RITRATTI
Biografie essenziali delle principali figure storiche
trattate in questa Storia d’Italia.
Carlo Sforza
(Lucca, 1872 – Roma 1952)
Diplomatico e uomo politico italiano
Discendente da un ramo cadetto dell’antica casata dei Duchi di Milano, nel secondo dopoguerra Carlo Sforza, in qualità di Ministro degli Esteri della Repubblica italiana, contribuì attivamente a inserire l’Italia nei sistemi internazionali che si definirono tra il 1946 e il 1951.
Conseguita la laurea in giurisprudenza a Pisa, nel 1896 entrò nel corpo diplomatico italiano: venne inviato come addetto di legazione dapprima al Cairo e successivamente a Parigi, a Costantinopoli e infine a Pechino, dove si trattenne per circa un anno. Nel 1905 era incaricato d’affari a Bucarest quando dovette ritornare nella capitale del Regno d’Italia per un incidente diplomatico, che non ebbe alcuna ripercussione sulla sua carriera. Fu anzi ritenuto idoneo a presenziare alla conferenza di Algeciras quale segretario particolare del ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta. L’ottima impressione esercitata su quest’ultimo gli valse la promozione a primo segretario di legazione a Madrid (1906), quindi a incaricato d’affari a Costantinopoli (1908), dove assistette alle sollevazioni degli ufficiali nazionalisti e all’occupazione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria. L’anno successivo era consigliere d’ambasciata a Londra, città in cui restò per un breve periodo in quanto destinato a rivestire la carica di console generale a Budapest. Tra il 1911 e il 1915 tornò per la seconda volta in Cina in qualità di Ministro plenipotenziario: fu testimone diretto della dissoluzione dell’Impero cinese e delle successive lotte politiche tra conservatori e repubblicani.
Allo scoppio della prima guerra mondiale si pose tra i fautori dell’interventismo, certo che la dissoluzione dell’Impero austroungarico sotto le spinte delle nazionalità fosse irreversibile; durante gli anni del conflitto fu Ministro plenipotenziario in Serbia e operò senza successo per la creazione di un corpo di Croati che combattesse a fianco degli Italiani. Con la fine delle ostilità tornò di nuovo a Costantinopoli come alto commissario italiano per l’attuazione dell’armistizio con la Turchia, ed ebbe modo di allacciare contatti con Mustafà Kemal, futuro presidente della Repubblica turca, e con il capo degli insorti libici che si opponevano alla presenza italiana nel loro Paese. Nel 1919 fu richiamato a Roma da Francesco Saverio Nitti per ricoprire l’incarico di sottosegretario agli Affari Esteri, mentre nel 1920 fu Ministro degli Esteri nel governo Giolitti. Con tale mansione affrontò la delicata questione dei confini orientali dell’Italia, che culminò nel trattato di Rapallo: il trattato assegnava all’Italia Gorizia e Trieste, il possesso di Pola e Zara e il controllo su diverse isole adriatiche, e proclamava Fiume Stato libero collegato al Regno.
Con l’avvento al potere del fascismo Sforza lasciò l’attività diplomatica; fermo oppositore del Regime, non mancò di denunciare le responsabilità di Mussolini nella morte di Giacomo Matteotti. Nel 1927 si rifugiò in Belgio, di lì a Tolone e infine negli Stati Uniti: ovunque mantenne stretti contatti con gli antifascisti, si segnalò per le conferenze contro la dittatura e tentò di far desistere Vittorio Emanuele III dal prendere parte alla seconda guerra mondiale. Rientrato in Italia nel 1943, si mostrò irremovibile nel chiedere l’abdicazione del Re: le sue idee repubblicane suscitarono viva opposizione da parte inglese e compromisero la sua ascesa politica. Eletto presidente della Consulta nazionale nel 1945, l’anno dopo sedette nell’Assemblea Costituente e aderì al Partito repubblicano, mentre nel 1948 fu di nuovo alla guida del Ministero degli Esteri nel terzo governo De Gasperi, durante il quale impresse una linea occidentalista ed europeista alla sua azione diplomatica. Accelerò i tempi per la firma del trattato di pace con gli Alleati (10 febbraio 1947), convinto che fosse la conditio sine qua non perché l’Italia potesse collocarsi tra le potenze democratiche occidentali. Fu poi chiamato ad affrontare la spinosa questione triestina: ottenne il riconoscimento da parte di Francia, Inghilterra e USA dell’appartenenza del Territorio libero di Trieste all’Italia. Infine integrò l’Italia nel nascente sistema di difesa promosso dagli USA, la NATO (4 aprile 1949). Altrettanto intensa fu la sua opera diplomatica in senso europeista, che lo portò tra il luglio e l’ottobre 1948 a formulare concrete proposte per la nascita di un’Europa federale; tali proposte confluirono nella formulazione del progetto di un Consiglio d’Europa, istituito di fatto il 5 maggio 1949. L’Italia, grazie a Sforza, compariva tra i dieci Stati fondatori. Seguendo questa direttrice, il diplomatico fu tra i primi a aderire al piano di messa in comune del carbone e dell’acciaio promosso dal ministro degli Esteri francese Robert Schuman, che si tradusse nella Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) istituita a Parigi il 18 aprile 1951. Fu questo l’ultimo atto della lunga carriera del lucchese, che si sarebbe spento l’anno seguente.
Luigi Einaudi
(Carrù, Cuneo, 1874 – Roma, 1961)
Economista e uomo politico italiano
Durante gli anni universitari a Torino il futuro Presidente della Repubblica italiana si avvicinò al movimento socialista e collaborò per circa dieci anni con la rivista «Critica sociale» di Filippo Turati, da cui si allontanò all’inizio del Novecento per attestarsi su posizioni liberiste. Nel frattempo un brillante percorso universitario lo portò a coprire la cattedra di scienza delle finanze prima all’Università di Torino e in seguito alla Bocconi di Milano. Senatore nel 1919, si segnalò per la sua opposizione al fascismo con l’adesione al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce (1925). Costretto a interrompere la collaborazione con «La Stampa» e il «Corriere della Sera», proseguì l’attività di corrispondente per «The Economist» e di cura di «La riforma sociale» (chiusa nel 1935 per attività contraria all’ideologia fascista) e di «Rivista di storia economica». All’indomani della caduta del Regime fu nominato rettore dell’Ateneo torinese, ma dopo l’armistizio, per non aderire alla Repubblica sociale italiana, cercò rifugio in Svizzera e vi rimase fino alla fine del 1944; fu lì che redasse le Lezioni di politica sociale, in cui tra l’altro andò perfezionando l’idea della libertà dell’individuo, strettamente connessa alla libertà economica. Una posizione, questa, che nei successivi scritti lo portò a prendere nettamente le distanze da un eccesso di statalismo, che impigrisce, e a esaltare il liberalismo, che invece responsabilizza l’uomo e lo aiuta ad autorealizzarsi.
Al ritorno in patria fu designato Governatore della Banca d’Italia, carica che rivestì tra il 1945 e il 1948; nel 1946 fu deputato all’Assemblea Costituente per conto dell’Unione democratica nazionale. L’anno seguente, con il quarto governo De Gasperi, ebbe l’incarico di Ministro delle Finanze e del Tesoro, quindi del Bilancio. In tale veste si adoperò per una significativa riduzione delle tasse e dei dazi doganali, che molto contribuì al boom economico dei successivi vent’anni della Repubblica. Nel maggio 1948, con l’appoggio delle principali forze politiche italiane, venne eletto Presidente della Repubblica; nel 1955, allo scadere del mandato, tornò all’insegnamento della scienza delle finanze nel capoluogo piemontese.
Piero Calamandrei
(Firenze, 1889 – Firenze, 1956)
Giurista e uomo politico italiano
Laureatosi in giurisprudenza a Pisa, nel 1915 ottenne la cattedra di procedura civile all’Università di Messina, e, dopo aver insegnato in diversi atenei, dal 1924 fu docente di diritto processuale civile a Firenze. Ufficiale volontario durante la Grande guerra, nel 1918 riprese l’attività accademica, e dopo la marcia su Roma e la vittoria elettorale fascista si collocò politicamente tra le forze di sinistra. Decisamente avverso al Regime, operò accanto a Giovanni Amendola, Ernesto Rossi e i fratelli Rosselli nelle attività clandestine contro la dittatura; nel 1925 aderì al Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce. Durante il Ventennio fu tra i pochi docenti senza la tessera del Partito, ma nel 1931 prestò giuramento al fascismo e collaborò con Dino Grandi alla stesura del codice di procedura civile del 1942.
Contrario alla guerra a fianco della Germania nazista, nel 1941 contribuì alla nascita del movimento Giustizia e Libertà, e l’anno seguente fondò il Partito d’Azione con Ferruccio Parri e Ugo La Malfa. Alla fine della guerra fu membro della Consulta Nazionale quindi dell’Assemblea Costituente, e prese parte con energia ai lavori del parlamento nella Giunta delle elezioni della commissione d’inchiesta e di quella per la Costituzione. Allo sciogliersi del Partito d’Azione aderì al Partito socialdemocratico, tra le cui fila fu eletto nel 1948 ma dal quale si allontanò nel 1953 in seguito all’appoggio dato dal Partito alla «legge truffa». Per contrastarla si unì a Parri nel movimento Unità popolare, che riportò un successo esiguo ma sufficiente a far sì che la Democrazia cristiana non conseguisse i voti necessari per l’entrata in vigore della nuova legge.
Giuseppe Saragat
(Torino, 1898 – Roma, 1988)
Diplomatico e politico italiano
Volontario nella prima guerra mondiale, nel 1922 intraprese l’attività politica abbracciando il socialismo per solidarietà verso gli oppressi. Aderì alla linea riformista di Filippo Turati e nel 1925 fece parte della direzione del Partito socialista unitario, ma a causa della restrizione delle libertà messa in atto dal fascismo si portò in Svizzera, poi in Austria e infine in Francia. In questo periodo realizzò con Pietro Nenni la ricongiunzione del Partito socialista e di quello unitario, che confluirono nel Partito socialista italiano di unità proletaria (1930); lo sforzo profuso in questo risultato lo convinse ancor più che la lotta per unire le diverse anime socialiste era la lotta per la democrazia, dal momento che ormai lo scontro decisivo era tra quest’ultima e il totalitarismo. Nel 1943 fece ritorno in Italia per organizzare le fila del partito, ma fu arrestato e consegnato ai Tedeschi, che lo rinchiusero a Regina Coeli; in carecere conobbe Sandro Pertini, con il quale evase.
Presidente dell’Assemblea Costituente dal 1946 al 1947, si oppose alla fusione dei socialisti con il Partito comunista e provocò la scissione di palazzo Barberini, per cui dal Partito socialista si staccò il Partito socialista dei lavoratori italiani, in seguito Partito socialista democratico. In questo modo collaborò con la Democrazia cristiana in coalizioni di centro e in funzione anticomunista. Assolse a più riprese alla carica di vicepresidente del Consiglio durante i governi di De Gasperi, e nel 1949 promosse l’adesione dell’Italia alla NATO nonché la cosiddetta «legge truffa». Nel 1956 tentò senza successo di riannodare i rapporti con Nenni in vista di una possibile ricomposizione delle due anime del Partito socialista; tre anni più tardi inaugurò con Amintore Fanfani il primo tentativo di un governo di centrosinistra, osteggiato dalla destra democristiana. L’impegno di Saragat fu tuttavia quello di realizzare un centrosinistra che comprendesse realmente i socialisti: un disegno coronato con il governo Fanfani nel 1962-1963 e con quello Moro nel 1963, durante il quale Saragat ebbe il Ministero degli Esteri. L’anno successivo venne eletto Presidente della Repubblica, carica che ricoprì fino al 1971.