze non consentivano loro un controllo sul potere statale pari a quello democristiano, preferivano riservarsi il massimo di libertà d’azione, ossia di opposizione se non diretta almeno indiretta, attraverso l’azione di massa e le organizzazioni sindacali».
V’erano altre spiegazioni più terra terra. «Si dice» annotava Nenni nel suo diario «che Togliatti non è entrato nel governo perché voleva esserne l’unico vicepresidente. Lo racconta il pettegolino della Democrazia cristiana, Andreotti. È una sciocchezza da respingere e non è a misura dell’uomo. Più logico pensare a una decisione ben più importante, cioè al progressivo disimpegno dei comunisti dal nuovo corso politico. Verosimile invece che Pacciardi, il quale stamattina si è fatto sostituire al governo da Macrelli, sia uscito dal Ministero solo perché De Gasperi non ha potuto offrirgli la vicepresidenza. Si dicono molte altre cose, e che cioè De Gasperi non è stato per poco sbranato dai suoi che volevano portafogli e portafogli. Egli stesso mi ha raccontato di avere invano cercato di indurre Gonella a restarsene al “Popolo”.»
Mentre i repubblicani entravano nel governo ne uscivano i liberali. La loro defezione era in rapporto diretto con i risultati elettorali non incoraggianti della Unione cui avevano aderito. Il partito sperava di tonificarsi con un periodo di opposizione, anche se la linea di De Gasperi spuntava molti dei suoi argomenti polemici. Il leader democristiano non voleva tuttavia privarsi della collaborazione di Corbino che era, agli occhi del mondo imprenditoriale, qualcosa di più d’un valente economista: era la garanzia d’una gestione economica refrattaria alle utopie dirigiste e alle velleità programmatrici della sinistra: la quale sinistra accoppiava in questo campo le ambizioni di un profondo cambiamento ad una sconcertante superficialità e ignoranza tecnica. Corbino Ministro del Tesoro era un contrappeso rassicurante a Scoccimarro Ministro delle Finanze. Per rimanere nel governo Corbino ricorse all’espediente di dimettersi dal PLI pur continuando a capeggiarne il gruppo parlamentare alla Costituente. Nel governo Corbino ci stette tuttavia per poco: il 2 settembre se ne andò sbattendo la porta perché si sentiva «politicamente isolato», e perché i comunisti lo prendevano quotidianamente a bersaglio. Lo sostituì Giovan Battista Bertone, che era stato Ministro delle Finanze con Facta, il Presidente del «nutro fiducia».
Probabilmente Corbino avvertiva che, oltre a De Gasperi, ben pochi politici – anche in casa democristiana – concordavano con la sua «filosofia» liberistica, e con il suo rigore anti-inflazionista, che pure avevano dato frutti indubbi. Le razioni alimentari erano state migliorate, 250 grammi al giorno il pane, tre chilogrammi al mese pro capite i generi da minestra; la lira recuperava valore rispetto alle valute «forti» (dall’inizio del ’46 al maggio il franco svizzero era sceso da 120 a 90 lire, e il dollaro da 350 a 280); la produzione industriale era in ripresa così come le esportazioni, quadruplicate tra l’aprile e il settembre di quello stesso anno. Anche la implacabile erosione del potere d’acquisto di salari e stipendi era stata bloccata.
All’atto della formazione del secondo governo De Gasperi fu deliberato di dare ai lavoratori un «premio straordinario della Repubblica»: tremila lire a chi, guadagnando meno di trentamila lire mensili, avesse carico di famiglia, millecinquecento a chi non l’avesse. L’elargizione, criticata da molti per il suo carattere demagogico, costò trenta miliardi: e fu, com’è regola, presto vanificata da aumenti dei prezzi. Ma è difficile credere a Riccardo Lombardi, il quale sosteneva che con quei trenta miliardi, se prelevati dallo Stato sotto forma di imposizione straordinaria, «si sarebbe potuto occupare per sei mesi un quarto dei nostri disoccupati; avremmo potuto raddoppiare il programma delle ricostruzioni ferroviarie; avremmo potuto fare opere immense in Calabria e in Sardegna; si sarebbero potuti costruire cento-centocinquantamila vani di abitazione per la povera gente». I calcoli di Lombardi, lo si vide anni più tardi con la nazionalizzazione dell’energia elettrica, tornavano solo quando non potevano essere verificati.
Il risanamento che Corbino – e con lui De Gasperi – perseguiva era una restaurazione, e delle restaurazioni aveva i pregi e i difetti. I «padroni» furono reimmessi gradualmente nelle industrie da cui l’epurazione disordinata li aveva cacciati: vi furono riammessi anche perché i «commissari» politici incaricati di gestirle, di solito incapaci e comunque condizionati, avevano dato prova disastrosa. Alla Fiat aveva ripreso il timone Vittorio Valletta, rientrato dalla Svizzera dove s’era messo al riparo insieme ad altri grossi esponenti del mondo imprenditoriale (Marinotti, Cini, Donegani). In cambio Valletta concesse che alla Fiat fosse istituito uno di quei Consigli di gestione che, nella concezione dei CLN, avrebbero dovuto esercitare la loro sorveglianza affinché gli «interessi particolaristici e speculativi non prevalessero sul bene dell’intera comunità». Ma l’innovazione ebbe vita breve, e scarso peso.
Vanno messi nel conto della ripresa gli aiuti alleati (e in prevalenza americani): entro la fine del ’46 l’Italia ricevette 507 milioni di dollari in soccorsi di emergenza, 520 milioni di dollari in assistenza anch’essa gratuita tramite l’UNRRA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per la ricostruzione dei Paesi colpiti dalla guerra), 134 milioni di dollari in aiuti diretti del governo di Washington e 250 milioni di dollari per il mantenimento delle Forze Armate angloamericane. La spesa per questa voce era stata, ha osservato il Gambino, tre o quattro volte superiore: ma non è accaduto sovente nella storia che i vincitori risarcissero sia pure in parte i vinti per le spese dell’occupazione.
Il liberismo – almeno un liberismo economico di fondo – era una ricetta che in definitiva funzionò: solo che Corbino, da tecnico, intendeva somministrarlo al Paese con una coerenza rigida che le proteste, i moti di piazza, le agitazioni sindacali spesso legittimate da autentico grave disagio – infine le superstiti attese rivoluzionarie che covavano in seno al Partito comunista e alla post-Resistenza, rendevano inapplicabile. V’erano esplosioni improvvise di collera anarchica. A fine agosto la destituzione ad Asti d’un capitano della polizia immessovi dalle file partigiane, tale Carlo Lavagnino (era accusato di rapina), indusse il Lavagnino stesso a darsi alla macchia con una trentina di uomini, armi, viveri. Altri partigiani piemontesi s’erano uniti agli ammutinati. Nenni, che sostituiva De Gasperi, faticò non poco, con concessioni e mozioni degli affetti, per placare questa ribellione che minacciava di estendersi a macchia d’olio. Ancora Nenni vide il Viminale invaso da dimostranti con randelli, bastoni e travi quando vi arrivò la mattina del 9 ottobre.
Gli assalitori erano manovali – ma anche estremisti e provocatori – eccitati dalla notizia che certi lavori di sterramento nei dintorni di Roma sarebbero stati sospesi, e i cantieri chiusi. Erano lavori inutili, con appalti scandalosi, come Nenni riconosceva: «Il Genio civile paga centinaia di milioni. Gli imprenditori assoldano lavoratori di ogni categoria dove gli operai edili sono il quindici o il venti per cento, li pagano trecentonovanta lire al giorno per un lavoro di poche ore o magari, in alcuni casi, per non lavorare affatto, e intascano milioni… La situazione crea una specie di solidarietà tra questa massa, che chiede di vivere, e gli imprenditori che vogliono perpetuare il sistema attuale dei lavori a regia, contro il governo e Romita in particolare [Romita era passato dagli Interni ai Lavori pubblici, N.d.A.], che vuole abolire i lavori a regia, da lui inventati in un momento di emergenza». L’annuncio della sospensione – ma i Lavori pubblici negarono d’avere dato un ordine in proposito – scatenò la piazza. La polizia sparò, si contarono due morti e centocinquanta feriti. Un episodio tra i tanti: che tuttavia chiarisce come fosse difficile evitare gli sperperi sociali. Infatti dopo la battuta d’arresto che Corbino aveva ottenuto, l’inflazione riprese.
La miseria era ancora grande in Italia, e grandissima la strumentalizzazione della miseria. Gli artefici stessi della ricostruzione e della ripresa non sospettavano neppure l’impeto delle sue successive fasi. Ma a due uomini – oltre che al tessitore De Gasperi – va riconosciuto un ruolo e, ciascuno a suo modo, un merito particolare in questi difficili e torbidi inizi del «miracolo»: Angelo Costa, presidente della Confindustria, e Giuseppe Di Vittorio, massimo dirigente della Confederazione generale del lavoro. Costa era un industriale e un grande borghese ligure, onesto e rigoroso, ispirato in economia dalla saggezza einaudiana, fermo nelle sue idee, ma pragmatico nella loro applicazione: un cattolico liberale – un vero credente – che difendeva la concezione classica del capitalismo. Ostile – come scrisse Giovanni Spadolini – alla linea di Valletta («dar lavoro a qualunque costo»), contrario a ogni blocco dei licenziamenti, a ogni forma di autoritarismo economico o di regolazione artificiosa del mercato. «Questo industriale in senso antico» sono ancora osservazioni di Spadolini «pilotò negli anni degasperiani un indiretto ma efficace ed operoso patto sociale.»
Questo poté avvenire perché l’interlocutore di Angelo Costa era Giuseppe Di Vittorio, figlio di contadini pugliesi: il padre, «curatolo» (cosi si chiamavano i braccianti specializzati) a Cerignola, morì, pare di polmonite dopo un temporale, quando il figlio Peppino aveva sette anni. Il ragazzetto fu anche lui bracciante, con una istintiva curiosità per i libri e per la politica, e con una gran voglia di ribellarsi alla ingrata condizione della «cafoneria» meridionale. Alla vigilia della prima guerra mondiale s’era già fatta una fama consolidata di agitatore: ma al fronte si portò bene, e venne gravemente ferito. Riprese la sua attività sindacal-politica subito dopo il congedo, e seppe d’essere stato eletto deputato nelle liste socialiste (era il 1921) mentre era in carcere a Lucera. Passò nel 1924 al PCI, poi fu esule in Francia, e commissario politico nel battaglione Garibaldi delle Brigate internazionali, comandato da Randolfo Pacciardi, durante il conflitto civile spagnolo. Pur così intriso di ideologia marxista, non fu mai un cremlinizzato alla Togliatti, conservò il contatto con la realtà italiana, ed espresse ostinatamente la convinzione che molti giovani fascisti fossero in buona fede, e che si dovesse convertirli, se possibile, non condannarli.
Quest’uomo singolare – uno dei pochi dirigenti comunisti espressi dal mondo contadino – divenne il maggior leader sindacale italiano. Non rinunciò, nei comizi, alle tesi massimaliste e agli slogan tonitruanti. Ma aveva profondo il senso del possibile e la sua lotta ebbe sempre un limite: la vittoria della fazione non doveva essere ottenuta sulla pelle del Paese. Un fondo di concretezza e di patriottismo senza ostentazione accomunava l’armatore Costa all’ex bracciante Di Vittorio. Ha raccontato un collaboratore del sindacalista: «Con Angelo Costa, il presidente della Confindustria, si era instaurato un rapporto chiaro, come fra due potenze nemiche che si rispettano. Quando c’era una vertenza importante o un rinnovo di contratto, Costa e Di Vittorio si davano appuntamento alla stazione di Bologna. Salivano su un vagone-letto, e passavano la notte a discutere. Quando il treno arrivava a Roma l’accordo era fatto. Naturalmente, dopo, i rappresentanti della Confindustria e quelli della CGIL s’incontravano. Mugugnavano, ma si attenevano a quel che avevano già concordato Costa e Di Vittorio». Non un innaturale idillio, dunque, ma un rapporto duro e leale, fatto di stima reciproca, e di civismo. La confusione dei ruoli sarebbe venuta più tardi, in politica, in economia, nel sindacato: e con altri protagonisti.