CAPITOLO OTTAVO
LA COSTITUZIONE
Il 1947 si chiuse con un rimpasto del governo De Gasperi – allargato ai socialdemocratici e ai repubblicani – e con l’approvazione della Carta costituzionale. Pochi giorni separarono i due avvenimenti (il 16 dicembre il rimpasto, il 22 il sì alla Costituzione): e la successione cronologica ne contraddisse il significato.
Il varo della Costituzione rappresentò infatti l’epilogo della collaborazione ciellenistica e dell’unanimismo antifascista. La Costituzione passò con 453 voti a favore e solo 62 contrari, di destra: una maggioranza cui anche quarant’anni dopo, ad esempio per l’elezione del presidente Cossiga, sarebbe stato dato il nome – improprio, anzi truffaldino – di «arco costituzionale». La nuova struttura del governo ampliò e consolidò invece il blocco anticomunista, mentre prendeva definitivamente forma il Fronte popolare di Togliatti e Nenni: e insieme delineò la formula di maggioranza politica sulla quale la democrazia italiana si sarebbe retta, sia pure con tentennamenti e lacerazioni, nei decenni successivi.
Della Costituzione ci siamo occupati a proposito dell’articolo 7, e del voto con cui i comunisti si associarono all’inserimento in essa dei Patti lateranensi. Vediamola ora nel suo insieme.
La Magna Charta della Repubblica italiana fu concepita sotto l’ossessione di un ritorno della dittatura, ossessione che ne condizionò e spesso viziò gli istituti: e venne tenuta a battesimo, nella sostanza, da due forze politiche – la cattolica e la marxista – che erano state estranee al Risorgimento, quando non ostili, e che erano per tradizione, e per i personali convincimenti di alcuni loro uomini, scarsamente sensibili ai grandi ideali liberali. Tortuosa e farraginosa fu inoltre la procedura attraverso la quale si arrivò alla formulazione di questa legge fondamentale. Dai seicento costituenti fu espressa una commissione più ristretta, detta dei Settantacinque, che a sua volta si divise in sottocommissioni per la redazione di questa o quella parte, di questo o quell’articolo. I testi che dai gruppi settoriali risalivano ai Settantacinque, e dai Settantacinque all’assemblea plenaria, erano sganciati l’uno dall’altro e scaturivano a volte da ispirazioni diverse. Con la conseguenza, rilevata da Piero Calamandrei, che «quando si arriverà a montare questi pezzi usciti da diverse officine potrà accadere che ci si accorga che gli ingranaggi non combaciano e che le giunture del motore non coincidono: e potrà occorrere qualche ritocco per metterlo in moto». La Costituzione ebbe una impronta unitaria, e omogenea, proprio in quella che si rivelerà una delle sue caratteristiche più negative: la voluta debolezza del potere esecutivo, cioè del governo, nel nome di un parlamentarismo esasperato che il tempo trasformerà in partitocrazia e lottizzazione.
Nessuno dei freni che in altri Paesi già esistevano o furono adottati per scongiurare l’instabilità dei governi – e in definitiva del sistema – e la frammentazione del quadro politico fu accolto dai costituenti. Niente collegio uninominale, niente soglia del cinque per cento (come nella Germania federale) per l’ammissione di un partito in parlamento, niente premio di maggioranza (nel ’53 De Gasperi tenterà di introdurlo con quella che sarà malignamente bollata come la «legge truffa», e sarà battuto), niente obbligo di presentare una maggioranza di ricambio già pronta prima di far cadere la maggioranza sulla quale si regge il governo. Tutto il potere al parlamento, non soltanto l’esame delle leggi importanti ma anche quello delle famigerate «leggine», una giungla nella quale il lavoro di deputati e senatori dovrà aprirsi il varco con stento, e in tempi lunghi. Il sistema bicamerale, sicuramente utile per correggere taluni errori d’una Camera, finiva per diventare, in quel trionfo della lentezza, un ulteriore motivo di ritardo all’iter dei disegni di legge. Nel documento erano contenuti, in nuce, la girandola dei governi, la perennità delle crisi, l’esigenza che il Presidente del Consiglio e i suoi Ministri s’impegnino quotidianamente più a sopravvivere che ad amministrare. Paradossalmente, la DC e il PCI, l’una e l’altro per niente tranquilli sull’esito delle elezioni politiche prossime venture, erano in egual misura interessati a castrare l’esecutivo. Il PCI perché una democrazia debole è una democrazia facilmente infiltrabile e rovesciabile, la DC perché un Fronte popolare trionfante avrebbe trovato, proprio in quella Costituzione, più d’una remora all’instaurazione d’un potere autoritario. Da qui certi aspetti equivoci della Costituzione, di cui Mario Paggi scrisse che era «un fragile tessuto fatto di non armoniose giustapposizioni cattoliche da un lato e marxiste dall’altro, con qualche malinconico residuo di un liberalismo che ha persino pudore della parola libertà».
Da questo ibrido, o da questa confusione, derivò un certo tono messianico e verboso della Costituzione (la stessa solenne affermazione secondo la quale la Repubblica italiana è fondata sul lavoro appartiene più alla retorica politica che alla legislazione). Sempre Calamandrei, non sospettabile di tentazioni reazionarie ma acuto, sottolineava che nel suo complesso la Magna Charta «rischia di riuscire piuttosto che un documento giuridico, uno strumento politico: piuttosto che la attestazione di una raggiunta stabilità legale, la promessa di una stabilità sociale che è appena agli inizi». A queste aspirazioni vagamente progressiste si intrecciava, proprio per la difficoltà di concretarle, lo «spirito di rinvio», ossia la rinuncia al compito di fissare vere norme, demandandole a future leggi di attuazione. Le quali sono ancora in qualche caso di là da venire: come la regolamentazione del diritto di sciopero. Su alcuni temi scottanti, in particolare l’assetto economico, lo sforzo di conciliare l’ortodossia liberale con conati sociali e dirigisti è quasi patetico (lo ha rilevato Franco Catalano). Così si garantisce «l’iniziativa economica privata libera» ammonendo peraltro che essa non può porsi «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». La proprietà privata è riconosciuta e garantita ma la legge ne determina «il modo di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».
La smania di regolare tutto, con minuzia notarile e insieme con velleità innovatrici, diede all’Italia una Costituzione prolissa e lacunosa insieme. In realtà quel documento che ambiva a guidare la vita della nuova Repubblica per chissà quanti decenni futuri era lo specchio della situazione e del momento politico in cui fu formulato. Non che manchino, in esso, parti degne di sopravvivere. La Costituente aveva nel suo seno ingegni politici e giuridici quali forse l’Italia non ritrovò più nelle fasi successive della sua storia. Ma anche i migliori vollero impedire il ritorno del passato e porre le basi di un radioso futuro sociale – c’era in questo l’ideologia, seppure temperata, della Resistenza – trascurando l’opportunità loro offerta di formulare una Charta chiara, semplice e non soggetta – come la Charta che concepirono – a letture diverse, a volte opposte: tanto che la Corte costituzionale ha dato, degli stessi articoli, interpretazioni varianti secondo i tempi e le occasioni. Del resto, a tambur battente, e quando la Corte costituzionale era ancora di là da venire, la Cassazione si affrettò a sancire che si doveva distinguere tra le norme costituzionali «programmatiche» e le norme «precettizie», suddivise a loro volta queste ultime in «complete» e «incomplete». Solo le norme precettizie e complete annullavano le leggi in contrasto con esse che già esistessero. Per le precettizie ma incomplete, o per le programmatiche, il dettato costituzionale dava semplicemente direttive de jure condendo. In un’ottica di sinistra Antonio Gambino ha visto in tutto questo un disegno della destra per consentire innovazioni «prive di garanzie di esigibilità», che restavano una pura astrazione, in cambio «di un consolidamento di fatto dello Stato conservatore». Non ci sembra che la manovra fosse così netta, e nemmeno così consapevole. L’ibrido ambiguo e il messianesimo verboso della Costituzione furono lo specchio di quell’«arco costituzionale» che la concepì: e che pretese di armonizzare gli opposti. Per questo la Costituzione non è soltanto vecchia. È invecchiata male.
L’esigenza di dare al governo – in vista delle elezioni politiche – una base che raccogliesse il più ampiamente possibile le forze moderate e socialdemocratiche era ben avvertita da De Gasperi cui il monocolore, allargato o no, piaceva poco perché faceva della DC l’unico bersaglio dell’opposizione, e perché rendeva incerte e fluttuanti le maggioranze; ed era avvertita anche dagli Americani. Il PSLI aveva con il mondo sindacale e politico d’oltreoceano legami privilegiati, e questo spiega le sollecitudini del segretario di Stato generale Marshall perché al partito di Saragat fossero spalancate le porte governative: «Lei potrebbe profittare dei colloqui con i leader democristiani e socialdemocratici» scrisse Marshall all’ambasciatore Dunn «per comunicare una certa delusione a causa del mancato accordo per la partecipazione del PSLI al governo. Lei potrebbe spiegare ai dirigenti del PSLI il punto di vista americano secondo cui la situazione italiana richiede, nell’interesse nazionale, la cooperazione di tutti gli elementi realmente democratici».
La strada per una collaborazione ministeriale con il PRI e il PSLI era stata però disseminata di mine e di dispetti, sia per le cautele di De Gasperi, sia per le pretese di Saragat e di Pacciardi, che non erano interlocutori comodi. Si era arrivati addirittura, in autunno, alla presentazione di mozioni di sfiducia contro il governo proprio per iniziativa dei suoi futuri alleati.
All’origine dell’incidente fu Nenni, che a fine settembre si fece avanti, alla Costituente, con una mozione di sfiducia perché, secondo lui, il Ministero si era dimostrato del tutto impari ai compiti che doveva affrontare, e soprattutto ai nodi dell’emergenza economica. Ai deputati Nenni parlò con la consueta foga tribunizia, ma anche con insolita asprezza, accusando la maggioranza «d’avere messo le sue sporche operazioni di politica interna sotto il patronato americano, così come fino al ’45 le metteva sotto il patronato di Churchill». La «palude» (per usare la definizione dello stesso Nenni) insorse e il conte Sforza sfidò i socialisti a portare una sola prova di quanto asserivano. «È stato messo duramente a posto» si vantò Nenni nel suo diario. Sulla scia dei socialisti anche socialdemocratici e repubblicani avanzarono mozioni di sfiducia, che non erano tanto uno strumento per abbattere il governo, quanto un grimaldello per forzarne la porta ed entrarci. Infatti il discorso di Saragat fu una dichiarazione di guerra alle sinistre, piuttosto che a De Gasperi.
Si era alla vigilia di elezioni amministrative a Roma, fissate per il 12 ottobre (1947), e De Gasperi era preoccupato. Temeva che un’impressione di sfascio della sua maggioranza si ripercuotesse negativamente sul voto nella capitale. Alla Costituente si rivolse in tono grave, per dire che «la marcia comune dei socialisti e comunisti, la quale si richiama alle stesse origini marxiste fino alla dittatura del proletariato, rende sospetta, difficile e impossibile ogni collaborazione con loro». La mozione di Nenni fu respinta con largo margine, 271 voti contro 178, quella di Saragat con margine inferiore (271 contro 224), infine per la bocciatura della mozione repubblicana (270 voti contro 236) fu necessario a De Gasperi l’appoggio di Guglielmo Giannini. I qualunquisti avevano percorso negli ultimi mesi un itinerario a zig zag, con appetiti governativi e insieme con ammiccamenti ai comunisti (ammiccamenti che Togliatti, spregiudicato come sempre, aveva finto di ricambiare). Se ne accorgessero o no, i qualunquisti erano in una fase declinante, e in modo precipitoso, della loro parabola.
Lo dimostrarono le elezioni a Roma. La DC raddoppiò i voti (da 104.000 a 204.000) rispetto alle elezioni di appena un anno prima, persero i monarchici e i liberali, ma ancora più persero i qualunquisti caduti da 106.000 a 62.000 voti. I socialcomunisti accrebbero i voti (da 190.000 a 208.000) ma, essendo parecchio cresciuto il numero dei votanti, si videro togliere tre seggi, andati al PSLI. Se rettamente interpretato, questo segnale avrebbe dovuto far presagire l’esito del 18 aprile. Ma pochi, anche tra gli addetti ai lavori, capirono che esso prefigurava la grande adunata di tutti i moderati sotto le insegne democristiane.
Il congresso della DC a Napoli (nel novembre del 1947) fu tranquillo. De Gasperi lasciò la segreteria per assumere la presidenza, e Attilio Piccioni prese il suo posto. Ai congressisti De Gasperi aveva lasciato intendere che un rimpasto era auspicabile. Fu attuato, come s’è detto, a metà dicembre. Saragat e Pacciardi si affiancarono, quali vicepresidenti del Consiglio, a Luigi Einaudi, i socialdemocratici Tremelloni e D’Aragona ebbero rispettivamente l’Industria e le Poste, il repubblicano Facchinetti la Difesa. Infine fu inserito, come Ministro senza portafoglio per il coordinamento delle attività economiche del governo – incarico che prefigurava quello dei futuri Ministri per le Partecipazioni statali – il democristiano Togni.
Può essere interessante rileggere, a tanti anni di distanza, i criteri che subito Togni espose per quanto riguardava lo Stato imprenditore: «Una gestione a sfondo privatistico che implichi la necessità di quadratura dei bilanci, di determinazione di utili e di indispensabile controllo amministrativo da parte di chi apporta capitali; possibilità di un continuo confronto di gestione tra le aziende di Stato e le aziende di proprietà privata; minore burocratizzazione; più facile trapasso dalla proprietà dello Stato a proprietà di privati, e viceversa; una minore tentazione di ricorrere a particolari privilegi e sottrarsi ad oneri fiscali a danno e a spese della collettività». Erano princìpi saldamente ancorati alla visione economica einaudiana che l’avvenire avrebbe quasi sempre traditi. Alla linea di Einaudi si adeguava – sia pure con qualche transitorio dissapore – anche il produttivista Merzagora, che deliberò una serie di provvedimenti per favorire il rientro dei capitali. Traendo spunto da questi indirizzi economici nonché dai provvedimenti di amnistia e di attenuazione delle norme epurative – grazie ad essi migliaia di dipendenti pubblici allontanati per fascismo tornarono ai loro incarichi – socialisti e comunisti denunciarono una «restaurazione» capitalista e filoimperialista, per non dire nostalgica.
Comunisti e socialisti marciavano ormai insieme, ignari di procedere a ranghi serrati verso una catastrofe elettorale. Nenni, non Togliatti, aveva voluto stringere i legami tra i due partiti. Spiegò poi: «Forse perché nella mia mente si era fissata con tanta forza l’esperienza del Fronte popolare francese, io ero convinto che uno schieramento compatto delle sinistre ci avrebbe portato al successo». Togliatti aveva fondate perplessità sugli esiti d’una linea troppo scopertamente fusionista, e s’era lamentato: «Cosa ci posso fare io se Nenni e Basso vogliono il Fronte elettorale a tutti i costi?». Basso, per la verità, era molto tiepido. L’entusiasta era Nenni, un po’ ingenuo e un po’ cinico, coccolato dall’establishment comunista interno e internazionale.
A fine novembre del ’47 andò a Praga, su invito dei Sovietici, e a Karlovy Vary dialogò a lungo con Malenkov, il vice-Stalin, «grasso, un po’ flemmatico, perfettamente orientale». Il povero Nenni chiese a Malenkov, tra l’altro, cosa l’Unione Sovietica potesse fare per l’economia italiana, e il Sovietico, lontano le mille miglia dal sospettare quale fosse la vitalità rinascente dell’economia occidentale, e ancorato ai moduli dirigistici di casa sua, rispose seriamente: «Se le sinistre vincono le elezioni e tornano al governo, nel 1948 l’Unione Sovietica potrà far fronte al fabbisogno di grano. Per il carbone non può far nulla per ancora tre anni». Era archeologia economica, e nessuno dei due interlocutori se ne rendeva conto.
Benché segretario dei PSI fosse Basso, Nenni se ne riteneva l’effettivo leader: un leader che, dopo il trauma della scissione saragatiana di gennaio, aveva colto qualche significativo alloro. Tra gli operai i consensi socialisti, pur nettamente inferiori ormai a quelli comunisti, superavano di quasi il doppio i consensi cattolici e socialdemocratici. A livello di vertice il PSI aveva avuto l’apporto di gran parte dei dirigenti del Partito d’azione: personalità di notevole rilievo intellettuale e morale anche se la loro forza politica era assai più corrosiva che costruttiva. La sinistra non marxista agglutinatasi nel Partito d’azione non aveva mai avuto requie, dalla Liberazione in poi. Alcuni suoi uomini sentivano il richiamo della sinistra popolare – per i cui comportamenti non avevano vocazione alcuna – altri propendevano per un liberalismo elitario e progressista, nella scia dell’insegnamento di Gobetti e dei fratelli Rosselli.
Queste forze centrifughe si acuirono con la scissione di Palazzo Barberini perché al polo socialista tradizionale si contrappose, esercitando una attrazione eguale e contraria, il polo socialdemocratico. Stato maggiore senza truppe, il Partito d’azione era stanco di esistere, e voleva confondersi in una forza politica più vasta. Questa forza sembrò identificarla, agli inizi del 1947, nel PSLI. Ma gli umori cambiarono, e si arrivò a una fase di equidistanza, poi (fine giugno) alla scelta del PSI. Questa opzione fu approvata dal direttivo del Partito d’azione a stretta maggioranza, diciannove voti contro sedici: e fu da alcuni considerata un colpo di mano.
Dall’esecutivo si dimisero Calamandrei, Valiani e Garosci. A sua volta Riccardo Lombardi, che pure era orientato nettamente a sinistra, rinunciò alla segreteria del partito. Lombardi non amava la sudditanza del PSI ai comunisti, e ripeteva, a proposito del Fronte popolare, che «non esistono due partiti e una sola politica, bensì due partiti e due politiche, che possono coincidere ma anche non coincidere».
Gli azionisti filosocialisti, che erano maggioranza, trattarono con il PSI le modalità della fusione, e riuscirono a realizzarla nonostante gli accorati appelli di Saragat. Anche Lombardi finì per associarsi alla maggioranza, e il 21 ottobre 1947 il Partito d’azione, lo si è già accennato, fece ufficialmente harakiri. Ignazio Silone, strenuo avversario della manovra, fondò in quelle settimane «Europa socialista», la rivista che ambiziosamente si poneva come punto di riferimento per chi non abbracciava il PSI ma nemmeno il PSLI. Si legò a quel gruppo anche l’ex segretario del PSIUP Ivan Matteo Lombardo che, con i suoi amici di «Critica sociale», era ormai quasi un estraneo nel PSI.
Esautorati, isolati e resi impotenti nel PSI i riformisti superstiti, l’opposizione al Fronte popolare e alle liste elettorali con il PCI fu condotta da leader della sinistra, in particolare da Sandro Pertini e – con ambiguità – dallo stesso segretario, Lelio Basso, che pure non aveva alcun preconcetto anticomunista, e si sarebbe anzi distinto, negli anni a venire, per zelo filosovietico. Pertini fece sapere a chiare lettere – e lo ripeté al Congresso che si aprì il 19 gennaio 1948 – che il fronte socialcomunista per le elezioni era un errore. Lo era perché diventava un vassallaggio appena mascherato del PSI al PCI, e perché confermava gli argomenti di Saragat al tempo della scissione. Con Pertini si schierò l’ex azionista Riccardo Lombardi che esigeva dai comunisti chiarezza sui problemi internazionali (ma in effetti i comunisti erano chiarissimi, per loro l’URSS aveva sempre ragione). Le tesi di Basso erano più sfumate e contorte, e in larga misura obbedivano a motivi di bassa cucina di partito rivestiti di panni ideologici. «Io ho» disse Basso «l’impressione che il partito abbia commesso l’errore di discutere la tattica elettorale prima di esaminare le condizioni politiche della battaglia… Ecco perché sono stato reticente. Io credo che non vi sia dubbio che se il Fronte si realizza la conseguenza elettorale non può essere che una sola. Il problema è di dire se siamo riusciti a creare questa atmosfera nel Paese.» Tutti gli avversari del Fronte erano, nel PSI, condizionati dalla demagogia operaista e proletaria: perfino Giuseppe Romita, che presto sarebbe passato ai socialdemocratici, si dichiarò in favore dell’alleanza, e contrario soltanto a liste elettorali comuni. Così Nenni trionfò, e sul diario scrisse sprezzantemente che «Lelio [Basso] e l’apparato hanno veramente balcanizzato il partito». Il Congresso si pronunciò per il Fronte (maggioranza del 99,43 per cento) e anche per le liste uniche con i comunisti: ma su questo punto, non foss’altro che per motivi di interesse personale (gli aspiranti parlamentari temevano, non a torto, che la fusione facesse fondere, elettoralmente, soprattutto i socialisti), la maggioranza fu assai inferiore (66,78 per cento).
Nella lunga vigilia elettorale l’esistenza del Fronte, e l’intimo legame con i comunisti, furono per il PSI una pesante catena. Lombardi aveva visto giusto, subordinando il patto socialcomunista a una emancipazione del PCI dall’obbedienza cieca al Cremlino. Il Fronte divenne invece realtà, per sfortuna dei socialisti (ma se l’erano cercata), proprio nei mesi in cui l’URSS, impegnata nella guerra fredda, e decisa a trasformare in proconsolati o semicolonie tutti i Paesi occupati dall’Armata Rossa, pretendeva che i Partiti comunisti occidentali non solo tollerassero, ma acclamassero. Puntualmente, era obbedita. A braccetto con il PCI, il PSI si trovò costretto ad applaudire – tra mugugni nelle sue file – le peggiori infamie. Il colpo di stato di Praga – al quale abbiamo già fatto riferimento nel sesto capitolo – precedette di due mesi scarsi le elezioni politiche del 18 aprile 1948. A Stalin, che attuava un disegno brutale e coerente, questa consultazione in un Paese che Yalta poneva al di fuori della sua sfera di influenza interessava molto meno della mainmise all’Est.
Ma la tragedia cecoslovacca, con gli arresti, le persecuzioni, le epurazioni attuate da Gottwald con la collaborazione dello spietato ministro dell’Interno Nocek fu una tragedia anche per i socialisti. La reazione pavloviana del PCI e dell’«Unità» a quei fattacci era scontata, anche se abietta: le centrali spionistiche e reazionarie americane avevano ordito un complotto sventato dal sano popolo lavoratore. Ma i socialisti, cui giungevano via via gli echi delle martellate con cui si crocifiggeva la democrazia cecoslovacca, dei penosi cedimenti di Beneš, del sacrificio di Masaryk, dovevano associarsi all’ostentato tripudio dei compagni comunisti. E cianciarono anch’essi di «vittoria di popolo» a Praga e di «smarrimento dei circoli reazionari». Nenni non ritenne valesse la pena di dedicare una sola riga del suo diario al secondo olocausto della Cecoslovacchia, né di distinguere in pubblico le posizioni del suo partito da quelle di Togliatti. Perfino nel rifiuto del piano Marshall il PSI finì per accodarsi docilmente, con temporanei ripensamenti, ai comunisti. Quando a Londra i laburisti indissero una Conferenza internazionale per convincere i socialisti italiani a recedere dall’opposizione al generoso piano americano, la delegazione del PSI (Morandi, Vecchietti, Amaduzzi) «ha piantato in asso la riunione. E ha fatto benissimo». Il commento è di Nenni, che si sentiva euforico perché il 15 febbraio, a Pescara, in una votazione amministrativa, il Blocco del popolo socialcomunista aveva conquistato la maggioranza assoluta.