CAPITOLO SESTO
LA LINEA EINAUDI
Caratterizzato sul terreno politico dal licenziamento delle sinistre, il monocolore allargato di De Gasperi lo fu, sul terreno economico, dalla «dittatura» di Luigi Einaudi. Al professore piemontese che s’era appartato dall’insegnamento e dalla vita pubblica durante il ventennio littorio, De Gasperi aveva delegato la supervisione dell’economia: una materia nella quale egli s’addentrava malvolentieri, e svogliatamente, disposto sovente – come tutti i politici «puri» – a forzarne le regole per esigenze di grande o anche di piccola cucina governativa e parlamentare.
Einaudi era invece uno dei più grandi economisti europei, liberista di sicuri convincimenti, espressi, quando gli capitava di scriverne, in articoli e saggi dal linguaggio un po’ antiquato ma dalla chiarezza cristallina. Avversava i programmi dirigisti delle sinistre – che sognavano di coniugare l’espansione produttiva con una selva di vincoli politici e assistenziali – ma non era disposto ad agevolare il ruggente boom nel quale era facile avvertire un che di malsano.
Il presidente della Confindustria, Angelo Costa, era schierato senza esitazioni al lato di Einaudi, e della sua severità. Ma a moltissimi imprenditori il degrado della lira – con i salari impegnati nella consueta vana rincorsa dei prezzi – non era dispiaciuto: più d’uno lo considerava la molla della ripresa. Proprio nei mesi di massima inflazione – tra il giugno del ’46 e il giugno del ’47 – le fabbriche, ripristinate in buona parte la loro attrezzatura e la loro efficienza, lavorarono a ritmo intenso. Nel volgere di un anno la produzione automobilistica triplicò, quella del cotone e della lana superò i livelli d’anteguerra. Le quotazioni azionarie salivano quasi di pari passo, tutti compravano e vendevano in Borsa. «Se nessun avvenimento e nessun provvedimento verranno a guastare l’attività delle Borse» scrisse la «Rivista Bancaria» «l’anno 1947 segnerà una data di cospicuo rilievo nella nostra economia industriale e produttiva.»
Questa spinta impetuosa era però inquinata dalla febbre speculativa. Infatti, lo ha rilevato Franco Catalano, «ad un aumento della circolazione di venti volte rispetto al 1938 corrispondeva un aumento dei prezzi di cinquanta volte, il che stava ad indicare che la svalutazione della moneta derivava non tanto dall’aumento del circolante, quanto piuttosto da quella che gli economisti dicevano velocità di circolazione, e le sinistre speculazione». Einaudi non intendeva certo porre ostacoli alla ripresa: ma intendeva correggerne le degenerazioni, quel surriscaldamento che si traduceva in inflazione. Gli ambienti finanziari avevano ben valutato, fin dall’inizio, le implicazioni negative della linea Einaudi: tanto che la Borsa ne accolse l’avvento non con un rialzo, ma con una flessione.
I provvedimenti che abolivano il prezzo politico del pane e aumentavano vari prezzi pubblici – gas, poste, ferrovie, elettricità – erano impopolari, ma non potevano essere evitati se si voleva che il deficit di bilancio – mille miliardi di uscite, cinquecento di entrate – fosse un po’ attenuato. Inoltre il cambio ufficiale del dollaro fu portato da 225 a 350 lire: ben lontano dal cambio «libero» che, toccata una punta di 972 lire quando la sfiducia nella lira era massima e l’inflazione galoppante, si era assestato sulle 600 lire. A fine anno ogni controllo sul cambio venne comunque abolito. Ciò favorì le esportazioni – le nostre merci risultarono più convenienti per i compratori – ma fece lievitare i prezzi dei prodotti importati. Sempre nella direttrice liberista Cesare Merzagora consentì, con le norme sul «franco valuta», che fosse autorizzata l’importazione di merci, senza alcuna pastoia burocratica, utilizzando fondi esistenti all’estero. A chi gli chiedeva ragione di questa impunità concessa agli esportatori di capitali, Merzagora replicò che la sua era una «guerra ai disertori», ma fatta con l’allettamento, non con le punizioni. I risultati gli diedero ragione e ci valsero cento milioni di dollari d’importazioni franco valuta nel solo quarto trimestre del 1947.
Tutto questo andava ottimamente per gli imprenditori. Andava molto male invece la stretta creditizia che Einaudi deliberò. Portò il tasso di sconto dal 4 al 5,5 per cento, prescrisse che le banche investissero importanti aliquote dei depositi bancari in titoli di Stato o in conti speciali fruttiferi presso la Banca d’Italia, inaridì insomma il flusso di denaro che fino a quel momento aveva finanziato l’industria. I titoli crollarono, tra il settembre e l’ottobre del 1947 si ebbero perdite di oltre la metà del loro valore di mercato, con il massimo del 91 per cento per la Breda, del 74 per cento per l’Isotta Fraschini, del 75 per cento per Pirelli e Fiat. All’inflazione seguirono sintomi di deflazione, con un calo dei prezzi all’ingrosso, tra il settembre e il dicembre del 1947, dell’8 per cento circa, e un analogo decremento del costo della vita. La produzione industriale si contrasse, la disoccupazione salì da meno di due milioni d’unità a oltre due milioni e mezzo. La terapia Einaudi era dura, amara, inflessibile; scontentò i settori più audaci o più avventurosi del mondo imprenditoriale, provocò proteste di massa, con vaste agitazioni dei metallurgici e dei tessili, e uno sciopero contadino in Val Padana che trovava paragoni per la sua ampiezza e compattezza solo negli scioperi agricoli del precedente dopoguerra.
La linea Einaudi non si sarebbe imposta, quali che fossero le qualità e l’autorità del suo assertore, se non avesse obbedito a esigenze interne e a esigenze internazionali, politiche ed economiche, che non possiamo fare a meno, a questo punto, di riassumere.
Il mondo si stava dividendo in due blocchi, e in quello occidentale il la ad ogni iniziativa era dato dagli Stati Uniti che reggevano i cordoni della borsa. La loro potenza economica, che era immensa, s’era moltiplicata nel raffronto con l’impoverimento dell’Europa. Era nell’interesse di Washington che gli amici europei si rialzassero dalla rovina: per costituire un fronte contro il comunismo, ma anche per offrire un mercato ai prodotti americani. Gli USA erano perciò disposti ad aiutare largamente gli europei, ma a certe condizioni, che furono precisate il 5 giugno.
Quel giorno il generale Marshall annunciò, in un discorso al circolo dei laureati dell’Università di Harvard, che gli Stati Uniti si proponevano di sostituire un progetto organico ai loro frammentari aiuti. «È evidente» disse «che prima che il governo degli Stati Uniti possa ulteriormente proseguire i suoi sforzi per alleviare la situazione e avviare il mondo europeo verso la rinascita, si dovrà raggiungere un accordo tra i Paesi europei in merito alle necessità della situazione e alla parte che questi Paesi stessi dovranno svolgere… Il programma dovrebbe essere unico e costituire il risultato dell’accordo fra parecchie, se non fra tutte, le nazioni europee.»
L’invito era dunque esteso all’intera Europa dall’Atlantico agli Urali: e nel momento in cui con la «dottrina Truman», si consolidavano i fronti contrapposti dell’Est e dell’Ovest, il «piano Marshall» pareva, nella formulazione se non nelle intenzioni, un estremo tentativo di collaborazione e di intesa mondiale. Bevin per la Gran Bretagna e Bidault per la Francia aderirono prontamente e invitarono il loro collega sovietico, Molotov, a una conferenza che definisse l’atteggiamento dell’Est nell’ambito europeo. Molotov accettò. Non è dato sapere se l’abbia fatto solo per la vetrina, o con il serio proponimento di valutare i pro e i contro. Se recitò, non lesinò nella messinscena. Portò con sé a Parigi, per la Conferenza che s’aprì il 27 giugno, 4 Ministri plenipotenziari, 18 consiglieri ed esperti, 17 segretari e traduttori, 56 ausiliari. Tutto questo solo per arrivare a un niet. «I crediti americani» disse Molotov «servirebbero non a ricostruire l’Europa, ma a porre una parte dei Paesi europei in antagonismo con gli altri Paesi europei, cosa che potrà apparire vantaggiosa a quelle potenze che aspirano a dominare gli altri Paesi. Il governo sovietico crede di dover mettere in guardia i governi francese e britannico contro le conseguenze di una tale azione, che tenderebbe non a unire gli sforzi dei Paesi europei nell’opera di ricostruzione post-bellica, ma a realizzare dei propositi completamente diversi.»
Con prevedibile docilità, anche se con molto segreto rammarico, quelli che già erano i satelliti del Cremlino si adattarono ad una decisione della quale si deve riconoscere la logica politica. Mosca impedì ai Russi e ai popoli vassalli di profittare d’una offerta che certo non era totalmente disinteressata, ma che avrebbe consentito di dare slancio enorme alla ricostruzione. Ma non poteva scegliere altra strada. Sicuramente gli Stati Uniti avrebbero chiesto, per dare i loro quattrini, adeguate garanzie: prima fra tutte quella che i dollari prestati o regalati non fossero utilizzati per fabbricare armi rivolte contro gli Stati Uniti. Una trattativa di questo tipo sarebbe stata per l’URSS frustrante, e inconcludente.
Il 3 luglio Bevin e Bidault diramarono un nuovo invito a ventidue Paesi, ridotti a sedici per la forzata defezione di Polonia, Ungheria, Romania, Jugoslavia, Bulgaria e Cecoslovacchia. I sedici formularono entro settembre (1947) un rapporto che spiegava come dovessero essere destinati i ventidue miliardi di dollari in quattro anni previsti dal piano Marshall: ma quel rapporto non piacque troppo a Washington dove lo si considerò «una semplice lista di acquisti» il cui costo sarebbe stato sopportato dall’America, senza l’effettiva indicazione di una «sia pur minima collaborazione economica continentale». Il Congresso diffidò e si mostrò restìo ad approvare il piano: ma quando, nel febbraio del ’48, il mondo fu scosso dal colpo di Stato cecoslovacco, la procedura ebbe una spinta decisiva. Il 3 aprile del ’48 fu autorizzata da Truman la concessione di sei miliardi di dollari per il primo anno.
L’America aveva finalmente e per sempre capito quale fosse l’interpretazione che Stalin voleva dare agli accordi di Yalta. Al riparo dell’Armata Rossa, nei Paesi da questa occupati, i dirigenti comunisti s’impadronivano di tutte le leve del potere, mantenendo in funzione dei governi di fittizia «unità nazionale», ma cancellando ogni opposizione, e anche ogni timida dissidenza. Si celebravano riti elettorali che non erano ancora le farse totalitarie del 99 per cento dei voti ai comunisti, ma già rovesciavano, con pressioni e intimidazioni d’ogni genere, i veri rapporti di forza. Il 31 agosto del 1947, quando s’era votato in Ungheria, la coalizione socialcomunista aveva raccolto il 37 per cento dei suffragi, e il Partito dei piccoli proprietari – esule dal maggio Ferenc Nagy – era precipitato dal 57 al 14 per cento. Quasi negli stessi giorni il Partito nazionale contadino era stato messo fuori legge in Romania, e il Partito agrario fuori legge in Bulgaria dopo la condanna a morte di Petkov. In settembre fu deliberato in Cecoslovacchia il patto d’unità d’azione tra Partito comunista e Partito socialista, e infine il 17 febbraio 1948 il leader comunista Gottwald prese le redini del governo in Cecoslovacchia. Il Ministro degli Esteri di quel paese, Jan Masaryk, che pure si era «allineato» al nuovo corso, ma era tormentato dai più cupi pentimenti e presentimenti, morì misteriosamente il 10 marzo successivo «cadendo» da una finestra del Palazzo Czernin, dove aveva l’ufficio. Secondo la versione ufficiale, tutt’altro che persuasiva, si era tolto la vita per un grave collasso nervoso.
Questo rosario di colpi di mano e di usurpazioni ebbe una cornice politica: il Cominform, risorto dalle ceneri del defunto Comintern nel quale Palmiro Togliatti aveva avuto un ruolo di primo piano. Il Cominform raggruppò solo una parte dei Partiti comunisti che erano affiliati al Comintern (o Terza internazionale), sciolto da Stalin nel maggio del 1943. Oltre ai Partiti comunisti dell’Europa orientale furono invitati a parteciparvi – unici rappresentanti dell’Occidente – gli Italiani e i Francesi. Dubbio onore concesso – fu spiegato ufficialmente – «perché [Francia e Italia] sono i Paesi che al momento attuale sono più minacciati dalle mire aggressive dell’imperialismo e che più possono fare per respingere la sua offensiva». La verità è che a Stalin i Partiti comunisti minori – belga, spagnolo, inglese e così via – in quel momento non interessavano. Dal Cominform, che teoricamente aveva il compito di coordinare lo scambio di informazioni tra Partiti comunisti, Stalin pretendeva in realtà una diligente esecuzione delle sue direttive. Alla guerra fredda di Truman il dittatore sovietico rispondeva con un irrigidimento cui veniva dato – per il tipico gusto sovietico della mascheratura verbale – il nome di «offensiva di pace».
Il conclave comunista si radunò a Szklarska Poreba, una località polacca della Slesia ex tedesca, nei pressi di Breslavia. Non vi intervennero i «grandi», a cominciare da Stalin. I delegati erano tuttavia autorevoli: Zdanov e Malenkov per l’URSS, Kardelj e Gilas per la Jugoslavia, Duclos e Fajon per la Francia, Slansky (poi condannato a morte e giustiziato) e Bastovanshky per la Cecoslovacchia, Gomulka (il perseguitato di qualche anno dopo) e Minz per la Polonia, altri personaggi di analogo rango per Ungheria e Bulgaria. Togliatti designò Eugenio Reale e Luigi Longo. L’invito era stato indirizzato a lui. Ma – sia che subodorasse le critiche di cui sarebbe stato subissato in Polonia, sia che ritenesse troppo modesto il livello degli altri partecipanti – si schermì dicendo che non se la sentiva d’affrontare un viaggio così faticoso. Raccomandò ai suoi «ambasciatori» di mettere in rilievo la funzione dirigente dei comunisti nella lotta partigiana nonché la forza numerica del partito.
Zdanov diede l’avvio ai lavori nella villa – normalmente adibita a casa di riposo per funzionari di polizia, e vigilata da migliaia di soldati e agenti – in cui si tenne la Conferenza: e disse che i popoli amanti della libertà avevano «l’importantissimo compito di assicurare una pace democratica e duratura, consolidando la vittoria sul fascismo». Un compito nel quale «spetta all’Unione Sovietica e alla sua politica estera una funzione dirigente». Quanto ai Partiti comunisti italiano e francese, erano impegnati a «prendere nelle loro mani la bandiera della difesa dell’indipendenza nazionale e della sovranità dei rispettivi Paesi». Si era ancora alle generali. Il peggio, per Reale e Longo, venne dopo. Il «revisionismo» italiano e francese aveva fatto, nell’ottica di Stalin, il suo tempo. Soprattutto, il duttile e disponibile Togliatti, l’uomo della svolta di Salerno e della alleanza con i cattolici, doveva essere riconvertito alla durezza. Fedele ad una collaudata tecnica sovietica, Zdanov non pronunciò personalmente la requisitoria. L’affidò ai compagni jugoslavi i quali, per rancore anti-italiano oltre che per ortodossia ideologica, non chiedevano di meglio. Kardelj attaccò Togliatti che non riusciva ad essere «un capo che trascina il suo popolo», fece del sarcasmo sull’affermazione togliattiana secondo la quale un tentativo rivoluzionario avrebbe fatto dell’Italia un’altra Grecia («La situazione greca è migliore, dopotutto, di quella francese e italiana»), osservò che la politica di unione nazionale aveva un senso là dove il Partito comunista era egemone, non là dove s’imponeva una vera «collaborazione con i partiti borghesi». Anche i Francesi ebbero la loro razione di pesanti critiche. Longo reagì, ha testimoniato Eugenio Reale, «con dignità e con una certa quale fierezza», Duclos «come un piccolo bottegaio colto a rubare sul peso».
Comunque i delegati italiani firmarono docilmente la dichiarazione finale, che significava una svolta in senso intransigente della politica comunista. L’ombra di Stalin giganteggiava sulla Conferenza, per sua dettatura fu deciso che la testata del giornale del Cominform sarebbe stata «Per una pace durevole, per una democrazia popolare», non proprio un esempio di concisione ed efficacia. «Stalin» ha scritto Bocca nella sua biografia di Togliatti «si occupa di tutto, decide tutto. La sera stessa in cui si chiude la conferenza gli Italiani, che versano in difficili condizioni economiche, chiedono al delegato sovietico Scevliaghin che si occupa dei partiti italiano e francese di procurare un finanziamento per l’“Unità”, e Stalin per telefono approva l’acquisto da parte russa di ventimila tonnellate di aranci e limoni: un funzionario jugoslavo verserà la cifra della mediazione al compagno Paolo Robotti, incaricato dal PCI per queste delicate operazioni.»
Tramontava, con la nascita del Cominform, il disegno delle vie nazionali al socialismo. Il Cominform, ha ammesso Giancarlo Pajetta, «pesò sui Partiti comunisti dell’Europa occidentale. Molti ne furono come schiacciati». E Alessandro Natta: «Senza dubbio la costituzione del Cominform introduce un elemento di contraddizione e di freno». L’atto finale della Conferenza, oltre a contrapporre la democratica Unione Sovietica agli imperialisti americani, si scagliò con virulenza contro «la politica di tradimento fatta dai socialisti di destra del tipo Blum in Francia, Attlee e Bevin in Inghilterra, Schumacher in Germania, Saragat in Italia. Costoro si sforzano di dissimulare il carattere brigantesco della politica imperialista».
In questo clima, e sotto le sferzate ammonitrici del tiranno di Mosca, il PCI, che già aveva largheggiato in servilismo e adulazione verso l’Unione Sovietica e Stalin, divenne un organismo dalle reazioni pavloviane. Nero e bianco, inferno e paradiso, tutto il male del mondo a Occidente, tutto il bene a Est. I notabili del partito battevano l’URSS e i suoi satelliti, e ne tornavano – stando ai loro discorsi e ai loro articoli – con il cuore gonfio di gioia per ciò che vi avevano visto, e nello stesso tempo gonfio di amarezza per il contrasto tra quella serena letizia e le sofferenze del popolo italiano. La pubblicistica comunista raggiunse rari vertici di piaggeria, che sarebbe stata a malapena tollerabile se si fosse in qualche modo avvicinata alla verità, ma diventava ripugnante perché consapevolmente falsa. Il tono e lo stile surclassavano, in certezza fideistica e tracotanza inquisitoria, i peggiori eccessi clericali (non ne mancavano).
Ogni aspetto della società sovietica – negli anni staliniani – era esaltato. In un libro pubblicato nel 1978 (I primi della classe) Ruggero Guarini e Giuseppe Saltini raccolsero un florilegio insieme divertente e avvilente degli inneggianti spropositi espressi non da incolti braccianti e operai – essi erano anzi le vittime della gigantesca mistificazione – ma da politici, intellettuali, giornalisti: alcuni tra loro poi tardivamente «pentiti». Concetto Marchesi, grecista illustre, scriverà senza arrossire che «l’opera di Stalin è opera liberatoria da qualunque oppressione: da quella che fa l’uomo schiavo della fame e della fatica a quella che lo fa strumento e oggetto di rovina». Gastone Manacorda ironizzerà su chi aveva dei dubbi circa la correttezza delle grandi purghe staliniane degli anni Trenta: «Sembra incredibile che ancora possa avere qualche successo il mito di questi processi, quando ormai il carattere di quinta colonna nazista della congiura bukhariniano-trotzkista è larghissimamente documentato da fonti non sospette». Per Lucio Lombardo Radice «è assurdo voler porre il problema dell’indipendenza nazionale nei confronti dell’URSS allo stesso modo in cui lo si pone nei confronti dei Paesi imperialisti. Non può esistere timore, sospetto di oppressione nazionale del Paese del socialismo a danno di altri popoli». Dello stesso Lombardo Radice questa memorabile sentenza: «La scuola nell’Unione Sovietica è civiltà che si sviluppa: a noi, che viviamo in una civiltà che agonizza, tutto ciò sembra quasi fiabesco!». I biechi capitalisti non prendono sul serio un saggio linguistico di Stalin? Togliatti li mette in riga: «Non ci soffermeremo sul preteso scandalo di Stalin che scrive sui rapporti tra il marxismo e la linguistica, perché non riusciamo a capire chi con più competenza avrebbe dovuto scriverne, chiudendo una polemica durata anni e anni, se non Stalin che è, e nessuno vorrà negarlo, il più competente e autorevole dei marxisti».
Se questo era folklore, la polemica più propriamente politica del PCI fu, dopo la creazione del Cominform, un riverbero preciso del «nuovo corso» dettato da Stalin. Ne derivarono imbarazzi per i socialisti, alleati dei comunisti, prima scavalcati a destra, ora scavalcati a sinistra, e Nenni osservava il 7 ottobre 1947: «Salvo un fatto nuovo, si avvera che stiamo per essere sospinti a essere cento per cento o con l’Occidente o con l’Oriente, ciò che per noi è impossibile». Unica consolazione per i socialisti la confluenza nel PSI del Partito d’azione, nel frattempo defunto – ne riparleremo – anche ufficialmente.
In parallelo con il «gelo», si deteriorava in Italia la situazione sociale. Sempre più frequenti erano le manifestazioni violente, gli scontri, gli spargimenti di sangue. Nenni registrava allarmato il propagarsi di questa torbida inquietudine. «12 novembre. Una ventata di terrorismo si è abbattuta sull’Alta Italia e particolarmente su Milano. Si è cominciato con le bombe alle sedi comuniste cui sono seguite misure di rappresaglia che a loro volta hanno provocato altri attentati. Un cerchio infernale. Ieri a Mediglia un agrario ha sparato su degli operai uccidendone uno ed è stato linciato. Stamattina una bomba è stata lanciata contro una sede comunista a Milano. Ne è seguito uno sciopero generale con devastazioni di giornali e di sedi del MSI, dei qualunquisti ecc… 13 novembre. L’ondata di violenza dilaga. A Napoli oggi ci sono stati grossi incidenti. Così a Livorno, nel Salernitano, a Palermo ecc. Sedi di organizzazioni di destra e giornali sono presi d’assalto. Il ministro Scelba ha risposto oggi a ben undici interrogazioni. Non supponevo in lui tanto cinismo e una così scarsa sensibilità politica. 14 novembre. Nel Paese la situazione è sempre molto tesa e si temono gravi incidenti a Cremona. Insomma l’atmosfera del ’21, con la differenza che siamo più forti d’allora.»
Più che De Gasperi, per le sinistre il nemico era Scelba, Ministro dell’Interno, anzi, secondo la locuzione che esse preferivano, Ministro di polizia. De Gasperi dettava le grandi strategie, e in questo fu insuperabile. Einaudi reggeva il timone dell’economia. Ma il peso della accentuata pressione comunista, che si traduceva in moti di piazza (e alla quale si contrapponevano i rigurgiti fascisti) lo sopportò per intero questo avvocato non ancora cinquantenne.
Siciliano come don Sturzo, del quale era stato fedele seguace e affettuoso discepolo, antifascista senza tentennamenti, repubblicano, fermo nelle sue idee – non voleva la firma del trattato di pace, e lo disse chiaramente – Scelba non aveva paura d’aver coraggio. Il che ne faceva un democristiano anomalo, un muro tra tanti materassi di gommapiuma. Di statura un po’ inferiore alla media, ma quadrato di spalle e dal gestire risentito, quasi completamente calvo anche in età giovanile, gli occhi piccoli, neri e mobilissimi, il volto pallido rotondetto e dalla pelle lucida e tirata sul quale si inseguivano continuamente espressioni fugacissime di divertimento, stupore, irritazione, Scelba replicava agli attacchi che in un parlamento tumultuante gli venivano rivolti, con forte accento siciliano, ma anche con un linguaggio scarno, aderente alle cose: ciò che Nenni scambiava per cinismo. Affermava, quasi ostentava il diritto dello Stato a difendersi. Per la ragion di Stato era pronto anche a mentire – lo si vide nel caso Giuliano –, mai però a tradire il suo dovere.
Con la sua polizia ancora «infiltrata» da elementi partigiani che erano elementi comunisti, con la sua Celere raccogliticcia, Scelba aveva l’immane compito di fronteggiare non soltanto i pericoli presenti, ma quelli potenziali. Ci voleva del fegato. Con trent’anni di anticipo sull’Argentina, l’Italia fu allora la patria dei desaparecidos. Togliatti non voleva fare la rivoluzione, ma alcuni dei suoi – Pietro Secchia in particolare, lo vedremo – sì. Togliatti lasciava comunque che i militanti «duri» credessero alla possibilità d’una risolutiva lotta armata. Il partito parallelo, e l’«esercito popolare» parallelo, avevano inquadramento e armi. Soffitte, scantinati, fienili erano zeppi di fucili, mitra, pistole, bombe a mano. Poteva bastare una scintilla per appiccare l’incendio e trasformare l’Italia, se non in una Polonia o in una Cecoslovacchia, almeno in una Grecia. Scelba calamitò l’odio delle sinistre, e in un certo modo si compiacque di farlo, lasciando agli «amici» della DC, che di amicizia gliene mostrarono sempre pochissima, il lusso dei «dialoghi». Incappò, proprio per questo suo carattere spigoloso, in errori e grossolanità: mai in slealtà. Non aveva la stoffa dello statista, e lo si vide quando, scomparso De Gasperi, resse il governo: ma in abbinata con De Gasperi, fu uno dei pilastri della Democrazia cristiana e anche della democrazia tout court. La rivolta armata non ci fu, ma le sue «prove generali» sarebbero bastate per sprofondare nel panico un uomo meno forte: la prima fu la cosiddetta «guerra di Troilo», a Milano, della quale ci occuperemo subito.