Un’aria gelida sferza il mandala. Un colpo di vento mi fa volare la sciarpa e sento l’affondo di una lama di ghiaccio nella mascella. Temperatura percepita a parte, siamo a venti gradi sottozero. In queste foreste meridionali, un freddo del genere è insolito. Gli inverni tipici a queste latitudini alternano giornate di disgelo a deboli brinate, con pochi giorni di vero freddo nell’arco dell’anno. Il gelo di oggi spinge la vita del mandala ai suoi limiti fisiologici.

Voglio provare il freddo cosí come lo vivono gli animali della foresta, senza la protezione degli abiti. D’impulso, scaglio i guanti e il berretto sulla terra ghiacciata. Subito dopo la sciarpa. Alla svelta, mi tolgo la salopette termica, la camicia, la maglietta e i calzoni.

A sorpresa, i primi due secondi dell’esperimento sono rinfrescanti: una sensazione piacevole, dopo essermi liberato da quegli abiti soffocanti. Poi il vento spazza via l’illusione e il dolore mi annebbia la vista. Il calore che il mio corpo disperde mi brucia la pelle.

Un coro di cince della Carolina mi accompagna in questo assurdo spogliarello. Gli uccelli danzano da un albero all’altro come scintille di fuoco, saltellando fra i rami. Non vi è superficie su cui si appoggino per piú di un secondo. È un continuo scappare. Il contrasto, in questa gelida giornata, fra la vivacità delle cince e la mia inadeguatezza fisiologica sembra sfidare le leggi della natura. Gli animali piccoli dovrebbero essere meno capaci di affrontare il freddo rispetto ai loro cugini piú grandi. Il volume di tutti gli oggetti, incluso il corpo degli animali, aumenta proporzionalmente al cubo della dimensione lunghezza. La quantità di calore che un animale è in grado di produrre è direttamente proporzionale al volume del suo corpo, pertanto anche la produzione di calore aumenta proporzionalmente al cubo della lunghezza del corpo. Ma la superficie corporea, quella che disperde il calore, aumenta proporzionalmente al quadrato della lunghezza. Gli animali piccoli si raffreddano rapidamente perché, in proporzione, hanno una superficie corporea di gran lunga maggiore rispetto alla loro massa.

Il rapporto fra le dimensioni degli animali e l’indice di dispersione del calore ha prodotto tendenze geografiche in fatto di corporatura. Quando una specie animale esiste in un’area estesa, gli esemplari che vivono al Nord hanno in genere dimensioni maggiori rispetto a quelli delle zone meridionali. Questa è nota come regola di Bergmann, dal nome del biologo tedesco che per primo descrisse la relazione a metà Ottocento. Le cince della Carolina che vivono in Tennessee si collocano verso il limite settentrionale dell’habitat e risultano del 10-20 per cento piú grandi rispetto agli esemplari osservati al limite meridionale, ossia in Florida. Gli uccelli del Tennessee hanno trovato il giusto equilibrio fra superficie e massa corporea per affrontare gli inverni piú freddi di queste latitudini. Piú a nord, troviamo una specie molto simile, la cincia bigia americana, piú grande ancora di circa il 10 per cento.

Nudo in mezzo alla foresta, percepisco la regola di Bergmann come un concetto molto lontano. Il vento imperversa e la pelle mi brucia sempre di piú, o almeno cosí mi sembra. Poi, comincio a sentire un dolore piú profondo. Scatta un allarme sordo dietro la mia sfera cosciente. Dopo un solo minuto di gelo invernale, il mio corpo è già in panne. Eppure peso diecimila volte di piú di una cincia. Non c’è dubbio: questi uccelli si estingueranno nel giro di pochi secondi.

La sopravvivenza della cincia dipende, in parte, dalle piume isolanti che le danno un vantaggio rispetto alla mia pelle nuda. Il liscio strato superiore del piumaggio è riempito con morbidissime piume a mo’ di imbottitura. Ciascuna di esse è costituita da migliaia di filamenti proteici. Questi minuscoli peli si uniscono fra loro per formare una lanugine leggera che trattiene il calore dieci volte meglio di un bicchiere termico in polistirene di uguale spessore. Durante l’inverno, gli uccelli aumentano del 50 per cento la quantità di piume presenti sul loro corpo, aggiungendo cosí potere isolante al piumaggio. Nei giorni freddi, i muscoli erettori alla base delle piume si contraggono, creando una sorta di camera d’aria che raddoppia lo spessore dell’isolamento. Ma tutta questa ammirevole dotazione può soltanto rallentare l’inevitabile. La cute della cincia non brucia al freddo come la mia, ma non può evitare del tutto la dispersione di calore. Nel freddo estremo, un centimetro o due di morbida lanugine le valgono poche ore di vita.

Mi espongo al vento. Il senso di pericolo aumenta. Il mio corpo è scosso da spasmi incoercibili.

Le mie abituali reazioni chimiche finalizzate alla produzione di calore si rivelano ora del tutto inadeguate, e il tremito convulso dei miei muscoli è l’ultimo baluardo contro una temperatura centrale in caduta libera. I muscoli si contraggono in modo apparentemente casuale, con brividi incontrollati. Dentro di me, brucio molecole di nutrienti e ossigeno, proprio come quando uso i muscoli per correre o compiere un movimento, ma questa combustione provoca ora una terribile dispersione di calore. I brividi violenti delle gambe, del torace e delle braccia scaldano il sangue, che poi trasporta il calore al cervello e al cuore.

Anche la cincia ricorre al tremito come principale difesa contro il freddo. Per tutto l’inverno, gli uccelli utilizzano i muscoli come pompe di calore quando la temperatura esterna è bassa e loro non sono attivi. Le fasce dei muscoli del volo nel torace delle cince sono le fonti primarie di calore. I pettorali rappresentano circa un quarto del peso corporeo dell’uccello, quindi il tremore produce un forte rialzo della temperatura del sangue. L’uomo non ha muscoli di analoga portata, quindi, al confronto, i nostri brividi sono privi di vigore.

In piedi e tremante, sono sopraffatto dalla paura. Preso dal panico, mi vesto piú presto che posso. Non mi sento piú le mani e afferro gli indumenti con difficoltà, arrabattandomi con cerniere e bottoni. Mi fa male la testa, come se la pressione sanguigna mi fosse salita improvvisamente. Il mio unico desiderio è muovermi rapidamente. Cammino, salto, agito le braccia. Il mio cervello segnala: produrre calore, alla svelta.

L’esperimento non è durato piú di un minuto, appena un decimillesimo della durata di questa settimana di freddo polare, ma la mia fisiologia è in tilt. Il cuore mi batte all’impazzata, i polmoni non riescono a incamerare tutta l’aria che mi serve, ho gli arti paralizzati. Se l’esperimento si fosse protratto per qualche minuto ancora, sarei andato in ipotermia. Sarebbe venuta meno la coordinazione muscolare e di lí a poco sarei stato sopraffatto dalla sonnolenza e dalle allucinazioni. La temperatura del corpo umano si aggira attorno ai trentasette gradi centigradi. Se scende di poco, a trentaquattro, sopraggiunge la confusione mentale. A trenta gradi, gli organi smettono di funzionare. Con un vento gelido come quello di oggi, questo calo di temperatura di pochi gradi può avvenire in appena un’ora di esposizione del corpo nudo. Privato degli intelligenti adattamenti culturali al freddo, eccomi rivelato per quello che sono: una scimmia tropicale, profondamente a disagio nella foresta invernale. La nonchalance con cui la cincia controlla questo ambiente è umiliante.

Dopo aver agitato le braccia e pestato i piedi per cinque minuti, mi rannicchio dentro i vestiti; tremo ancora, ma l’attacco di panico è passato. Ho i muscoli stanchi e sono senza fiato, come se avessi fatto una corsa. Sento le conseguenze dello sforzo compiuto per produrre calore. Se continua a tremare piú di qualche minuto, un animale rischia di esaurire rapidamente le proprie riserve di energia. Sia per gli esploratori sia per gli animali, l’inedia è spesso l’anticamera della morte. Fintantoché disponiamo di riserve di cibo, possiamo tremare e aggrapparci alla vita, ma non possiamo sopravvivere a stomaco vuoto e senza scorte di grasso.

Reintegrerò le riserve una volta tornato nel tepore della mia cucina, grazie alle tecnologie di conservazione e trasporto dei cibi che permettono a noi umani di sfidare l’inverno. Ma le cince non dispongono di cereali essiccati, carni d’allevamento o verdure d’importazione. Per sopravvivere nella foresta in inverno, devono procurarsi cibo sufficiente per alimentare i loro minuscoli impianti di riscaldamento.

L’energia impiegata dalle cince è stata misurata sia in laboratorio sia in esemplari allo stato libero. Per rimanere in vita in una giornata invernale, gli uccelli possono aver bisogno addirittura di sessantacinquemila joule di energia, metà dei quali utilizzati per tremare. Questi dati astratti diventano piú comprensibili se li convertiamo in cibo. Un ragno grande quanto una delle tante virgole presenti in questa pagina corrisponde a un joule. Un ragno grande quanto una lettera maiuscola corrisponde a cento joule. Un coleottero lungo come una parola fornisce duecentocinquanta joule. Un seme oleoso di girasole ha piú di mille joule, ma gli uccelli del mandala non hanno mangiatoie piene di becchime su cui poter contare. Le cince, ogni giorno, devono procacciarsi centinaia di bocconi per soddisfare il loro fabbisogno energetico. Certo che la dispensa del mandala sembra vuota del tutto. Non vedo coleotteri o ragni, né cibo di altro genere nella foresta inaridita dal gelo.

Se la cincia riesce a provvedere al proprio sostentamento nella foresta apparentemente brulla è anche grazie alla sua vista straordinaria. La retina, che riveste all’interno la parte posteriore del bulbo oculare, presenta una concentrazione di recettori doppia rispetto alla mia. Gli uccelli hanno quindi un’acuità visiva tale da percepire dettagli indistinguibili dall’occhio umano. Là dove io vedo un ramoscello liscio, gli uccelli adocchiano una frasca contorta e sfaldata, piena di bocconcini nascosti. Molti insetti trascorrono l’inverno acquattati al sicuro dentro minuscole spaccature nella corteccia degli alberi, e gli occhi esperti della cincia scovano questi nidi con facilità. Noi non siamo in grado di cogliere la ricchezza di questo mondo visivo, ma possiamo farcene un’idea approssimativa guardando attraverso una lente d’ingrandimento. Dettagli normalmente invisibili ci saltano all’occhio. Le cince trascorrono gran parte delle giornate d’inverno scrutando con la loro vista acutissima i ramoscelli, i tronchi e il letto di foglie della foresta, alla ricerca di cibo nascosto.

Questi uccelli percepiscono anche un maggior numero di colori rispetto a me. Io osservo il mandala attraverso occhi equipaggiati con tre tipi di fotorecettori in grado di restituire i tre colori primari e quattro combinazioni principali degli stessi. Grazie a un quarto recettore che percepisce la luce ultravioletta, la cincia vede quattro colori primari e undici combinazioni principali, il che le consente una visione dei colori che l’uomo non può sperimentare né immaginare. Sui fotorecettori degli uccelli è anche presente una piccola goccia d’olio colorata che funge da filtro per la luce, consentendo la stimolazione di ciascun recettore solo a una gamma limitata di colori e, di conseguenza, migliorando la precisione della visione cromatica. A noi questi filtri mancano, quindi anche nella gamma di luce visibile all’occhio umano, gli uccelli sono in grado di cogliere differenze di colore minime con maggiore precisione. Le cince vivono in un’iperrealtà di colori del tutto inaccessibile ai nostri occhi spenti. Qui nel mandala, utilizzano queste prerogative per la ricerca di cibo. La luce ultravioletta si riflette dai grappoli avvizziti di uva selvatica sparpagliati qua e là. Talvolta, le ali dei coleotteri e delle falene hanno sfumature ultraviolette, come certi bruchi. Ma anche senza il vantaggio della visione ultravioletta, la mimetizzazione degli insetti viene smascherata dagli uccelli attraverso le lievi imperfezioni evidenziate dalla loro acuta percezione dei colori.

Le capacità visive di uccelli e mammiferi differiscono a causa di eventi che si sono verificati nel Giurassico, centocinquanta milioni di anni fa. Risale ad allora la separazione dal resto dei rettili della linea che ha poi dato origine agli uccelli moderni. Questi uccelli antichi hanno ereditato i quattro fotorecettori dei loro antenati rettili. Anche i mammiferi si sono evoluti dai rettili, separandosene prima rispetto agli uccelli. Ma, a differenza di questi, i protomammiferi del Giurassico erano creature notturne simili a toporagni. Il miope utilitarismo della selezione naturale non aveva bisogno di colori sfavillanti per questi animali che conducevano vita attiva di notte. Due dei quattro recettori lasciatigli in eredità dagli antenati dei mammiferi sono andati perduti. Ad oggi, la maggior parte dei mammiferi ha solo due recettori cromatici. Alcuni primati, inclusi quelli da cui è derivato l’uomo, ne hanno poi sviluppato un terzo.

Il corpo acrobatico della cincia le permette di sfruttare al meglio la sua vista acuta. Con un battito d’ali, passa da un ramo all’altro. Si aggrappa con le zampe e poi si butta a testa in giú. Il becco fa da sonda, mentre il corpo – ancora appeso – continua a dondolare. Un altro battito d’ali, ed eccola che volteggia su un nuovo ramoscello, non tralasciando di esaminare la piú piccola superficie. Gli uccelli passano una buona metà del loro tempo penzolando a testa in giú per vedere cosa c’è sotto i rami.

Malgrado l’energia profusa nelle loro ricerche, le cince non catturano nessuna preda durante il mio periodo di osservazione. Come la maggior parte degli uccelli, anche loro compiono quel tipico movimento all’indietro della testa quando inghiottiscono qualcosa oppure, quando il boccone è piú grosso, lo tengono fermo con le zampe per poterlo beccare. Lo stormo si muove davanti a me per poco piú di quindici minuti, senza trovare nulla da mangiare. Può darsi che le cince debbano attingere alle riserve di grasso per sopravvivere al freddo. Tali scorte sono essenziali per superare l’inverno e consentono a questi volatili di fare buon uso della variabilità invernale. Quando le condizioni atmosferiche sono piú clementi, oppure gli uccelli trovano un nido di ragni o un grappolino di bacche, la sovrabbondanza di cibo viene trasformata in grasso da utilizzare nei momenti difficili, quando non trovano nulla o la temperatura si irrigidisce.

L’accumulo di grasso varia da un uccello all’altro. Le cince vivono in stormi socialmente stratificati, in genere composti da una coppia dominante e diversi subordinati. I soggetti dominanti hanno accesso a tutto il cibo che i componenti dello stormo riescono a trovare, quindi in genere mangiano bene e in abbondanza indipendentemente dalle condizioni atmosferiche. Questi uccelli di alto rango sono snelli e in perfette condizioni fisiche, mentre in inverno i loro subordinati affrontano tante privazioni perché non sempre riescono a mangiare a sufficienza. Questi ultimi, spesso giovani o soggetti che, pur avendo deposto le uova, sono stati incapaci di allevare dei piccoli, compensano la variabilità dell’assunzione di cibo ingrassando, una forma di assicurazione contro i tempi grami. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio e le cince piú grassottelle sono prede piú facili per i falchi. La pinguedine di ogni cincia è un compromesso fra il rischio di morire di fame e quello di morire per mano dei predatori.

Le cince integrano le loro riserve di grasso conficcando insetti e semi sotto la corteccia sfaldata degli alberi, usata come dispensa di provviste a cui attingere nei momenti piú difficili. Le cince della Carolina amano particolarmente nascondere il cibo conficcandolo al di sotto dei ramoscelli; un accorgimento probabilmente escogitato per scongiurare ruberie da parte di altre specie di uccelli meno agili. Ciò nonostante, questi rifornimenti segreti sono facile oggetto di rapina e ogni stormo di cince nella foresta difende un territorio invernale da cui i vicini vengono energicamente esclusi. Le cince di altre parti del mondo, che non hanno la caratteristica di nascondere il cibo, sono molto meno territoriali.

Durante l’inverno, specie di uccelli piú grandi si uniscono sovente agli stormi di cince. Oggi, un picchio coperto di soffici piume martella col becco la corteccia di una quercia alla ricerca di larve, poi raggiunge in volo le cince dirette verso est. Anche una cincia bicolore si accoda alla comitiva. Pure lei salta da un ramo all’altro, ma essendo meno agile preferisce atterrarvi senza dondolare da un estremo all’altro. Tutti gli uccelli chiamano per tenere unito lo stormo. Le cince cantano e fischiano, il picchio emette il suo classico pik pik dai toni acuti. Questo comportamento gregario mette i membri del gruppo al riparo dagli attacchi dei falchi, piú facili da individuare quando a vigilare ci sono tanti occhietti attenti. Ma c’è un prezzo da pagare per la sicurezza all’interno del gruppo. Le cince bicolore pesano il doppio delle altre ed essendo piú grandi finiscono per dominare sulle cugine, spingendole giú dai rami secchi, dalle fronde piú alte e da altre postazioni privilegiate per il reperimento del cibo. Questi cambiamenti minimi di posizione mettono in difficoltà le cince, che trovano meno da mangiare. Negli stormi in cui la cincia bicolore è assente, le altre cince mangiano di piú e meglio. La sopravvivenza nel mandala d’inverno non dipende quindi soltanto da una fisiologia all’altezza della situazione ma da un’attenta gestione delle dinamiche sociali.

Si avvicina l’imbrunire. Muovo gli arti congelati e mi sfrego gli occhi incrostati di ghiaccio prima di mettermi in marcia per uscire dal bosco. Gli uccelli continueranno a cercare cibo ancora per qualche minuto, poi si andranno a posare. A mano a mano che diventa buio e la temperatura scende, le cince si raduneranno nelle buche lasciate dai rami degli alberi caduti, cercando un riparo dal vento gelido. Gli uccelli si stringono insieme, ammiccando alla regola di Bergmann, per creare un ammasso di grosso volume e superficie relativamente limitata. La temperatura corporea delle cince scenderà di dieci gradi per passare a uno stato di torpore ipotermico finalizzato al risparmio di energia. Di notte, come di giorno, adattamenti integrati fisiologici e comportamentali danno agli uccelli un vantaggio sull’inverno. Il torpore associato al fatto di stringersi insieme dimezza il fabbisogno energetico notturno di questi uccelli.

La capacità di adattamento delle cince al freddo è davvero notevole, ma non sempre all’altezza della situazione. Domani, nella foresta, questi uccellini saranno meno numerosi. La mano ghiacciata dell’inverno si abbatte su tanti di loro, congelandoli ben oltre lo spaventoso senso di vuoto che ho provato io quando mi sono spogliato. Solo metà delle cince che sono riuscite a nutrirsi trovando da mangiare tra le foglie cadute in autunno vivranno abbastanza per veder sbocciare i fiori delle querce in primavera. Notti come quella di oggi sono le principali cause di mortalità invernale dell’avifauna.

Le temperature glaciali di questa settimana dureranno solo qualche giorno, ma il picco nella mortalità degli uccelli modificherà la foresta con conseguenze che si faranno sentire per tutto il resto dell’anno. I decessi durante le notti invernali controllano la popolazione delle cince, eliminando gli uccelli in sovrappiú rispetto alle scarse riserve di cibo disponibili in questa stagione. Una sola cincia della Carolina, in media, ha bisogno di tre o piú ettari di foresta per il proprio sostentamento. Questo metro quadrato di mandala basta quindi per pochi centomillesimi di cincia. Ci penserà il freddo di stanotte a eliminare ogni eccesso.

Quando arriverà l’estate, il mandala sarà in grado di fornire nutrimento a un numero di uccelli molto superiore. Ma se l’abbondanza delle specie residenti è tenuta a freno dalla scarsità di nutrimento tipica dell’inverno, d’estate avviene il contrario e il cibo eccede di gran lunga l’appetito degli uccelli del luogo. L’abbondanza stagionale di cibo crea un’opportunità sfruttata dagli uccelli migratori, che intraprendono viaggi lunghi e rischiosi dall’America centromeridionale per andare a cercare il cibo in eccesso disponibile nelle foreste di tutto il Nord America. Il freddo dell’inverno è quindi responsabile della migrazione annuale di milioni di tangare, parulidi e virei.

I decessi notturni servono anche per mettere a punto l’adattamento delle cince al loro ambiente. Le piccole cince della Carolina avranno maggiori probabilità di non farcela rispetto ai loro simili piú paffuti, confermando la teoria di Bergmann sulle latitudini. Allo stesso modo, il freddo estremo eliminerà dalla popolazione quegli uccelli caratterizzati da una minore capacità di tremare, da piume meno lanuginose o da riserve di energia insufficienti. Al mattino, la popolazione delle cince di questa foresta avrà requisiti piú adatti per affrontare le difficoltà dell’inverno. È questo il paradosso della selezione naturale: dalla morte deriva la crescente perfezione della vita.

Anche la mia inadeguatezza fisiologica al freddo affonda le proprie radici nella selezione naturale. Sono fuori luogo nel mandala gelido perché i miei antenati si sono sottratti alla selezione per la resistenza al freddo. L’uomo si è evoluto dai primati che avevano vissuto per decine di milioni di anni nell’Africa tropicale. Il loro problema era trovare un modo per non soffrire il caldo, piuttosto che il contrario, quindi il nostro corpo è scarsamente attrezzato contro il freddo estremo. Quando i miei avi lasciarono l’Africa alla volta dell’Europa settentrionale, si portarono dietro il fuoco e indumenti per coprirsi, trasportando i tropici nelle regioni temperate e polari. Questa intelligenza ha ridotto le sofferenze e salvato dalla morte tanti individui: senz’altro un ottimo risultato. Ma la comodità ha fatto passare in secondo piano la selezione naturale. La nostra bravura ad accendere il fuoco e a confezionare indumenti con cui coprirci ci ha condannati per l’eternità a soffrire il freddo.

Scende l’oscurità e mi ritiro nel mio ambiente, al caldo del focolare, lasciando il mandala agli uccelli, maestri nell’affrontare il freddo. Questa loro capacità è il frutto della dura lotta di migliaia di generazioni. Volevo sentire il freddo come lo vivono gli animali del mandala, ma ora mi rendo conto che è una cosa impossibile. Le mie esperienze passano attraverso un corpo che ha seguito un percorso evolutivo diverso da quello delle cince, e questo mi impedisce di maturare un’esperienza davvero condivisa. Ciò malgrado, la mia nudità nel freddo ha reso piú autentica la mia ammirazione per questi altri esseri viventi. Lo stupore è l’unica risposta possibile.