«Senti, mi dispiace per ieri. Quante volte te lo devo ripetere? Lo sai cosa mi è successo. E poi per poco non mi ammazzo per arrivare in tempo.»
Tom apre il «Times» scuotendolo bruscamente. «Sapevi quanto era importante per me.»
«Mi scuserò con i tuoi clienti e i colleghi alla prossima occasione. Sarò impeccabile. Farò anche la riverenza, se vuoi.»
«Be’, dovrai aspettare la festa d’estate della Anderson, a fine agosto. Alla quale forse ti presenterai ai primi di settembre.»
«Oh, vaffanculo, Tom! Non riuscirai mai a metterci una pietra sopra, vero?» Appoggio la tazzina nel lavandino lurido e strapieno: nessuno dei due ha caricato la lavastoviglie. «Se pensi di continuare questa tirata per tutto il weekend, be’, allora non ho intenzione di restarmene qui.»
«Forza, vai» sibila lui. La rabbia gli esce fischiando dalle orecchie come il vapore da una caffettiera. «Così forse riusciremo tutti a rilassarci.»
«Perfetto.» Prendo la borsa sopra il microonde. «Ne ho abbastanza.»
«Di che cosa?»
«Me ne vado.»
«Cosa? Dove?» Tom appoggia il giornale; ora è più attento.
«In un posto in cui non mi sentirò la moglie peggiore del mondo. In un posto in cui il mio valore di essere umano non dipende dal fatto che una colf con un molare cariato mi abbia rinchiuso in un appartamento. O dal fatto che ci sia o meno un groviglio di capelli nello scarico della doccia...»
«Sadie, quella cosa si sta quasi riproducendo. Channel Five potrebbe farci un documentario.»
«Ma i capelli sono tuoi, non miei. Ti sei visto allo specchio, ultimamente?» È una cattiveria infantile, lo so, ma non mi fermo. «Sei tu quello che si sta stempiando, non io.»
«Chissà perché» ribatte sbuffando. Ora ha l’aria molto, molto arrabbiata. Accennare a lui la calvizie incipiente è come ricordare a me le maniglie dell’amore.
Sto esagerando, ma non me ne pento. Ho soltanto voglia di provocarlo. Infilo la borsa a tracolla. «Bene. Tra venti minuti bisogna andare a prendere Danny a casa di Finn. Alle tre ha nuoto.»
«Non posso portarlo a nuoto! Ho da fare» protesta Tom con un tono gelido, studiato apposta per essere irritante.
«Be’, devi.»
Tom si sfrega la mascella. È un po’ in ansia ora: forse si è reso conto che non sto affatto scherzando. «Ma c’è la partita.»
«Bene.»
«Ci provi gusto, eh?»
In effetti sì, in un certo qual modo perverso e malato, però sì. «E non dimenticarti il collirio antibiotico di Danny alle quattro. Farà delle storie. Tante. Escludendo l’ipotesi di bloccargli la testa con una presa di wrestling, ti suggerisco di corromperlo con un biscotto. Quelli allo zenzero nella scatola grande di latta sul secondo ripiano... Oh, non importa, li troverai da solo. E tua madre è...»
Tom si tappa le orecchie con le mani, come un bambino. «Dio mio, Sadie. Sembra che tu sia sul punto di partire armi e bagagli! Spegniti per un attimo, d’accordo? Lo sai che settimana ho avuto, e sento ancora l’effetto del jet lag dopo la trasferta a New York. Ho bisogno di un po’ di pace, giusto di rilassarmi per qualche stramaledetto minuto senza saltare in macchina e sfrecciare per Londra come un tassista imbottito di steroidi...»
«Me l’hai chiesto tu di andarmene!» Lo interrompo aggrappandomi alle parole con cui si è scavato la fossa, anche se so benissimo che, probabilmente, non diceva sul serio. «E io eseguo.»
«Non fare la sceneggiata. Vuoi passare per martire, Sadie Drew? Benissimo, ce l’hai fatta! Adesso però siediti a finire il tuo caffè, santo cielo, e cerchiamo di salvare il poco che resta del sabato mattina.»
«No» insisto, sorpresa dalla mia stessa fermezza in questa ribellione domestica. «Vado.»
«Non puoi! E Danny? Io ho delle cose da fare. E la partita...»
«Sta’ a vedere!»
Esco di casa pestando i piedi e sbatto la porta con un gran senso di liberazione. Non l’avevo mai fatto prima: qualche volta l’ho minacciato, ma non me ne sono mai andata davvero, lasciando a metà le faccende quotidiane. Questo gli servirà di lezione. Io... Io... Io cosa di preciso? Mi blocco sul marciapiede. Dove diavolo sto andando? Shopping? Museo? Ci sono un sacco di cose che dico sempre di voler fare, se solo ne avessi il tempo, ma ora, con questa splendida opportunità che mi è piovuta dal cielo, perdono tutto il loro fascino. Sono ancora troppo arrabbiata per ammirare con tranquillità dei quadri e formulare un giudizio anche solo lontanamente intelligente. Lo stesso vale per gli acquisti: finirei per comprare qualche insulso abitino giallo a righe orizzontali, o l’ennesima T-shirt blu della Gap. Mi volto per controllare che Tom non mi stia spiando da una finestra del primo piano intuendo la mia esitazione. No, grazie a Dio le tapparelle sono abbassate. In mancanza di un’idea migliore, accaldata e sconvolta mi avvio a passi rapidi verso la metropolitana, ancora incerta sulla destinazione.
Non voglio andare subito in centro – folla, rumore, tentazioni consumistiche ad alto rischio –, perciò scendo alla fermata di Regent’s Park in Marylebone Road. Il traffico mi sfreccia accanto rombando; sembra più assordante e feroce del solito. E così anche tutto il resto. Solo il parco pare tranquillo, un rifugio fiorito tra auto che corrono, gente che va di fretta, piccioni rapaci che volano rasoterra. Accanto al cancello c’è una bancarella di fiori. Rose, girasoli, tulipani. Come al solito mi attraggono; cerco di ignorarli, ma scopro che mi è impossibile, come è impossibile a un adolescente ignorare le ragazze in topless sulla spiaggia. Lancio un’occhiata furtiva. Esito. Alla fine cedo e mi compro un mazzo di splendidi tulipani rosa dai petali carnosi, anche se non ho certo bisogno di altri fiori nella mia vita e potrei acquistarli a un quarto del prezzo al mercato di Covent Garden. Ma che importa...
A Regent’s Park trovo un bel posticino piuttosto isolato, dietro una nube di profumati boccioli di ciliegio. Mi siedo, cerco di mettermi comoda. Un’impresa. Le altre donne sembrano graziose, bucoliche, al parco. Io no: a me viene prurito. E mi fa male la zona lombare. Mi massaggio le braccia. Ora che sono ferma, mi accorgo che l’aria è frizzante. Anche se c’è il sole, le nuvole si ammassano in grappoli simili ai fiori di un’ortensia lilla, e cominciano a riempire il cielo a ovest. Potrebbe piovere. Avrei dovuto riesumare il maglione dal cesto della biancheria sporca prima di precipitarmi fuori.
Cerco di placare la mia ira nei confronti di Tom – a quanto pare non ne faccio una giusta – e di godermi questo pazzo momento di libertà. Sono anni che non me ne sto da sola in un parco, da quando è nato Danny probabilmente. Nessun bambino che mi assilla per avere il gelato, nessun marito che legge i messaggi sul BlackBerry mentre camminiamo. L’orrore del pranzo di ieri inizia ad attenuarsi e mi sento invadere da uno strano senso di aspettativa. Sono sola e potrebbe succedere di tutto! Anzi, succede di tutto alle giovani (o quasi) mogli incazzate nei parchi londinesi: ho visto la scena milioni di volte alla tv. Al momento giusto passa un ventenne biondo e sexy, con i jeans a vita bassa e un bulldog al guinzaglio con catenella di metallo. La mia mente comincia a trottare: il cane corre verso di me e io resto impigliata nella catena, così io e il ragazzo siamo costretti a parlarci e poi... Poi il tipo se ne va senza voltarsi indietro!
Il malumore ritorna: il pranzo, la lite, tutto. Non riesco proprio a smettere di rivedere ogni cosa nella mia testa – rewind, pausa, rewind – cercando di capire da quando gli eventi hanno iniziato a prendere una brutta piega. Di sicuro molto prima del dente cariato di Aysha. È piuttosto difficile individuare il momento esatto in cui un matrimonio passa da grandioso a un po’ meno grandioso a, siamo sinceri, piuttosto scarso. O ritrovare il punto preciso in cui il sentiero che Tom e io percorrevamo insieme, improvvisamente, si è diviso.
A Toronto eravamo più o meno felici. Forse il fatto di vivere in un paese straniero ci aveva in qualche modo sospesi per un po’ fuori dalla realtà. Tom aveva un posto sicuro nel marketing, settore media, con orari flessibili e un capo simpatico.
Avevamo preso in affitto un appartamento moderno in un grazioso quartiere tranquillo: due camere da letto, un soggiorno grande e luminoso quasi senza mobili. Persino io faticavo a lasciarlo in disordine e, se anche lo facevo, a Tom non importava. Non quanto adesso, almeno: era molto più rilassato. Io, poi, ero una neomamma e un’emigrata; non cercavo lavoro. Insomma la vita era relativamente semplice. Mangiavamo spesso fuori, o prendevamo un takeaway. Cavoli, facevamo i picnic alle Cascate del Niagara, sciavamo sulle Blue Mountains, passavamo caldi weekend di luglio a Wasaga Beach. L’aria era fresca, le strade erano ampie. Non c’erano suocere a complicare le cose. Eppure da bravi inglesi sentivamo la nostalgia della nostra isoletta stracara e sovraffollata. E quando a Tom hanno offerto un posto a Londra – per il quale si era candidato a mia insaputa (e un vecchio amico ci aveva messo una buona parola) – ho scorto una felicità nei suoi occhi che non avevo mai visto prima. Mi disse che era la sua grande occasione. Che Toronto gli piaceva, ma era provinciale rispetto a Londra. Che gli mancava la competizione. Io non ho fatto molta resistenza: da un po’ sentivo dentro un tarlo, la sensazione di dover recuperare le mie radici e il mio lavoro prima che fosse troppo tardi. La luna di miele con il bebè era finita: era tempo di tornare alla vita reale.
La verità è che poi è divenuta reale fin troppo in fretta.
Immaginavo che, una volta rientrati a Londra, avremmo ricominciato la nostra vecchia vita, riprendendola da dove si era interrotta alla partenza, in quei primi tempi felici e pieni d’amore. Poco importava che all’epoca non avessimo figli, che non ci fossero complicazioni. Devo ammettere di aver dato per scontate un sacco di cose. Il più grosso abbaglio è stata la convinzione che Tom la pensasse allo stesso modo. Avevo già programmato per filo e per segno la nostra vita: saremmo rimasti a Londra un paio d’anni, poi ci saremmo trasferiti in campagna, magari nel Sussex o nell’Oxfordshire, con una truppa sempre più numerosa di pargoli di idilliaca bellezza. Sarei tornata in città solo in caso di necessità o per lavoro, e avrei passato il resto del tempo nel nostro grande giardino organizzando lunghi, pigri pranzi su un tavolo rustico con una tovaglia di lino francese, mentre i bambini si arrampicavano sul melo e noi ci ubriacavamo di vino costoso con gli amici londinesi in visita, verdi d’invidia.
Non è andata così, ovviamente. Primo, Tom è cambiato. È stressato, stanco, nervoso, ossessionato dall’idea di dover dimostrare quanto vale, come se da questo dipendesse la conta degli spermatozoi. E sta mettendo su la tipica pancetta da pranzo aziendale. Ma anche Londra è cambiata: mi sembra più frenetica e aggressiva di quanto la ricordassi, oltre che più costosa. Con un bambino piccolo, poi, è più difficile da apprezzare. Gli strilli dei quotidiani – AGGRESSIONE. ORE DICIASSETTE, LUNEDÌ... –, che punteggiano il quartiere come perverse controparti dei cartelli marroni con le indicazioni per i turisti, hanno perso tutta la loro sinistra attrattiva. In più molti dei miei vecchi amici londinesi sono andati a vivere fuori città in cerca di buone scuole e spazi aperti. Un’idea piuttosto sensata.
Nel momento in cui ho chiesto a Tom, quasi riflettendo tra me e me ad alta voce, quando (non se) avremmo fatto lo stesso, lui ha alzato le spalle e mi ha guardato come se gli stessi proponendo di trasferirci in Mongolia e vivere in una yurta. No, ha risposto. Neanche per idea. Lui deve stare al massimo a trenta minuti da Soho. La campagna inglese lo invecchierebbe nel giro di una notte: minimarket, fango e letame, la mafia dei figli di papà in 4x4... Non riuscirebbe a sopportarlo. Dopo tre anni in Canada, deve stare al centro del mondo. Che tradotto significa: devo dimostrare quanto valgo. Pensa di avere sprecato i suoi vent’anni a bighellonare da un lavoretto all’altro senza esprimere appieno le proprie potenzialità, e che questa sia la sua grande occasione, il biglietto d’oro di Willy Wonka. E magari lo è.
Il suo lavoro – una posizione di responsabilità in una grande, affermata agenzia di rappresentanze di star e personaggi famosi, la Anderson & Co., con la prospettiva di un ruolo dirigenziale – ha cambiato le sue priorità, ormai davvero poco compatibili con la famiglia. Fa orari sempre più assurdi, controlla le e-mail prima di colazione, prima di andare a letto e dopo aver fatto l’amore. Non che lo si faccia spesso, negli ultimi tempi. La scorsa settimana mi ha persino confessato che per lui è un sollievo che Danny abbia ormai quasi tre anni e che noi stiamo finalmente “riavendo indietro la nostra vita”. Nemmeno fosse un bel DVD prestato a un amico.
Io non lo voglio indietro quel DVD, fino alla fine dei miei giorni: voglio il sequel, il due e il tre. Ma Tom non è sicuro di desiderare un altro figlio. E questo mi spezza il cuore in un milione, in un fantastiliardo di pezzi, perché io lo vorrei, invece, con ogni singola particella del mio corpo.
Riecco il maledetto prurito. Allungo le gambe bianco latte sull’erba, appoggio la schiena e fisso la coltre di fiori rosa sopra di me. Il vento li muove, li fa scendere a pioggia; sono così perfetti da sembrare le guarnizioni di zucchero di certi pasticcini o i coriandoli al mio matrimonio, tre anni fa. Una vita fa. Chiudo gli occhi, ma Regent’s Park ci mette il becco. Con prepotenza.
«Così gli ho detto,» tuona una voce «no, non vado in nessuna clinica pidocchiosa, io da sola...»
Riapro gli occhi. La proprietaria della voce è alla mia sinistra, snella e abbastanza giovane da potersi scoprire al parco per prendere il sole: si è tirata su fino alle cosce la graziosa gonnellina a fiori ed è rimasta in reggiseno di pizzo nero. Il torace sottile, abbronzato, è steso sull’erba come una bandiera. Gli uomini rallentano il passo, la guardano. Lo farebbe anche Tom, se fosse qui. Lei li fissa a sua volta, come se fosse offesa dalle loro occhiate lascive, ma non si copre.
Anche se ho solo trentaquattro anni, faccio fatica a ricordare di avere avuto quel genere di sicurezza sfrontata. Eppure anch’io ero così. Una volta cercavo il mio riflesso nelle vetrine, negli specchietti delle auto parcheggiate: ora invece lo evito, e se per caso lo scorgo faccio finta che sia di qualcun altro. Ci vuole sempre qualche secondo per realizzare che sono proprio io.
A sinistra della Giovane Urlante c’è una signora anziana, che siede composta sotto una vecchia quercia, con le braccia strette intorno alle ginocchia. Sorride divertita dalla volgarità della sua acerba vicina. Magra ed elegante in un abito di taglio sartoriale grigio perla con giacca in tinta, ha capelli d’argento, arricciati con stile intorno a un bel viso ovale dagli zigomi sporgenti; le sue labbra sono di un rosso vivo, del colore dei gerani. Mi ricorda un po’ la mia nonna materna: stessa acconciatura, stessa schiena dritta da ballerina.
Di rimando la mente torna a mia madre, che ho rivisto proprio qui l’anno scorso, quando ero rientrata in visita dal Canada. Alzandosi sulle punte aveva staccato un rametto fiorito da un albero sotto lo sguardo di rimprovero di un guardaparco. Lei l’aveva bellamente ignorato – se ne infischiava di minuzie simili dal giorno della diagnosi – e mi aveva avvicinato i fiori al naso solleticandomi le narici con i petali. «Senti, Sadie! Scommetto che non ne avete così a Toronto.»
Cercava sempre di spingerci a tornare a Londra, e l’opera di convincimento si era intensificata in modo spudorato dopo la nascita di Danny. «Vuoi davvero che tuo figlio cresca con un terribile accento canadese?» Si era infilata il rametto nel bavero della giacca di lana rossa – la faceva sembrare così minuscola e fragile – e avevamo ripreso a camminare in direzione del bar, per un caffè e una fetta di torta alla carota. Adesso mia madre non c’è più: è concime per le margherite. Sono tornata troppo tardi.
Guardo l’orologio: è quasi ora della lezione di nuoto di Danny. Tom se ne ricorderà? Ricorderà di mettergli nella sacca gli occhialini? Saprà che nostro figlio deve assolutamente mangiare qualcosa di dolce e bere un succo di frutta subito dopo la piscina, altrimenti potrebbe collassare? Mi rode il fatto di essere la sola a tenere a mente queste cose. Tom pensa che non lo riguardino o, semplicemente, che non siano importanti rispetto alla sua nuova, sfavillante carriera. L’unica cosa che gli interessa è che io mi presenti a un pranzo a cui non voglio andare, che sembri il clone di tutte le altre mogli. Che reciti una parte per cui non ho mai fatto il provino.
D’improvviso un vento freddo attraversa Regent’s Park increspando l’erba, tanto che la ragazza in reggiseno è costretta a recuperare la maglia. Il sole sembra semplicemente spegnersi, come se il cielo fosse un biscotto inzuppato troppo a lungo in una tazza di tè concentrato. Il tempo inglese! Mi alzo in fretta spolverandomi i jeans e raccolgo i miei tulipani.
Il vento fa le bizze, ormai impetuoso: i fiori cominciano a cadere dal ciliegio e mi vorticano intorno in nubi confuse, poi ecco la pioggia; le gocce scendono fitte come una doccia di spilli. La ragazza che prendeva il sole corre verso i cancelli del parco; io, sotto l’acquazzone, mi sento sempre più nervosa e avverto un peso sul petto, come se una zampa di elefante mi premesse sullo sterno.
Sta succedendo qualcosa, qualcosa che non mi piace. Mi sento vulnerabile e lancio un’occhiata in direzione della quercia per controllare che la signora in grigio stia bene, ma non c’è più. Un boato tremendo, uno scoppio atomico. Merda! Che diavolo è? Qualcuno lassù si è arrabbiato? Poi – accidenti! – un nuvolone scuro sorvola il parco, rotolando verso di me. La nuvola incombe sempre più minacciosa.
Per un attimo rimango immobile, incantata: è come se i sentimenti che ho dentro avessero assunto una forma concreta. Mi avvicino con passo incerto alla quercia, in cerca di un riparo. Poi un tonfo sordo e tutto diventa nero.
Un viso attempato mi sta osservando. Non lo conosco. Ho in bocca uno strano sapore di rame e avverto una vaga sensazione di bagnato, come se fossi sotto la doccia o Danny stesse rovesciando su di me una caraffa d’acqua. Oppure... Santo cielo, non me la sarò fatta addosso!
«Devo chiamare un’ambulanza, cara?» dice la signora anziana.
«No. No, grazie.» Mi guardo intorno. Con mio immenso sollievo, non ho avuto un episodio di incontinenza: sono seduta sull’erba fradicia, la schiena è appoggiata alla quercia che mi offre riparo, mentre la pioggia torrenziale fende con un sibilo il cielo intorno a noi. Il viso ora sorride: le labbra sono sottili, a forma di cuore e color geranio. Ecco! È la signora in grigio che poco fa sedeva qui.
«Sì, l’ambulanza è un fastidio inutile» approva. «È solo un po’ di sangue.»
Sangue? Mi porto le dita alla fronte e le ritraggo tinte di un rosso tipo film splatter.
Lei apre la borsetta con uno schiocco – una borsetta lucida di coccodrillo, simile a quella della regina – e tira fuori un fazzolettino di carta. «Secondo una leggenda persiana, i primi tulipani nacquero dalle gocce di sangue versate da un innamorato, lo sapeva?»
«Davvero? Grazie.» Che cosa sta dicendo? Mi tampono la fronte sanguinante con il kleenex.
«Un ramo. Uno piccolo» spiega la signora, indicando in alto. «Per un pelo non la prendeva in un occhio. È stata fortunata. I suoi fiori un po’ meno...»
I tulipani sparpagliati a terra ora assomigliano a quelli finti, di legno dipinto, che si comprano al mercato di Camden Town. L’erba è coperta da una spessa coltre di petali chiari, ramoscelli e rifiuti forse trascinati via dai cestini del parco. La signora raccoglie qualche fiore piegandosi con una certa grazia malferma, e me li porge.
«Grazie infinite. Ma cosa è successo?»
Alza le spalle sottili, come quelle di una bambina. «Una farfalla ha sbattuto le ali a Pechino o qualcosa del genere...» Ride. «Per la verità, non lo so di preciso, ma direi che è stato piuttosto divertente. Di sicuro ha spazzato via le ragnatele, no?»
Le sorrido, grata per lo humour e la calma (l’esatto contrario, temo, di come sarò io alla sua età). La pioggia torrenziale sta cessando, ma l’atmosfera è ancora cupa. E l’aria ha una consistenza strana, troppo densa, quasi che il cielo sia stato riavvitato su di noi come il tappo ermetico di un vasetto di marmellata. Un’ansia lenta e pungente comincia a insinuarsi dentro di me. È ora che torni a casa. «Devo andare.»
«Io aspetterei un minuto se fossi in lei. Si bagnerà fino all’osso. Guardi, ce n’è ancora uno.» Raccoglie l’ultimo tulipano e lo tiene quasi con deferenza. «Delizioso.»
«Sono una decoratrice floreale» dico, e mi esce flodeale. Non credo si aspettasse una spiegazione, e non so perché io mi sia sentita in dovere di fornirgliene una.
Un sorriso sorpreso illumina lentamente il viso della signora. «Allora, mia cara, era destino che ci incontrassimo.» Mi tende una mano delicata piena di piccole macchie brune, a prima vista più vecchia rispetto al volto. Al dito ha un diamante delle dimensioni di una lampadina, fermato dalla nocca sporgente. «Enid. Enid Fisher.»
«Sadie.» Sorrido anch’io e le stringo la mano, fragile al tatto come un’aletta di pollo. Cara dolce vecchietta. La gentilezza degli sconosciuti, a Londra, ti coglie sempre un po’ alla sprovvista: tendenzialmente mi aspetto di essere rapinata più che abbracciata.
Restiamo lì ancora per qualche istante, come due amiche di lunga data, a guardare in silenzio la pioggia che scroscia con il rumore di una scatola di perline rovesciata. Il ticchettio forte, ipnotico, spazza via per un momento il dolore e la rabbia. Alla fine l’acquazzone si calma un po’. «Dovrei farcela, credo. Lei se la caverà, qui?» dico.
«Ma certo. Non sono io quella che si è presa una botta in testa.» La signora posa per un attimo lo sguardo sulla mia mano sinistra e vede la mia fede, una fascetta intrecciata, ora con residui di compost nella trama. «Ah, è sposata. Bene, così suo marito si prenderà cura di lei.»
«Ne dubito» rispondo pensando all’ultima volta che sono stata male (un’influenza il mese scorso). Il massimo dell’assistenza che ho ricevuto da Tom è consistita in una tazza di tè e nella richiesta di non respirare nella sua direzione, perché il giorno dopo aveva una riunione importante.
«Allora dovrà rieducarlo.»
Rido. «Ha perfettamente ragione. Ma prima mi tocca una corsa disperata fino alla metropolitana. Ecco, tenga i tulipani. Insisto, è stata così gentile.» Glieli metto tra le mani.
«Oh grazie! Che meraviglia! Un momento.» Apre di nuovo la borsetta da regina e ne estrae un cartoncino. «Prenda il mio biglietto da visita, per favore. Ho appena perso la mia fiorista di fiducia. E ho proprio bisogno di qualcuno che si intenda di tulipani. Anzi, è fondamentale. Mi chiami, d’accordo?»
«Grazie.» Sorrido educata, sapendo che non lo farò. Non sono in cerca di nuovi clienti. E poi Tom già si lamenta che sto tirando troppo la corda. Dice che non sono costretta a lavorare, ma non capisce che devo farlo, indipendentemente dalla nostra situazione economica, altrimenti rischio di non essere più me stessa.
La signora Fisher mi scruta con i suoi piccoli occhi celesti e luccicanti, vivaci malgrado l’età, per nulla arrossati o lattiginosi. «Ne so qualcosa anch’io di mariti.»
Okay. Allarme nonnina squinternata. «Io sono venuta al parco proprio per sfuggire al mio» scherzo infilando il biglietto nella tasca dei jeans. «Grazie dell’aiuto. Arrivederci.»