Il pomeriggio di domenica 28 giugno, il Kaiser si trovava al largo della costa settentrionale della Germania, per preparare il suo yacht Meteor in vista della regata di Kiel. La lancia a motore Hulda si affiancò suonando la sirena, e l’ammiraglio Müller, capo del gabinetto navale dell’imperatore, gridò da bordo la notizia degli omicidi di Sarajevo. Dopo una breve riunione a bordo dello yacht, fu deciso di fare immediatamente ritorno a Berlino, «per prendere in mano la situazione e preservare la pace in Europa»1. Più o meno nello stesso momento, all’ippodromo di Longchamp, venne consegnato un telegramma al presidente della Repubblica francese Raymond Poincaré, che stava assistendo al Grand Prix assieme a diversi membri del corpo diplomatico. Il conte Szécsen, ambasciatore austro-ungarico, se ne andò immediatamente. Il presidente e la maggior parte degli altri rappresentanti stranieri rimasero a godersi le corse pomeridiane.
Questi episodi, di per sé insignificanti, fanno emergere la diversità delle reazioni e degli atteggiamenti che tanti problemi avrebbero causato durante la Crisi di luglio del 1914. In Germania, secondo l’ambasciatore britannico a Berlino, la notizia degli omicidi provocò una generale costernazione. L’imperatore era appena tornato da una visita all’arciduca a Konopischt (l’odierna Konopiště), sua residenza boema, e l’«intimità» fra i due uomini era «un fatto risaputo e fonte di grande soddisfazione per i tedeschi». A ciò si aggiungeva il sentimento di compassione che in Germania si provava per l’anziano imperatore2. Per i tedeschi, come per gli austriaci, l’impatto dell’evento si riflesse in un’innumerevole serie di impressioni personali; lo storico Friedrich Meinecke, ad esempio, quando lesse i titoli affissi negli uffici di un quotidiano vide completamente buio davanti a sé3.
Anche in Romania, il rammarico per la notizia fu profondo e diffusamente sentito, nonostante il recente allontanamento fra Bucarest e Vienna. La stampa romena elogiò in modo unanime l’arciduca scomparso, descrivendolo come «protettore delle minoranze e sostenitore degli obiettivi nazionali» all’interno del suo impero4. L’inviato russo a Bucarest riferì che i romeni di entrambi i versanti dei Carpazi avevano visto in Francesco Ferdinando colui che aveva sostenuto i recenti tentativi di negoziare un compromesso fra l’amministrazione magiara e i romeni della Transilvania; c’erano molti «statisti e uomini politici», rilevava, i quali avevano sperato che l’accesso al trono dell’arciduca avrebbe aperto le porte ad una ripresa delle buone relazioni con Vienna. Anche il rappresentante serbo a Bucarest dovette mestamente notare che le reazioni dei romeni «nei confronti della Serbia [erano] molto meno amichevoli di quanto ci saremmo potuti aspettare»5.
Altrove, il quadro era diverso. Il contrasto più netto lo si vide proprio in Serbia, dove l’ambasciatore britannico registrò «una sensazione di stupore, più che di rammarico» nel popolino6. Dal vicino Montenegro, il segretario della legazione austriaca Lothar Egger Ritter von Möllwald riferì che si assisteva a manifestazioni di compianto per i morti di Sarajevo, ma gli austriaci venivano biasimati perché si erano comportati in modo da provocare il disastro7. Nella cittadina di Metalka, ai confini con l’Austria, il 2 luglio sventolavano ancora bandiere a festa; le indagini degli austriaci rivelarono che i vessilli erano stati esposti soltanto il 30 giugno – non servivano a festeggiare la ricorrenza di Kosovo Polje, ma a schernire le truppe di frontiera austriache posizionate nelle vicinanze8. Da San Pietroburgo, il caparbio rappresentante serbo Spalajković riferì il 9 luglio che la notizia dell’uccisione di Francesco Ferdinando era stata accolta «con piacere»9.
In Italia, alleata e allo stesso tempo rivale dell’Austria, la morte dell’arciduca e di sua moglie suscitò sentimenti di segno diverso. Agli italiani dei territori austro-ungarici Francesco Ferdinando aveva riservato un’ostilità quasi pari a quella rivolta ai magiari. A parte le espressioni ufficiali di cordoglio, scrisse l’ambasciatore britannico a Roma, Rennell Rodd, era ovvio «che la gente in generale [aveva] considerato l’eliminazione del defunto arciduca quasi come provvidenziale». E i rapporti sia dell’ambasciatore austriaco sia del rappresentante serbo confermavano quest’impressione10. Secondo quanto riferì l’ambasciatore russo, il pubblico che la domenica pomeriggio affollava un cinema romano aveva accolto la notizia con applausi e richieste all’orchestra di suonare l’inno nazionale – «Marcia reale! Marcia reale!». E quando l’orchestra acconsentì, scoppiarono frenetici applausi. «Il delitto è orrendo», disse il ministro degli Esteri San Giuliano all’ambasciatore Sverbeev, «ma la pace mondiale non ne risentirà in peggio». In una conversazione con il rappresentante diplomatico serbo a Roma, un giornalista italiano riassunse i propri sentimenti con le parole «Grazie Serbia!»11.
Quanto alla Francia, la notizia di Sarajevo venne scalzata dalle prime pagine dei giornali da uno scandalo di enormi proporzioni. Il 16 marzo del 1914 madame Caillaux, moglie dell’ex primo ministro Joseph Caillaux, era entrata nell’ufficio del direttore del «Figaro», Gaston Calmette, e gli aveva sparato sei colpi. Il movente del delitto era la campagna che il quotidiano aveva condotto contro suo marito, pubblicando fra l’altro le lettere d’amore che la signora aveva scritto a Joseph Caillaux quando egli era ancora sposato con la sua prima moglie. Il processo avrebbe dovuto aprirsi il 20 luglio, e l’interesse del pubblico per questa vicenda, che univa uno scandalo a sfondo sessuale e un crime passionnel commesso da una donna molto in vista nella vita pubblica francese, fu naturalmente intenso. Ancora il 29 luglio, il rispettabile «Le Temps» dedicò all’assoluzione di madame Caillaux (decretata in base alla tesi secondo cui la provocazione era un elemento tale da giustificare il delitto) un rilievo doppio rispetto a quello riservato alla crisi che stava montando in Europa centrale12. L’atteggiamento dominante della stampa parigina, nella sua limitata reazione alle notizie da Sarajevo, era che Vienna non aveva diritto di accusare il governo serbo di complicità negli omicidi, e anzi i quotidiani francesi biasimarono la stampa viennese perché fomentava sentimenti antiserbi13.
Da Londra, al contrario, il ministro serbo riferiva costernato che la stampa britannica sembrava «seguire la propaganda degli austriaci» e incolpare dell’assassinio la Serbia: «Dicono che è stato l’atto di un rivoluzionario serbo che aveva legami con Belgrado; ciò non è bene per la Serbia»14. Un editoriale del «Times», il 16 luglio, affermava che l’Austria aveva tutto il diritto di insistere nel condurre approfondite indagini per scoprire le intere ramificazioni del complotto, e di esigere che la Serbia da allora in poi reprimesse l’agitazione irredentista contro la monarchia asburgica15.
Come si può vedere da queste diverse vicende, gli atteggiamenti nei confronti del delitto assumevano sfumature differenti in relazione ai problemi geopolitici che condizionavano le relazioni fra gli Stati. Da questo punto di vista la Romania è un esempio interessante. In generale l’opinione pubblica era ben disposta verso l’arciduca scomparso, del quale era noto l’orientamento favorevole ai romeni. Tuttavia il re Carlo, il quale aveva determinato il recente avvicinamento della Romania alle potenze dell’Intesa, adottò una posizione filoserba; egli confidava che il governo serbo avrebbe condotto un’indagine rigorosa e completa sul delitto, e riteneva quindi che l’Austria non avesse il diritto di imporre le sue pretese a Belgrado16.
Uno sviluppo molto più minaccioso fu il delinearsi di una serie di posizioni che minimizzavano la rilevanza dell’evento e quindi ne disconoscevano la potenziale funzione di casus belli. Dapprima vi fu l’affermazione, ampiamente ripresa nelle comunicazioni diplomatiche fra le potenze dell’Intesa (che coinvolsero anche il loro possibile partner italiano), secondo cui l’arciduca era stato alla testa di un partito della guerra austriaco – un’idea che, come si è visto, non corrispondeva a verità. L’enfasi sull’impopolarità della vittima serviva a gettare dubbi sull’autenticità dello sdegno austriaco per i crimini, sostenendo al tempo stesso la versione che il complotto fosse in qualche modo un riflesso dell’impopolarità della dinastia asburgica fra gli slavi del Sud che vivevano nei suoi territori, e che quindi non avesse niente a che fare con la Serbia. Poi ci fu la tesi, assai avventata, ed enunciata come se si trattasse del frutto di una lunga e approfondita ricerca, che le autorità serbe fossero completamente estranee all’attentato di Sarajevo. Secondo un dispaccio inviato il 13 luglio dal ministro serbo a Berlino, il ministero degli Esteri russo aveva informato il suo ambasciatore a Berlino che non c’era «un coinvolgimento serbo nell’assassinio di Sarajevo» – questo in una fase in cui l’indagine austriaca, pur con tutto il suo scarso attivismo, aveva già prodotto una chiara dimostrazione del contrario. Da San Pietroburgo, Miroslav Spalajković riferì con tono di approvazione che, nonostante il dossier di elementi probatori inviato dal Korrespondenz-Bureau austriaco alla stampa russa, i giornali di San Pietroburgo stavano seguendo la linea del governo russo e trattando l’incidente di Sarajevo come un «affare esclusivamente interno dell’Austria»17.
Se seguiamo l’evolversi di questo tema nei dispacci russi, possiamo vedere come questi punti di vista andassero a fondersi in un’argomentazione che negava a Vienna il diritto di prendere contromisure e trasformava i delitti in un pretesto costruito ad arte per giustificare un’azione le cui reali motivazioni andavano ricercate altrove. In anni recenti Francesco Ferdinando era stato poco più di un lacchè del Kaiser, scriveva l’ambasciatore Šebeko da Vienna. Se a Vienna vi era qualche sincera manifestazione di sentimenti antiserbi dopo gli omicidi, ciò era opera di «elementi tedeschi» (Šebeko non faceva menzione dell’importante ruolo svolto dai croati nelle dimostrazioni antiserbe che fecero seguito all’attentato, sebbene in un successivo dispaccio aggiungesse misteriosamente che vi erano coinvolti anche «elementi bulgari»). Il 1° luglio Šebeko riferì che l’ambasciatore tedesco Heinrich von Tschirschky, in particolare, stava facendo del suo meglio per «sfruttare il triste evento» aizzando la pubblica opinione contro la Serbia e la Russia (in realtà Tschirschky in quel momento stava agendo in modo esattamente opposto, e invitando tutti alla cautela, con gran dispiacere per l’imperatore a Berlino; solo in seguito cambiò tattica)18.
Da Belgrado, Hartwig comunicava a San Pietroburgo che tutte le affermazioni delle autorità austro-ungariche erano false: in Serbia non c’era schadenfreude, anzi, al contrario, l’intera nazione era mossa a compassione dagli spaventosi delitti di Sarajevo; le presunte reti belgradesi che si diceva avessero aiutato i terroristi nel loro complotto contro l’arciduca non esistevano; Čabrinović non aveva avuto le sue bombe e le sue armi dall’arsenale di Kragujevac, e via dicendo. L’asserzione secondo cui gli austriaci stavano fabbricando prove era importante, non solo perché ricordava lo scandalo dei processi di Friedjung, ancora vivi nella memoria serba (si veda il capitolo 2) o perché fosse falsa (come peraltro sicuramente era), ma perché implicava che Vienna stesse deliberatamente trasformando le uccisioni di Sarajevo in un pretesto per un attacco a Belgrado che in realtà era motivato dal suo aggressivo espansionismo19. E dietro queste macchinazioni, probabilmente, c’erano i tedeschi, i quali, come notò l’inviato russo a Sofia, potevano ben vedere negli eventi in corso la possibilità di lanciare un attacco preventivo contro il loro vicino orientale, e così arrestare la crescente preponderanza militare dell’Alleanza franco-russa20. Nacque così, già settimane prima che la guerra scoppiasse, una serie di argomenti che sarebbe sopravvissuta a lungo nella letteratura storiografica.
Da tutto ciò naturalmente seguiva, agli occhi dei governanti russi, che l’Austria non aveva diritto a prendere misure di alcun tipo contro la Serbia. Uno dei presupposti della posizione russa era che uno Stato sovrano non poteva essere considerato responsabile per le azioni di privati cittadini che agivano in territorio straniero, soprattutto se si trattava di anarchici immaturi – le fonti russe non fanno quasi mai riferimento all’orientamento nazionalista serbo o slavo-meridionale degli assassini21. Sarebbe stato sbagliato e fuori luogo considerare un’intera etnia responsabile dei delitti commessi da alcune persone in terra straniera22. Era «ingiusto», disse il 5 luglio l’ambasciatore Šebeko al suo collega britannico a Vienna, perfino che gli austriaci accusassero la Serbia di aver «indirettamente favorito, manifestando la sua antipatia, il complotto del quale è caduto vittima l’arciduca»23. Una conversazione dell’8 luglio fra Sazonov e l’incaricato d’affari austriaco a San Pietroburgo, Ottokar von Czernin, rivela quanto poco la politica russa fosse disposta a concedere a Vienna dopo Sarajevo. Czernin aveva menzionato la «possibilità» che il governo austro-ungarico «chiedesse il sostegno del governo serbo per un’indagine in Serbia sul recente assassinio». La risposta di Sazonov consisté nel mettere in guardia il diplomatico austriaco che un simile passo avrebbe «fatto una pessima impressione in Russia». Gli austriaci avrebbero dovuto lasciar cadere quell’idea, «per timore di mettersi in un sentiero pericoloso»24. In una conversazione del 18 giugno con l’ambasciatore austriaco Fritz Szapáry, che aveva nel frattempo fatto ritorno a San Pietroburgo dopo un periodo di congedo per assistere la moglie morente a Vienna, Sazonov espresse lo stesso concetto in termini ancora più netti, annunciando che «non sarebbe mai stata prodotta prova alcuna che il governo serbo abbia tollerato queste macchinazioni»25.
Questo modo di considerare gli eventi fu importante, poiché costituì un elemento del processo con cui la Russia decise come reagire nell’eventualità che l’Austria prendesse misure contro la Serbia. Il sanguinoso evento di Sarajevo, il cui carattere moralmente odioso era indiscutibile, sarebbe stato nettamente separato dal contesto serbo che lo aveva prodotto, per denunciare la supposta intenzione dell’Austria di «sfruttare il crimine allo scopo di assestare un colpo mortale a Belgrado»26. Era, ovviamente, un’interpretazione degli eventi molto di parte, in cui si esprimeva anche la solidarietà storica della Russia per l’eroica lotta dei suoi «piccoli fratelli» serbi. Ma poiché ovviamente erano i russi che avrebbero deciso se e quando la disputa austro-serba avrebbe giustificato il loro intervento, la loro posizione era quella che di fatto più contava. E c’erano pochi motivi per aspettarsi che le altre potenze dell’Intesa avrebbero insistito per una forma di arbitrato più rigorosa. Il governo francese aveva già garantito a San Pietroburgo carta bianca sulla questione di un conflitto austro-serbo. Pur senza aver analizzato la questione, Poincaré negò categoricamente qualsiasi connessione fra Belgrado e le uccisioni di Sarajevo. In un’interessante conversazione del 4 luglio 1914 con l’ambasciatore austriaco a Parigi, il presidente francese le paragonò all’assassinio del presidente francese Sadi Carnot da parte di un anarchico italiano nel 1894. Era un rilievo che sembrava esprimere solidarietà, ma che di fatto era concepito per interpretare l’attentato di Sarajevo come l’atto di un individuo aberrante, la cui responsabilità non poteva essere attribuita a nessuna entità politica, e sicuramente a nessuno Stato. L’ambasciatore austriaco rispose ricordando al presidente – invano – che l’assassinio di Carnot non ebbe «alcun rapporto con un’agitazione antifrancese in Italia, mentre adesso dobbiamo ammettere che in Serbia ci sono state per anni agitazioni contro la monarchia, che hanno fatto ricorso ad ogni mezzo consentito o illecito»27.
Edward Grey aveva almeno espresso un interesse teorico riguardo all’accertamento di chi fosse il provocatore fra l’Austria e la Serbia, in base alla considerazione che l’opinione pubblica britannica non avrebbe accettato una guerra della Triplice Intesa a sostegno di un aggressore serbo. Ma era stato molto vago su come fosse possibile comporre la disputa, e i suoi commenti nei primi giorni dopo gli omicidi non lasciavano pensare che intendesse vincolare i russi a criteri molto rigorosi. L’8 luglio, il conte Benckendorff, ambasciatore russo a Londra, fece rilevare a Grey che «non vedeva elementi su cui potesse fondarsi una manovra diplomatica contro la Serbia». La risposta del segretario britannico agli Esteri fu, come al solito, interlocutoria:
Ho detto che non sapevo cosa fosse contemplato: potevo solo supporre che ad esempio qualche scoperta fatta nel corso del processo alle persone implicate nell’assassinio dell’arciduca, come il fatto che le bombe erano state prese a Belgrado, potrebbe, agli occhi del governo austriaco, essere il fondamento di un’accusa di negligenza a carico del governo serbo. Ma questa era solo una mia immaginazione e supposizione.
Il conte Benckendorff si è detto speranzoso che la Germania avrebbe contenuto l’Austria. Non poteva pensare che la Germania preferisse veder precipitare il dissidio28.
Grey non dette risposta (o perlomeno non ne lasciò traccia) a quest’ultimo punto, che era di notevole importanza, poiché attribuiva alla Germania l’onere di contenere il suo alleato e accettava disinvoltamente l’inevitabilità di un «dissidio» – intendendo con ciò una guerra fra grandi potenze – nel caso in cui essa non lo avesse fatto. La stessa argomentazione venne formulata in un telegramma inviato da Vienna, che giunse a Grey il giorno dopo. Vi si descriveva una conversazione fra l’ambasciatore britannico a Vienna e il suo collega russo, in cui quest’ultimo dichiarava di non poter credere che l’Austria sarebbe stata così sciocca da farsi «spingere precipitosamente in guerra»,
perché un conflitto isolato con la Serbia sarebbe impossibile, e la Russia sarebbe costretta a prendere le armi in difesa della Serbia. Su questo non possono esserci dubbi. Una guerra serba significherebbe una guerra generale europea29.
Nell’arco di dieci giorni, i russi avevano elaborato un’organica narrazione alternativa degli eventi di Sarajevo. Non che il quadro fosse privo di contraddizioni. Come sottolineò un diplomatico austriaco, non aveva senso che i russi da una parte dicessero che gli slavi meridionali della Bosnia-Erzegovina erano uniti nel loro odio per la tirannia austriaca, e dall’altra condannassero gli attacchi alla proprietà serba condotti in quella regione da folle di croati infuriati. E l’affermazione russa per cui la Serbia desiderava solo vivere in pace e in armonia con il suo vicino contrastava con le precedenti assicurazioni di Sazonov a Pašić (tramite Hartwig) che presto la Serbia avrebbe ereditato i territori slavi meridionali del fatiscente Impero asburgico. L’affermazione di Spalajković, ampiamente riportata dalla stampa di San Pietroburgo, secondo cui il governo di Belgrado aveva avvertito in anticipo Vienna del complotto omicida, sollevò imbarazzanti interrogativi – ignorati dai russi – su quanto i serbi avessero saputo in anticipo della vicenda. E soprattutto, in questo modo, si rimuoveva completamente la questione del sostegno che i russi avevano dato all’espansionismo serbo, favorendo così la generale instabilità dell’area balcanica. Scompariva sostanzialmente dal quadro, infine, il problema dei collegamenti fra la Russia stessa e le reti delle organizzazioni clandestine serbe. Dopo la guerra, Viktor Artamonov, addetto militare russo a Belgrado, ammise candidamente gli stretti rapporti che aveva avuto con Apis nel periodo prebellico, e perfino che aveva fatto avere alla Mano Nera fondi per finanziare le sue attività di spionaggio in Bosnia, sebbene negasse di aver saputo in anticipo qualcosa della congiura per uccidere l’arciduca30.
In ogni caso, era già chiaro che né Londra né Parigi intendevano contestare la versione degli eventi elaborata dai russi. Un impopolare, autoritario guerrafondaio era stato abbattuto da cittadini del suo stesso paese, portati all’esasperazione da anni di umiliazioni e di maltrattamenti. E ora quel regime corrotto, vicino alla fine ma apparentemente ancora rapace, che egli aveva rappresentato, intendeva incolpare della sua non compianta morte un innocente e pacifico vicino slavo. Presentare gli eventi di Sarajevo in questo modo non equivaleva a formulare una decisione operativa, ma rimuoveva alcuni degli elementi che ostacolavano un intervento russo nel caso di un conflitto austro-serbo. L’apertura di uno scacchiere balcanico era diventata una possibilità imminente.
Ancor prima che Alek Hoyos arrivasse a Berlino la mattina di domenica 5 luglio, in Germania si era fatta strada l’idea che l’Austria-Ungheria sarebbe stata giustificata a prendere una qualche forma di iniziativa contro Belgrado. Una figura chiave di questo mutato orientamento fu il Kaiser Guglielmo II. Quando lesse il dispaccio del 30 giugno in cui Tschirschky comunicava di aver invitato gli austriaci alla calma, vi appose con rabbia dei commenti a margine:
Chi l’ha autorizzato a farlo? È una totale idiozia! È una questione che non gli compete affatto, perché [decidere] quel che fare riguarda esclusivamente l’Austria. Poi, se le cose andassero male, si direbbe: la Germania non voleva! Tschirschky mi faccia il piacere di essere così gentile da farla finita con questa assurdità! Sarebbe veramente ora di far piazza pulita dei serbi31.
Tschirschky dovette essere in qualche modo informato della reazione del Kaiser, perché il 3 luglio dette assicurazioni a Berchtold riguardo al sostegno di Berlino ad un’azione austriaca, a condizione che avesse obiettivi chiaramente definiti e che la situazione diplomatica fosse favorevole32. Quando arrivò nella capitale tedesca, Hoyos era quindi sicuro di trovare ascolto. Il suo primo compito era ragguagliare Szögyényi, ambasciatore austriaco a Berlino, sui due documenti che recava con sé, il memorandum di Matscheko rivisto e la lettera personale di Francesco Giuseppe all’imperatore tedesco. Szögyényi quindi partì con entrambi i documenti per Potsdam, dove pranzò con il Kaiser, mentre Hoyos si vide con Arthur Zimmermann, sottosegretario del ministero degli Esteri di Berlino.
Guglielmo II ricevette l’ambasciatore al Neues Palais, vasto complesso barocco all’estremità occidentale del parco di Sanssouci a Potsdam. Secondo il resoconto di Szögyényi, il Kaiser lesse rapidamente entrambi i documenti e poi rilevò che contava «su una seria azione contro la Serbia da parte nostra», ma che doveva anche considerare che una mossa del genere avrebbe senza dubbio potuto provocare «una grave complicazione in Europa». Non sarebbe dunque stato in grado di dare «una risposta definitiva prima di conferire con il cancelliere del Reich». L’imperatore quindi si ritirò per il pranzo. Szögyényi scrisse:
Dopo pranzo, quando ho sottolineato nuovamente la gravità della situazione con la maggiore energia possibile, Sua Maestà mi ha autorizzato a comunicare al nostro augusto Sovrano che possiamo contare, anche in questo caso, sul pieno sostegno della Germania. Come aveva detto, doveva sentire l’opinione del cancelliere dell’Impero, ma non aveva il minimo dubbio che il signor von Bethmann Hollweg avrebbe completamente concordato con la sua opinione. Ciò specialmente riguardo a una nostra azione contro la Serbia. Secondo la sua opinione, tuttavia, quest’azione non dovrebbe essere differita. L’atteggiamento della Russia sarebbe stato in ogni caso ostile, ma egli vi era preparato da anni, e se si dovesse andare a una guerra fra l’Austria-Ungheria e la Russia, dovremmo essere sicuri che la Germania, con la consueta fedeltà all’alleanza, sarebbe al nostro fianco. La Russia d’altronde al momento attuale non sarebbe in alcun modo pronta per la guerra, e certamente esiterebbe a lungo prima di diramare la chiamata alle armi. [...] Ma se dovessimo veramente riconoscere la necessità di un’azione militare contro la Serbia, allora egli [il Kaiser] si dorrebbe se non sfruttassimo il momento attuale, che è così vantaggioso per noi33.
Mentre l’ambasciatore e l’imperatore erano a colloquio a Potsdam, Hoyos si incontrò con il sottosegretario Zimmermann al ministero degli Esteri a Berlino per un colloquio informale – il segretario di Stato, Gottlieb von Jagow, era infatti sempre in viaggio di nozze. Hoyos e Zimmermann concordarono in linea di principio che la Germania avrebbe appoggiato un’azione austriaca contro la Serbia. Zimmermann lesse i due documenti, fece presente di non essere in posizione tale da esprimere un’opinione ufficiale e quindi rilevò – secondo la successiva ricostruzione di Hoyos – che se gli austriaci avessero attaccato la Serbia, c’era una «probabilità del 90% di una guerra europea», per poi comunque assicurare il sostegno tedesco al piano austriaco34. La precedente apprensione del sottosegretario, che il 4 luglio si era manifestata col suo appello affinché Vienna si muovesse con circospezione, si era chiaramente dissolta.
Alle cinque del pomeriggio, un gruppo ristretto si riunì al Neues Palais per discutere gli eventi del mattino e coordinare le idee. Erano presenti il Kaiser, il generale Plessen, suo assistente, il generale Lyncker, capo del suo gabinetto militare, e il generale Falkenhayn, ministro della Guerra; parteciparono anche il sottosegretario Zimmermann e il cancelliere imperiale, che nel frattempo era rientrato dalle sue proprietà. Plessen registrò i particolari della riunione nel suo diario. Il Kaiser lesse a voce alta la lettera inviatagli da Francesco Giuseppe, dalla quale ognuno concluse che gli austriaci «si stavano apprestando a una guerra contro la Serbia» e volevano «prima essere sicuri della Germania». «Fra di noi è prevalsa l’opinione che prima gli austriaci intervengono contro la Serbia, meglio è, e che i russi – per quanto amici della Serbia – alla fine non interverranno»35.
Il giorno dopo, il 6 luglio, il cancelliere Bethmann Hollweg ricevette il conte Hoyos e l’ambasciatore Szögyényi, alla presenza di Zimmermann, per dare agli austriaci una risposta formale alle loro rappresentanze (il Kaiser aveva nel frattempo lasciato Berlino per il giro in barca che ogni anno compiva in Scandinavia). Il cancelliere si soffermò dapprima abbastanza estesamente sulla questione generale della sicurezza nei Balcani: sostenne che la Bulgaria avrebbe dovuto essere maggiormente integrata nella Triplice Alleanza, che a Bucarest si sarebbe dovuto chiedere di ridurre il suo appoggio all’irredentismo in Transilvania, e così via. Solo dopo aver esposto questi punti passò a parlare dell’azione militare che veniva proposta. Szögyényi riassunse così il tenore delle dichiarazioni del cancelliere tedesco:
Per quanto riguarda i nostri rapporti con la Serbia, il governo tedesco considera che tocca a noi giudicare quello che si deve fare per regolarli; ma, qualunque sia la nostra decisione, l’Austria può esser certa che la Germania si terrà dietro la Monarchia come alleata ed amica.
Nel corso ulteriore della conversazione ho compreso che il cancelliere, allo stesso modo del suo augusto signore, ravvisa in una nostra azione immediata contro la Serbia la soluzione migliore delle nostre difficoltà nei Balcani. Da un punto di vista internazionale gli sembra che il momento attuale sia più favorevole di uno più remoto36.
Nonostante le stranezze di questa breve dichiarazione – fra l’altro, solo nove delle cinquantaquattro righe del testo a stampa del riassunto stilato da Szögyényi si riferivano effettivamente alle misure proposte contro la Serbia, e non si faceva alcuna menzione di una possibile reazione russa –, siamo di fronte a una decisione chiara e di enorme importanza. Per una volta, il governo tedesco parlava con un’unica voce. Il Kaiser e il cancelliere (che era anche ministro degli Esteri) erano d’accordo, così come lo era il sottosegretario agli Esteri, che sostituiva il segretario di Stato Jagow. Il ministro della Guerra era stato informato, e aveva comunicato all’imperatore che l’esercito tedesco era pronto per ogni eventualità. Il risultato fu la garanzia dell’appoggio tedesco, che poi sarebbe stata definita un «assegno in bianco».
Nella misura in cui questa espressione per altri aspetti fuorviante denota una promessa di aiuto per l’alleato, essa descrive in modo adeguato le intenzioni della Germania. Il Kaiser e il cancelliere credevano che gli austriaci fossero legittimati ad intervenire contro la Serbia, e meritassero di farlo senza dover temere le intimidazioni russe. Molto più problematica è l’affermazione secondo cui i tedeschi dettero un’interpretazione estensiva dei messaggi austriaci, assumendosi impegni che andavano al di là delle intenzioni degli alleati, e spingendoli in tal modo ad entrare in guerra37. Se è vero che la nota di Francesco Giuseppe non faceva direttamente riferimento alla «guerra» contro la Serbia, d’altra parte lasciava chi la leggeva senza il minimo dubbio sul fatto che Vienna stesse prendendo in considerazione un’azione estremamente radicale. Come altrimenti si potrebbe spiegare l’insistenza sul fatto che «una conciliazione del conflitto» fra i due Stati non era più possibile e che il problema sarebbe stato risolto solo quando la Serbia fosse stata «eliminata come fattore politico dai Balcani»? In ogni caso, il conte Hoyos non aveva lasciato margini di dubbio sulla posizione di Vienna. Durante la sua «missione» a Berlino egli stabilì il suo personale controllo sulle rappresentanze austriache; in seguito avrebbe rivelato a Luigi Albertini di essere stato lui stesso a redigere il dispaccio firmato dall’ambasciatore Szögyényi, sintetizzando le assicurazioni fornite da Bethmann Hollweg38.
Ma quale fu la valutazione che i governanti tedeschi dettero del rischio che un attacco austriaco alla Serbia potesse causare un intervento russo, costringere la Germania stessa ad assistere il suo alleato, far scattare l’Alleanza franco-russa e quindi provocare una guerra continentale? Alcuni storici hanno sostenuto che Guglielmo II, Bethmann Hollweg e i loro consiglieri militari videro nella crisi che stava montando a Sarajevo un’opportunità per suscitare un conflitto con le altre grandi potenze in presenza di condizioni favorevoli alla Germania. Negli anni precedenti, alcuni esponenti dell’apparato militare avevano ripetutamente patrocinato una guerra preventiva, in quanto l’equilibrio della forza militare offensiva stava rapidamente modificandosi a svantaggio della Triplice Alleanza, e di conseguenza il tempo a disposizione della Germania stava scadendo. Una guerra combattuta subito poteva ancora essere vinta; nell’arco di altri cinque anni, il divario in termini di armamenti si sarebbe ampliato a tal punto che le potenze dell’Intesa sarebbero risultate imbattibili.
Resta da valutare quale fu il reale peso di queste idee sulle decisioni dei governanti tedeschi. A tale riguardo, dobbiamo innanzi tutto rilevare che i principali responsabili della politica del Reich non credevano probabile un intervento russo, e non intendevano provocarlo. Il 2 luglio Salza Lichtenau, ministro sassone a Berlino, riferì che sebbene alcuni alti esponenti militari ritenessero preferibile che la guerra scoppiasse subito, quando ancora la Russia non era pronta, gli sembrava improbabile che il Kaiser accettasse quella linea. Un rapporto inoltrato il giorno successivo dal plenipotenziario militare sassone rilevava che, diversamente da chi considerava positivamente la prospettiva di una guerra immediata, il Kaiser «si sarebbe pronunciato per il mantenimento della pace». Coloro che il pomeriggio del 5 luglio parteciparono alla riunione con Guglielmo II a Potsdam condividevano l’opinione che i russi, sebbene amici della Serbia, non sarebbero intervenuti. Così, quando in quell’occasione il ministro della Guerra Falkenhayn chiese al Kaiser se desiderasse che si facessero preparativi nell’eventualità di un conflitto fra le grandi potenze, egli rispose negativamente. La riluttanza dei tedeschi a procedere a preparativi militari, che rimase un elemento caratteristico del loro modo di gestire la crisi fino a fine luglio, può in parte essere stata un riflesso della sicurezza con cui l’esercito considerava il proprio attuale livello di preparazione, ma dipese anche dalla volontà delle autorità tedesche di limitare il conflitto ai Balcani, anche se un fallimento di questa prospettiva rischiava a sua volta di vanificare quella stessa preparazione39.
Il Kaiser, in particolare, continuò a confidare in una localizzazione del conflitto. La mattina del 6 luglio, prima della sua partenza da Berlino, disse al facente funzione di segretario di Stato per la Marina, l’ammiraglio Capelle, di «non credere che ci sarebbero state ulteriori complicazioni militari», poiché «in tal caso lo zar non avrebbe protetto i regicidi. Inoltre, la Russia e la Francia non sarebbero pronte per la guerra». E analoghe indicazioni dette ad altre importanti personalità militari. Non era solo un modo per farsi coraggio: da molto tempo il Kaiser era dell’opinione che sebbene il grado di preparazione dei russi stesse progredendo, ci sarebbe voluto del tempo prima che fossero disposti a rischiare un attacco. Alla fine di ottobre del 1913, dopo la crisi albanese, aveva detto all’ambasciatore Szögyényi che «per il momento la Russia non gli dava motivo di ansietà; per i prossimi sei anni non c’è da temere niente da quella parte»40.
Questo tipo di ragionamento non era un’alternativa agli argomenti a favore di una guerra preventiva, e anzi in parte vi si intrecciava. Nell’indirizzo favorevole ad un attacco preventivo operavano due distinti elementi. Il primo era l’osservazione che le possibilità di un successo militare tedesco in una guerra europea stavano rapidamente scemando, il secondo era l’idea che la Germania dovesse affrontare questo problema perseguendo essa stessa la guerra prima che fosse troppo tardi. Fu la prima parte del ragionamento, e non la seconda, ad essere recepita nel pensiero delle autorità civili. Dopo tutto, gli stessi elementi che facevano pensare a una diminuzione delle possibilità di successo indicavano pure che il rischio di un intervento russo era minimo. Se le chances di una vittoria russa in una guerra contro la Germania sarebbero davvero notevolmente aumentate nei successivi tre anni, per quale motivo San Pietroburgo avrebbe dovuto rischiare un conflitto continentale nel 1914, quando ancora era a metà del cammino?
Considerazioni di questo tipo portavano ad immaginare due possibili scenari. Nel primo, che a Bethmann e ai suoi colleghi appariva molto più probabile, i russi si sarebbero astenuti dall’intervenire, lasciando che gli austriaci sistemassero da soli la loro contrapposizione con la Serbia, e forse reagendo in un secondo momento sul piano diplomatico, di concerto con una o più delle altre potenze. Nel secondo scenario, ritenuto meno plausibile, i russi avrebbero negato la legittimità della causa austriaca, chiudendo un occhio sull’incompiutezza del proprio programma di riarmo e decidendo di intervenire comunque. Era in rapporto a questa possibilità secondaria che entrava in campo la logica della guerra preventiva: perché, se comunque lo sbocco era la guerra, allora sarebbe stato meglio affrontarla subito.
Alla base di questi calcoli c’era la forte convinzione che un intervento russo non fosse probabile. Le ragioni di una così madornale sottovalutazione del livello di rischio non sono difficili da individuare. L’episodio dell’ottobre 1913, che aveva visto la Russia accettare l’ultimatum austriaco, era un precedente che andava in questa direzione. C’era poi la convinzione, assai diffusa, che il tempo giocasse a favore della Russia. A Berlino gli assassinii venivano considerati un attacco al principio monarchico, scagliato da una cultura politica con una forte propensione al regicidio (un’idea che si può ritrovare anche in parte della stampa britannica). Per quanto forti potessero essere le simpatie panslave della Russia, era difficile immaginare uno zar che si schierasse «con i regicidi», come più volte osservò il Kaiser. A tutto ciò, dobbiamo aggiungere la persistente difficoltà di decifrare le intenzioni dell’esecutivo russo. I tedeschi non sapevano fino a che punto l’ipotesi di una contrapposizione austro-serba fosse stata incorporata nel pensiero strategico dell’Alleanza franco-russa, e non riuscirono a comprendere quanto le due potenze occidentali sarebbero state indifferenti alla questione di chi l’avesse provocata.
Inoltre, i tedeschi non avevano ancora colto il significato della rimozione di Kokovcov dall’incarico di presidente del Consiglio dei ministri, e avevano difficoltà a capire quale fosse l’equilibrio dei poteri interno al nuovo governo. E in ciò non erano soli: anche i diplomatici britannici faticavano a comprendere la nuova costellazione di potere, e giunsero alla conclusione, del tutto fuorviante, che l’influenza dei conservatori contrari alla guerra come Kokovcov e Durnovo fosse ancora una volta in ascesa, mentre a Parigi si temeva che una fazione «filotedesca» guidata da Sergej Witte fosse sul punto di assumere il controllo della politica russa41. L’opacità del sistema rendeva complicata, in questa come in molte precedenti occasioni, una corretta valutazione dei rischi. Allo stesso tempo, la recente esperienza tedesca di una stretta collaborazione con Londra sulle questioni balcaniche indicava che l’Inghilterra poteva senz’altro – nonostante gli ultimi colloqui navali – comprendere il punto di vista di Berlino e spingere San Pietroburgo ad osservare una certa moderazione. Questo era uno dei pericoli della distensione: che induceva chi aveva il potere di decidere a sottovalutare i rischi connessi alle proprie azioni.
Si potrebbe quindi parlare, come hanno fatto alcuni storici, di una politica del rischio calcolato42. Ma questa sottolineatura non considera un ulteriore importante anello nell’articolazione del pensiero tedesco, vale a dire la supposizione che un intervento russo – essendo indifendibile in termini etico-giuridici o di sicurezza – sarebbe in realtà stato la prova di qualcosa di ben più minaccioso, e cioè del desiderio di San Pietroburgo di ricercare una guerra con le potenze centrali e di sfruttare l’opportunità offerta dall’iniziativa austriaca per dare avvio ad una campagna che avrebbe infranto il potere della Triplice Alleanza. Vista da questa prospettiva, la crisi austro-serba appariva, più che un’opportunità di ricercare la guerra, uno strumento per determinare la vera natura delle intenzioni russe. E se fosse emerso che la Russia voleva la guerra (il che agli occhi tedeschi era plausibile, data l’immensa portata del suo riarmo, l’intensa collaborazione con la Francia, lo sdegno per la missione di Liman e i recenti colloqui navali con la Gran Bretagna), allora – e anche in questo caso entrava in gioco l’argomento della diminuzione delle possibilità di vittoria e della guerra preventiva, come elemento del secondo livello di ipotesi – sarebbe stato meglio accettare la guerra offerta dai russi subito piuttosto che evitarla cedendo. Se si fosse tirata indietro, la Germania si sarebbe trovata di fronte la prospettiva di perdere l’unico alleato che le rimaneva e di esporsi alle crescenti pressioni da parte degli Stati dell’Intesa, la cui capacità d’imporre le loro preferenze sarebbe aumentata via via che l’equilibrio della forza militare si fosse irreversibilmente modificato a svantaggio della Germania stessa e di quel che sarebbe rimasto dell’Austria-Ungheria43.
Non si trattava quindi, a rigore, di una strategia incentrata sul rischio, quanto semmai sull’obiettivo di stabilire il vero livello della minaccia posta dalla Russia. Per dirla altrimenti, se i russi sceglievano di mobilitare contro la Germania e in tal modo di innescare una guerra continentale, in ciò non si sarebbe concretizzato il rischio generato dall’operato tedesco, bensì la forza della determinazione della Russia di modificare gli equilibri europei mediante la guerra. In questa prospettiva, effettivamente piuttosto limitata, i tedeschi non stavano assumendo rischi, ma verificando le minacce esistenti. Era questa la logica che negli ultimi mesi prima dello scoppio della guerra sostenne i frequenti riferimenti di Bethmann Hollweg alla minaccia rappresentata dalla Russia.
Per comprendere questa preoccupazione, dobbiamo brevemente ricordare quanto rilievo avesse la questione nella dimensione pubblica in cui operavano i responsabili politici e i direttori dei giornali nella primavera e nell’estate del 1914. Il 2 gennaio di quell’anno il quotidiano parigino «Le Matin» cominciò a pubblicare una sensazionale serie di cinque lunghi articoli sotto il titolo La plus grande Russie. Scritti dal redattore capo del giornale Stéphane Lauzanne, che era appena tornato da un viaggio a Mosca e a San Pietroburgo, quegli articoli suscitarono impressione a Berlino non solo per il loro tono beffardo e bellicoso, ma anche per l’apparente accuratezza e rilevanza delle informazioni che contenevano. L’elemento più allarmante era una cartina con la didascalia Le disposizioni della Russia per la guerra, che illustrava l’intero territorio fra il Baltico e il Mar Nero come un arcipelago fittamente coperto da concentramenti di truppe collegate fra loro da un reticolo di ferrovie. Il commento all’immagine precisava che si trattava delle «esatte disposizioni dei corpi d’armata russi al 31 dicembre 1913», e invitava i lettori a notare «la straordinaria concentrazione di forze sulla frontiera russo-prussiana». Questi articoli esprimevano una valutazione piuttosto fantasiosa ed esagerata della forza militare russa, ed erano forse motivati dall’intento di indebolire l’opposizione al nuovo prestito a favore della Russia, ma per i lettori tedeschi che erano al corrente degli ingenti prestiti recentemente concordati tra la Francia e la Russia, rappresentarono una lettura inquietante. Il loro effetto venne amplificato dal sospetto che le informazioni che contenevano provenissero da una fonte governativa; «Le Matin» era infatti notoriamente vicino a Poincaré, e si sapeva che Lauzanne, durante il suo viaggio in Russia, si era incontrato con Sazonov e con i più importanti comandanti militari russi44. La stampa ispirata dal governo ospitò anche molte altre iniziative che come questa erano in grado di suscitare un vivo allarmismo: più o meno nello stesso periodo, un editoriale della rivista militare «Razvedčik», considerata da molti un organo dello stato maggiore imperiale, tracciò un quadro raccapricciante della prossima guerra con la Germania:
Non solo le truppe, ma l’intero popolo russo deve abituarsi al fatto che ci stiamo armando per la guerra di sterminio contro i tedeschi, e che gli imperi [sic] tedeschi devono essere distrutti, anche se ciò dovesse costarci centinaia di migliaia di vite umane45.
Fonti semi-ufficiali continuarono a seminare il panico in modo analogo fino all’estate. Particolarmente inquietante fu un pezzo del 13 giugno nel quotidiano «Birževija Vedomosti» [Notizie della Borsa], dal titolo Noi siamo pronti. Anche la Francia deve essere pronta. L’articolo venne ampiamente ristampato nei giornali francesi e tedeschi. Quel che soprattutto allarmò i politici di Berlino fu l’indicazione (esatta), fornita dall’ambasciatore a San Pietroburgo Pourtalès, che esso era ispirato nientemeno che dal ministro della Guerra Vladimir Suchomlinov. L’articolo tracciava un impressionante quadro dell’immensa macchina da guerra destinata ad abbattersi sulla Germania in caso di guerra – l’esercito russo, annunciava in modo altisonante, avrebbe ben presto contato 2.320.000 uomini (la Germania e l’Austria insieme ne avrebbero avuti solo 1.800.000). Grazie ad una linea ferroviaria strategica che si stava rapidamente estendendo, inoltre, i tempi di mobilitazione si stavano drasticamente riducendo46.
Con ogni probabilità, lo scopo principale di Suchomlinov non era terrorizzare i tedeschi, quanto semmai convincere il governo francese delle dimensioni dell’impegno militare russo a favore dell’Alleanza, ricordando ai suoi omologhi francesi la necessità che il loro paese desse un contributo corrispondente. Comunque, ebbe il prevedibile effetto di provocare sconcerto nei lettori tedeschi. Fra questi vi era anche il Kaiser, che punteggiò la traduzione che gli venne consegnata con le sue solite spontanee esclamazioni, come ad esempio la seguente: «Ah! Alla fine i russi hanno scoperto le carte! Tutti quelli che in Germania non credono ancora che il russo-gallo stia lavorando per una guerra imminente con noi [...] andrebbero mandati al manicomio di Dalldorf!»47. Un altro che lesse l’articolo fu il cancelliere Bethmann Hollweg, il quale in una lettera del 16 giugno all’ambasciatore Lichnowsky a Londra osservò che la brama di guerra del «partito militarista» russo non era mai stata «rivelata in modo così spietato». Fino a quel momento, proseguì, solo gli «estremisti», i pangermanisti e i militaristi avevano sospettato che la Russia stesse preparando una guerra di aggressione contro la Germania. Ma ora, «perfino i politici più tranquilli», fra i quali presumibilmente il cancelliere annoverava se stesso, stavano «cominciando a propendere per questa idea»48. Fra questi politici c’era il segretario agli Esteri Gottlieb von Jagow, il quale si convinse che, sebbene la Russia non fosse ancora pronta per la guerra, presto avrebbe «sopraffatto» la Germania con i suoi vasti eserciti, con la flotta del Baltico e la rete ferroviaria strategica49. I rapporti dello stato maggiore del 27 novembre 1913 e del 7 luglio 1914 fornivano un’analisi aggiornata del programma russo per la costruzione di ferrovie strategiche, corredata da una carta geografica nella quale le nuove arterie – la maggior parte delle quali erano provviste di numerosi binari paralleli e si inoltravano nelle zone interne della Russia, convergendo verso le frontiere austriaca e tedesca – erano evidenziate con colori vivaci50.
Questa apprensione venne rafforzata dai colloqui navali anglo-russi del giugno 1914, che indicavano come la strategia delle potenze dell’Intesa fosse entrata in una nuova e pericolosa fase. Nel maggio precedente, in risposta alle sollecitazioni del ministero degli Esteri francese, il governo di Londra aveva approvato lo svolgimento di colloqui fra lo stato maggiore della marina britannica e quello della marina russa. Nonostante la rigorosa segretezza nella quale i colloqui si tennero, i tedeschi furono ben informati delle discussioni anglo-russe da un agente che operava all’interno dell’ambasciata russa a Londra, il secondo segretario Benno von Siebert, un tedesco del Baltico in servizio sotto i russi. Tramite questo informatore, Berlino apprese, fra l’altro, che Londra e San Pietroburgo avevano discusso la possibilità che in caso di guerra la flotta britannica appoggiasse lo sbarco di un corpo di spedizione russo in Pomerania. A Berlino l’informazione suscitò allarme. Nel 1913-1914, le spese della Russia per la marina superarono per la prima volta quelle della Germania. Si diffuse una certa preoccupazione per una più aggressiva politica estera da parte della Russia e per il costante rafforzamento dei vincoli dell’Intesa, che in breve tempo avrebbero privato la politica tedesca di qualsiasi libertà di movimento. La discrepanza fra le risposte evasive di Grey alle richieste di informazioni del conte Lichnowsky e i particolari riferiti da Siebert trasmetteva l’allarmante impressione che i britannici avessero qualcosa da nascondere, generando una crisi di fiducia fra Berlino e Londra; la questione era di una certa rilevanza per Bethmann Hollweg, la cui politica si era sempre basata sul presupposto che la Gran Bretagna, sebbene solo parzialmente integrata nell’Intesa, non avrebbe mai appoggiato una guerra di aggressione contro la Germania da parte degli Stati dell’Intesa51.
I diari del diplomatico e filosofo Kurt Riezler, principale consigliere e confidente di Bethmann Hollweg, restituiscono il senso di quale fosse la posizione del cancelliere nel momento in cui venne presa la decisione di appoggiare Vienna. Dopo l’incontro del 6 luglio con Szögyényi e Hoyos, Riezler e il cancelliere rientrarono nella proprietà di quest’ultimo a Hohenfinow. Riezler descrisse così la conversazione che ebbero quella sera:
Sulla veranda, sotto il cielo notturno, lunga conversazione sulla situazione. Le informazioni segrete [giunte dall’informatore tedesco a Londra] che mi comunica prospettano un quadro sconvolgente. Ritiene che i negoziati anglo-russi su una convenzione navale, uno sbarco in Pomerania, siano una cosa molto seria, l’ultimo anello della catena. [...] La forza militare russa aumenta rapidamente; il rafforzamento strategico del saliente polacco renderà la situazione insostenibile. L’Austria sempre più debole e meno mobile [...].
A queste preoccupazioni relative alla Russia si intrecciavano dubbi sull’affidabilità e la tenuta dell’alleanza con l’Austria:
Il cancelliere parla di gravi decisioni. L’assassinio di Francesco Ferdinando. La Serbia ufficiale coinvolta. L’Austria vuole riprendersi. Lettera di Francesco Giuseppe con richieste di chiarimenti sulla preparazione dell’alleanza ad agire. È il nostro vecchio dilemma su qualsiasi azione austriaca nei Balcani. Se li incoraggiamo, diranno che ce li abbiamo spinti noi. Se li consigliamo altrimenti, diranno che li lasciamo nelle peste. Allora si avvicineranno alle potenze occidentali, che hanno le braccia aperte, e perdiamo il nostro ultimo possibile alleato52.
Il giorno dopo, nel corso di una conversazione con Riezler, Bethmann Hollweg rilevò che l’Austria non avrebbe potuto «entrare in una guerra come nostro alleato per una causa tedesca»53. Al contrario, una guerra «da est», nata da un conflitto balcanico e mossa in prima istanza da interessi austro-ungarici, avrebbe garantito un pieno coinvolgimento di Vienna: «Se la guerra viene da est, in modo che siamo noi a entrare in campo per l’Austria-Ungheria, e non l’Austria-Ungheria per noi, abbiamo qualche possibilità di successo»54. Queste considerazioni erano l’esatto corrispettivo di uno dei fondamentali argomenti dei politici francesi, e cioè che una guerra scaturita nei Balcani avrebbe potuto impegnare la Russia a dare un pieno contributo a un’impresa congiunta contro la Germania. Né i francesi né i tedeschi si fidavano pienamente del fatto che i loro rispettivi alleati si impegnassero completamente in uno scontro nel quale gli interessi in gioco riguardassero principalmente il loro paese.
Una qualche decisione era stata presa: gli austriaci, o almeno il gruppo intorno a Berchtold, intendevano arrivare ad una soluzione militare del conflitto con la Serbia. Ma su tutte le altre questioni i compositi indirizzi politici viennesi non avevano ancora prodotto posizioni coerenti. Nel momento in cui Hoyos partì per Berlino, ad esempio, non c’era ancora accordo su quale sarebbe stata la linea da seguire nei confronti della Serbia dopo una vittoria austriaca. Quando Zimmermann chiese chiarimenti sugli obiettivi postbellici dell’Austria, Hoyos improvvisò una bizzarra risposta: la Serbia, dichiarò, sarebbe stata spartita fra l’Austria, la Bulgaria e la Romania. Hoyos non aveva l’autorità di proporre una simile prospettiva a Zimmermann, né esisteva fra i suoi colleghi austriaci un accordo in merito a una politica di spartizione. In seguito, affermò di essersi inventato quella storia sulla politica spartitoria perché temeva che i tedeschi non si sarebbero più fidati degli austriaci se avessero pensato che «noi non fossimo in grado di formulare con precisione la nostra politica verso la Serbia e avessimo obiettivi poco chiari»; era irrilevante quali fossero gli scopi indicati, quel che importava era trasmettere all’alleato un’impressione di determinazione e di fermezza55. Quando seppe delle indiscrezioni di Hoyos, Tisza s’infuriò; gli ungheresi, ancor più dell’élite politica viennese, guardavano con vero terrore alla prospettiva di avere negli slavi meridionali dei sudditi asburgici ancora più esasperati. In seguito Vienna chiarì che non era prevista alcuna annessione del territorio serbo. Ma la straordinaria gaffe di Hoyos è rivelatrice del modo disarticolato con cui la politica austriaca si evolveva durante la crisi.
Un altro problema riguardava la tempistica. I tedeschi avevano insistito perché, nell’eventualità di un’azione contro la Serbia, essa venisse condotta presto, quando lo sdegno popolare per i delitti era ancora fresco. Ma la rapidità non era un tratto dominante della cultura politica austriaca. Fu presto chiaro che ci sarebbe voluto tempo prima che potesse prendere avvio una qualsiasi azione militare. Le ragioni principali di questa lentezza erano due. La prima era politica. Nel corso di una riunione del Consiglio dei ministri congiunto, tenutasi a Vienna il 7 luglio, il giorno seguente al ritorno di Hoyos da Berlino, apparve chiaro che fra i responsabili c’era ancora disaccordo su come procedere. Berchtold aprì i lavori ricordando ai suoi colleghi che la situazione in Bosnia e in Erzegovina si sarebbe stabilizzata solo se fosse stata affrontata la minaccia esterna posta da Belgrado. In mancanza di un’iniziativa in tal senso, la possibilità che la monarchia affrontasse i movimenti irredentisti appoggiati dalla Russia nelle aree slave meridionali e romene dei territori asburgici si sarebbe sempre più complicata. Era un argomento presentato pensando al primo ministro ungherese conte Tisza, per il quale la stabilità della Transilvania rappresentava una preoccupazione essenziale. Tisza non ne fu convinto. Nella sua replica a Berchtold, ammise che l’atteggiamento della stampa serba e i risultati delle indagini della polizia di Sarajevo rafforzavano i motivi di un intervento militare. Ma prima di ciò, occorreva verificare la percorribilità di opzioni diplomatiche. Si sarebbe dovuto mettere Belgrado di fronte a un ultimatum, con condizioni «nette, ma non inattuabili», e approntare forze sufficienti per proteggere la Transilvania da un attacco opportunistico della Romania; quindi Vienna doveva consolidare la sua posizione nel contesto delle potenze balcaniche, cercando di stringere rapporti più stretti con la Bulgaria e con l’Impero ottomano, nella speranza di creare un contrappeso balcanico alla Serbia e di «costringere la Romania a rientrare nella Triplice Alleanza»56.
In questo non vi era niente che potesse sorprendere nessuno dei presenti – era la consueta impostazione di Budapest, al cui centro c’era la Transilvania. Ma Tisza si trovò davanti un solido blocco di colleghi decisi a presentare alla Serbia richieste presumibilmente irricevibili da parte di Belgrado. Un successo esclusivamente diplomatico, avvertì il ministro della Guerra Krobatin, non avrebbe avuto alcun valore, poiché a Belgrado, a Bucarest, a San Pietroburgo e nelle aree slave meridionali della monarchia sarebbe stato letto come un segno della debolezza e dell’irresolutezza di Vienna. Il tempo dell’Austria-Ungheria si stava esaurendo – ogni anno che passava, la posizione della monarchia nella penisola balcanica si faceva sempre più fragile. Le conclusioni riportate dal verbalizzante, che altri non era che il conte Hoyos, riflettevano una curiosa e non del tutto coerente miscela delle posizioni più rilevanti. Ognuno era d’accordo, in primo luogo, sull’esigenza di una rapida soluzione della disputa con la Serbia, «con mezzi militari o pacifici». In secondo luogo, i ministri concordavano di accettare il suggerimento del conte Tisza, secondo cui la mobilitazione contro la Serbia avrebbe dovuto scattare solo dopo la presentazione di un ultimatum a Belgrado. Infine, si rilevava che tutti i presenti, con l’eccezione del primo ministro ungherese, erano dell’opinione che un successo puramente diplomatico, anche qualora comportasse una «clamorosa umiliazione» della Serbia, sarebbe stato inutile, e che quindi l’ultimatum dovesse essere formulato in termini sufficientemente duri da garantire un rifiuto, «in modo che sia aperta una strada per una soluzione radicale mediante un intervento militare»57.
Dopo pranzo, Conrad e Karl Kailer, in rappresentanza del capo di stato maggiore della marina, si aggiunsero alla riunione, e i ministri riesaminarono i piani militari. Su richiesta del ministro della Guerra Krobatin, Conrad spiegò che mentre il piano di guerra contro la Serbia (denominato «piano B» per «Balcani») avrebbe comportato lo schieramento di truppe ingenti alla periferia meridionale, un intervento nel conflitto da parte della Russia avrebbe obbligato gli austriaci a spostare il baricentro delle operazioni da sud a nord-est. Per valutare se e quando questo spostamento fosse stato necessario sarebbe occorso un po’ di tempo, ma Conrad sperava che entro il quinto giorno di mobilitazione avrebbe saputo se doveva tener conto o meno della Russia. Questo ritardo avrebbe potuto comportare la necessità di cedere una parte della Galizia settentrionale, in primo luogo ai russi. Rimaneva ancora da chiarire come esattamente sarebbe stato effettuato il passaggio, così complesso dal punto di vista logistico, da un piano di guerra a un altro, ma i ministri non ne chiesero conto58.
La discussione del Consiglio dei ministri segnò una svolta. Dopo la riunione, la possibilità di una soluzione pacifica si assottigliò notevolmente59. Tuttavia non c’erano segnali che facessero pensare ad un’azione in tempi rapidi. L’opzione di un immediato attacco a sorpresa senza una dichiarazione di guerra venne respinta. Tisza, il cui consenso era costituzionalmente necessario per una decisione di tale importanza, continuò a sostenere che la Serbia avrebbe prima dovuto essere umiliata diplomaticamente. Solo dopo una settimana cedette all’opinione della maggioranza, principalmente perché si convinse che non affrontare la questione serba avrebbe avuto un effetto destabilizzante sulla Transilvania ungherese. Ma esisteva un ostacolo più difficile da aggirare per passare velocemente all’azione: nelle aree rurali dei territori asburgici, le chiamate alle armi in periodo estivo producevano gravi conseguenze, perché tenevano gli uomini giovani lontano da casa e dai campi in un momento in cui si doveva procedere al raccolto della maggior parte delle colture. Per attenuare il problema, lo stato maggiore austriaco aveva concepito un apposito sistema di congedi che consentiva agli uomini in servizio attivo di tornare presso l’azienda di famiglia per partecipare al raccolto e poi ricongiungersi ai reparti militari in tempo utile per le manovre estive. Il 6 luglio, il giorno prima della riunione, Conrad aveva verificato che i soldati che prestavano servizio presso le unità di stanza ad Agram (Zagabria), Graz, Pressburg (Bratislava), Cracovia, Temesvár (Timişoara), Innsbruck e Budapest erano in quel momento in permesso per partecipare ai raccolti e non sarebbero rientrati in servizio fino al 25 luglio.
Conrad aveva quindi poca scelta: poteva emanare un ordine per impedire la concessione di nuovi congedi (cosa che fece), ma non poteva richiamare le molte migliaia di uomini che erano già in congedo estivo senza danneggiare gravemente le attività dei raccolti, provocando la disaffezione dei contadini in molte aree popolate da minoranze nazionali, sovraccaricando il sistema ferroviario e suscitando in Europa il sospetto che l’Austria stesse organizzando un imminente attacco armato. È a dir poco strano che Conrad, il quale aveva ideato le misure per la concessione dei congedi, non avesse previsto questi problemi quando, la sera del giorno successivo agli eventi di Sarajevo, propose a Berchtold che l’Austria organizzasse un attacco immediato contro la Serbia, come avevano fatto i giapponesi quando nel 1904 avevano colpito la flotta russa a Port Arthur senza una dichiarazione di guerra60.
Nel frattempo, a Vienna si raggiunse una certa unanimità sulla linea da seguire. Il 14 luglio, in un’ulteriore riunione tenutasi nella capitale, si convenne che domenica 19 luglio il Consiglio dei ministri avrebbe analizzato e approvato una bozza dell’ultimatum, che sarebbe però stato presentato al governo di Belgrado solo giovedì 23 luglio. Ciò per evitare la coincidenza con la visita di Stato che il presidente francese Poincaré e il suo nuovo primo ministro, René Viviani, dovevano compiere a San Pietroburgo, prevista per i giorni dal 20 al 23 luglio. Berchtold e Tisza concordarono sul fatto che «l’invio di un ultimatum mentre era in corso questo incontro a San Pietroburgo sarebbe stato considerato un affronto, e che la discussione personale fra l’ambizioso presidente della Repubblica e Sua Maestà l’imperatore di Russia [...] avrebbe aumentato la probabilità di un intervento militare da parte della Russia e della Francia»61.
Da questo momento in poi, era di estrema importanza mantenere il segreto, per motivi sia strategici sia diplomatici. Era essenziale, comunicò Conrad a Berchtold il 10 luglio, evitare qualsiasi azione che potesse far conoscere in anticipo ai serbi le intenzioni austriache, dando così loro la possibilità di battere sul tempo l’esercito asburgico62. Le recenti valutazioni che gli austriaci avevano compiuto della forza militare serba indicavano che l’esercito da affrontare non sarebbe stato un avversario irrilevante (quanto ciò fosse giusto sarebbe apparso chiaro nell’inverno del 1914, quando i serbi riuscirono a respingere gli austriaci fuori dai confini del regno). La segretezza era essenziale anche perché per Vienna rappresentava l’unica speranza di trasmettere le sue richieste a Belgrado prima che le potenze dell’Intesa avessero l’opportunità di decidere congiuntamente come reagire – da qui l’importanza di evitare i giorni nei quali Poincaré e Viviani sarebbero stati a San Pietroburgo. Berchtold ordinò quindi di dare rigorose istruzioni alla stampa affinché evitasse l’argomento della Serbia. Questo intervento fu a quanto pare efficace: nelle settimane centrali della crisi i riferimenti alla Serbia nei quotidiani diminuirono notevolmente – determinando una situazione che produsse un ingannevole senso di calma, proprio nel momento in cui la crisi stava in realtà entrando nella sua fase più pericolosa. Nei suoi rapporti ufficiali con la Russia, Vienna si sforzò di evitare la pur minima frizione; Szapáry, l’ambasciatore austriaco a San Pietroburgo, fu particolarmente assiduo nei suoi sforzi per tranquillizzare il ministro degli Esteri russo con assicurazioni secondo cui tutto sarebbe andato bene63.
Purtroppo, questa politica coperta venne compromessa da una fuga di notizie che, piuttosto stranamente, ebbe origine a Berlino. L’11 luglio, il segretario di Stato tedesco Gottfried von Jagow informò l’ambasciatore tedesco a Roma Flotow delle intenzioni dell’Austria. Questi passò l’informazione al ministro degli Esteri italiano, San Giuliano, e il ministero degli Esteri di Roma trasmise prontamente la notizia con un telegramma cifrato alle legazioni italiane di San Pietroburgo, Bucarest e Vienna. Gli austriaci, che avevano decifrato il codice segreto italiano e tenevano sotto stretto controllo il traffico diplomatico fra Vienna e Roma, seppero quasi immediatamente che gli italiani erano stati messi al corrente dei piani austriaci da una fonte tedesca e li avevano trasmessi a due capitali non amiche, con l’intento di incoraggiare i russi e i romeni ad impedire l’iniziativa austriaca facendo adottare un «atteggiamento minaccioso» ai loro rappresentanti a Vienna e a Berlino64. Gli austriaci avevano anche buone ragioni per supporre che i russi, la cui capacità di decifrare i codici non aveva eguali in Europa, avessero essi stessi intercettato i telegrammi italiani e scoperto dell’imminente ultimatum. In realtà i russi non ebbero nemmeno bisogno di intercettare le comunicazioni italiane, poiché avevano a loro volta saputo del progettato ultimatum da fonti tedesche e austriache. Il 16 luglio, parlando con il diplomatico tedesco in pensione, l’ambasciatore russo a Vienna venne a sapere che gli austriaci stavano approntando una nota «in termini assai duri» contenente «richieste inaccettabili da parte di qualsiasi Stato indipendente». Lützow, per quanto la cosa possa sembrare stupefacente, aveva a sua volta saputo la notizia nel corso di una lunga e franca conversazione avuta a Vienna con Berchtold e Forgách. Il rapporto di Šebeko su questa sensazionale scoperta arrivò direttamente, attraverso il ministero degli Esteri russo, allo zar Nicola II, il quale vi appose un commento che vale la pena rilevare: «A mio parere, nessun paese può presentare [simili] richieste a un altro, a meno che non abbia deciso di fare la guerra». Non si poteva esprimere in modo più chiaro la contrarietà della Russia al diritto dell’Austria di pretendere una qualche soddisfazione da Belgrado65.
Queste violazioni del segreto austriaco ebbero due importanti effetti. Il primo fu semplicemente che intorno al 20 luglio i russi e le grandi potenze loro alleate erano ormai pressoché pienamente al corrente di quello che gli austriaci avevano in cantiere. Le stesse autorità serbe vennero informate, come sappiamo da un rapporto del 17 luglio di Crackanthorpe, rappresentante britannico a Belgrado66. Sia a San Pietroburgo che a Belgrado, questa conoscenza anticipata rese più facile formulare e coordinare – prima della presentazione dell’ultimatum a Belgrado – una decisa posizione di rifiuto, che trovò un’eloquente espressione nella circolare di Pašić alle legazioni serbe all’estero: «Non possiamo accettare richieste che nessun altro paese che rispetti la propria indipendenza e dignità accetterebbe»67. Ciò significava, fra l’altro, che c’era stato ampio spazio per maturare una posizione su un possibile ultimatum, prima che il capo dello Stato francese e il suo primo ministro arrivassero, il 20 luglio, nella capitale russa. L’idea, messa in giro da Sazonov e in seguito ripresa ampiamente dalla storiografia, secondo cui la notizia dell’ultimatum arrivò come un terribile choc ai russi e ai francesi il 23 luglio, quando la nota venne presentata al ministro degli Esteri serbo, è priva di fondamento.
Il secondo effetto riguarda il comportamento di Vienna con l’alleato tedesco. Berchtold dette la colpa ai tedeschi di aver compromesso la sua strategia coperta e reagì alle fughe di notizie chiudendo le comunicazioni con Berlino: di conseguenza sull’esatto contenuto dell’imminente ultimatum austriaco i tedeschi non erano informati meglio di quanto lo fossero gli avversari dell’Intesa. Uno degli aspetti che più stupiscono nel modo con cui l’Austria gestì la crisi consiste nel fatto che solo la sera del 22 luglio una copia dell’ultimatum venne inoltrata alle autorità di Berlino68. Tuttavia le professioni d’ignoranza dei tedeschi suonarono ovviamente false ai diplomatici dell’Intesa, che le considerarono una prova che la Germania stesse da tempo pianificando in segreto un’iniziativa comune con gli austriaci, alla quale occorreva contrapporre una risposta decisa e coordinata – convinzione questa che non fu certo di buon auspicio per la pace nel momento in cui la crisi entrò nella sua fase terminale.
Vale la pena soffermarsi ancora un momento sulle stranezze del processo con cui l’Austria-Ungheria arrivò a compiere le sue scelte. Berchtold, disprezzato da molti dei falchi presenti nell’amministrazione come uomo facilmente condizionabile e incapace di prendere decisioni nette, dopo il 28 giugno assunse il controllo del dibattito politico con grande energia. Ma poté riuscirvi solo grazie a un arduo e assai lungo processo di costruzione del consenso. Le sconcertanti dissonanze esistenti nei documenti che testimoniano l’emergere della decisione austriaca di puntare sulla guerra riflettono l’esigenza di recepire – senza necessariamente conciliarli – punti di vista opposti.
Forse il più sorprendente difetto del processo decisionale austriaco è la ristrettezza delle prospettive che furono adottate a livello sia individuale sia collettivo. Gli austriaci somigliavano a porcospini che attraversano precipitosamente un’autostrada distogliendo lo sguardo dalle auto che sfrecciano69. L’enorme rilevanza di una possibile mobilitazione generale della Russia e della guerra europea che inevitabilmente ne sarebbe conseguita fu certamente intravista dai responsabili della politica austriaca, che ne discussero in varie occasioni, ma questo elemento non entrò mai a far parte integrante del processo con cui le opzioni venivano soppesate e valutate. E neppure si prestò una costante attenzione al problema di determinare se l’Austria-Ungheria fosse o meno in condizione di entrare in guerra contro una o più grandi potenze europee70. Le ragioni di ciò possono essere diverse. Una è l’eccezionale fiducia che l’amministrazione austro-ungarica nutriva nella forza delle armi tedesche che, si credeva, sarebbe stata sufficiente a dissuadere la Russia e, in caso contrario, a sconfiggerla71. La seconda è che la struttura ad alveare dell’élite politica austriaca non era affatto funzionale ad assumere decisioni sulla base di un’attenta opera di vaglio e di ponderazione di informazioni contraddittorie. Coloro che partecipavano al dibattito tendevano ad assumere prese di posizione nette, spesso acuite da recriminazioni reciproche, piuttosto che a sforzarsi di guardare nel complesso ai problemi che Vienna doveva fronteggiare. Il solipsismo del processo decisionale austriaco rifletteva anche un profondo senso di isolamento a livello geopolitico. L’idea che gli statisti austro-ungarici avessero una «responsabilità nei confronti dell’Europa» era priva di senso, rilevò un addetto ai lavori, «perché l’Europa non c’è. L’opinione pubblica in Russia e in Francia [...] sosterrà sempre che siamo noi i colpevoli, anche qualora migliaia di serbi, in una situazione di pace, una notte ci invadessero armati di bombe»72. Ma la ragione più importante della sconcertante ristrettezza del dibattito politico austriaco è senza dubbio che gli austriaci erano talmente convinti della giustezza della loro causa e del rimedio che proponevano nei confronti della Serbia che non potevano neppure concepire un’alternativa ad esso – lo stesso Tisza, dopo tutto, il 7 luglio aveva accettato la tesi che Belgrado fosse implicata nei delitti di Sarajevo, ed era disponibile in linea di principio ad acconsentire a una risposta militare, a condizione che i tempi e il contesto diplomatico fossero adeguati. Una mancata azione avrebbe semplicemente confermato la diffusa convinzione che l’Impero fosse ormai alla fine. Diversamente, l’effetto morale di un audace intervento avrebbe potuto indurre una trasformazione: «L’Austria-Ungheria [...] crederebbe nuovamente in se stessa. Sarebbe come dire: ‘Voglio, dunque sono’»73.
In breve, gli austriaci erano in procinto di prendere quella che i teorici dei processi decisionali definiscono una opting decision, nella quale la posta in gioco è incredibilmente alta, l’impatto conseguente alla scelta irrevocabile e causa di importanti trasformazioni, i livelli emotivi sono elevati e le conseguenze di una mancata azione potenzialmente durature. Decisioni di questo genere possono acquisire una dimensione esistenziale, in quanto promettono di reinventare l’entità che le adotta, di trasformarla in qualcosa di diverso da ciò che era prima. Nel nucleo centrale di queste decisioni c’è qualcosa di radicato nell’identità di chi le assume e che non si presta facilmente ad una razionalizzazione74. Con ciò non si vuole sostenere che il processo decisionale austriaco fosse «irrazionale»: la crisi in corso venne valutata alla luce degli sviluppi trascorsi, e la discussione tenne conto di fattori e rischi di varia natura. Non è neppure facile capire come gli austriaci avrebbero potuto far funzionare una soluzione meno drastica, data la riluttanza delle autorità serbe a soddisfare le aspettative austriache, l’assenza di qualsiasi organismo giuridico internazionale in grado di svolgere una funzione arbitrale in casi del genere e l’impossibilità nel clima internazionale esistente di fare in modo che in futuro Belgrado rispettasse gli accordi. Tuttavia, alla base della reazione austriaca – in una misura che non si applica a nessuno degli altri protagonisti del 1914 – vi fu un impulso viscerale, di natura intuitiva, una «decisione allo stato puro»75 fondata su un comune modo di percepire quello che l’Impero austro-ungarico era e cosa avrebbe dovuto essere se fosse rimasto una grande potenza.
Fu durante la fase di tranquillizzazione della politica austriaca che morì improvvisamente il rappresentante diplomatico russo a Belgrado. Hartwig soffriva da qualche tempo di angina pectoris, era obeso, e sempre più soggetto a forti mal di testa, conseguenti non solo allo stress, ma probabilmente anche all’ipertensione. Ogni estate aveva l’abitudine di andare a curarsi a Bad Nauheim, da dove tornava rinfrancato nello spirito e dimagrito. Quando il suo subordinato Vasilij Strandmann, una volta appresa la notizia di Sarajevo, interruppe le proprie vacanze a Venezia e fece ritorno a Belgrado, lo trovò in cattive condizioni di salute, desideroso di andare a curarsi. Hartwig informò Strandmann che, «poiché non ci si attendono eventi importanti fino all’autunno», aveva fatto domanda per andare in vacanza il 13 luglio.
Tre giorni prima di partire, il 10, Hartwig apprese che il rappresentante diplomatico austriaco barone Giesl aveva appena fatto ritorno a Belgrado, e telefonò quindi alla legazione austriaca per fissare un incontro con l’intento di chiarire varie incomprensioni che c’erano state. A Belgrado molti avevano notato che il 3 luglio, il giorno del funerale dell’arciduca, la legazione russa era stata l’unica nella capitale serba a non esporre la bandiera a mezz’asta. I capi della missione italiana e di quella britannica si erano entrambi accorti dell’omissione76. Si diceva inoltre che la sera successiva all’attentato Hartwig avesse tenuto un ricevimento nella sua legazione, da dove si erano sentite provenire acclamazioni e risate. Il diplomatico russo era probabilmente teso anche perché temeva che altre indiscrezioni fossero giunte agli orecchi del suo collega austriaco77. In realtà, l’incontro si svolse in termini amichevoli. Giesl accettò cordialmente le spiegazioni e le scuse di Hartwig, e i due si accomodarono nell’ufficio di Giesl per un lungo colloquio.
Dopo essersi dilungato sulla sua cattiva salute e sui suoi progetti per le vacanze, Hartwig passò ad affrontare il motivo principale della visita, che era quello di dichiarare l’innocenza della Serbia nella vicenda di Sarajevo e di rassicurare l’interlocutore sulle sue intenzioni future. Ma non aveva ancora finito di pronunciare la prima frase che, alle nove e venti di sera, perse conoscenza e scivolò lentamente dal divano sul tappeto, con la sigaretta ancora fra le dita. La vettura di Hartwig venne mandata in tutta fretta a prendere sua figlia Ludmilla, e comparve un medico serbo, seguito da quello personale di Hartwig, ma nonostante l’applicazione di acqua, acqua di colonia, etere e ghiaccio, non si riuscì a fargli riprendere conoscenza. Le espressioni di condoglianze della baronessa Giesl per la figlia di Hartwig vennero da questa respinte dicendo che le «parole austriache» non le interessavano. Ludmilla von Hartwig, che aveva passato la serata con il principe reale Alessandro di Serbia, tentò di ispezionare la stanza nella quale suo padre era morto, frugando in alcuni grandi vasi giapponesi, annusando la boccetta di acqua di colonia che era stata usata per tentare di rianimarlo e chiedendo bruscamente se a suo padre fosse stato dato qualcosa da mangiare o da bere. Giesl rispose che aveva solo fumato qualche sigaretta russa che si era portato con sé. La figlia domandò dove fossero i mozziconi e se li mise in borsa. Né il cattivo stato di salute di Hartwig, del quale egli non faceva segreto, né le assicurazioni del diplomatico austriaco furono sufficienti ad impedire che nella capitale circolasse la tesi di un assassinio78.
Un quotidiano descrisse Giesl e sua moglie come dei «moderni Borgia» che avvelenavano gli ospiti indesiderati, e pochi giorni dopo lo stesso Giesl ebbe modo di sentire nella bottega del suo barbiere una conversazione fra due clienti:
L’Austria ci manda ambasciatori singolari. Prima abbiamo avuto un imbecille [Forgách], e adesso abbiamo un assassino. Giesl ha portato da Vienna una sedia elettrica che ha provocato la morte di Hartwig senza lasciar traccia79.
Per fortuna, nessuno dei due interlocutori riconobbe Giesl nella sedia accanto. Su richiesta della famiglia di Hartwig e del governo di Belgrado, Sazonov dette il permesso di seppellire Hartwig in Serbia, con una procedura del tutto inconsueta per un diplomatico russo deceduto in servizio in un paese straniero80. Le espressioni di pubblico cordoglio e la pomposità senza precedenti del funerale di Stato che fu celebrato a Belgrado furono un segno del ruolo straordinario che il diplomatico russo rivestiva agli occhi dell’opinione pubblica serba. Comunque si voglia valutare il suo contributo alla politica balcanica, sarebbe decisamente fuori luogo negare che Hartwig avesse già raggiunto i suoi obiettivi primari quando venne meno sul divano di Giesl. Come scrisse l’inviato francese Descos, il ministro russo morì proprio nel momento in cui la sua «indomabile volontà» aveva trionfato, «imponendo al serbismo la sua assoluta autorità, e all’Europa la questione serba nella forma violenta che gli conveniva»81.
1 Cit. in David Fromkin, Europe’s Last Summer. Who Started the Great War in 1914?, New York 2004, p. 138 (trad. it. L’ultima estate dell’Europa. Il grande enigma del 1914: perché è scoppiata la prima guerra mondiale?, Milano 2005, p. 160).
2 Rumbold a Grey, Berlino, 3 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 26, p. 18).
3 Friedrich Meinecke, Erlebtes, 1862-1919, Stuttgart 1964, p. 245.
4 Akers-Douglas a Grey, Bucarest, 30 giugno 1914 (BD, vol. XI, doc. 30, p. 23).
5 Poklewski-Koziell a Sazonov, 4 luglio 1914 (IBZI, serie 3, vol. IV, doc. 81, p. 87); Hristić a Pašić, Bucarest, 30 giugno 1914 (AS, MID-PO, 411, c. 689).
6 Crackanthorpe a Grey, Belgrado, 2 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 27, pp. 19-20).
7 Möllwald al ministero degli Esteri a Vienna, Cetinje, 29 giugno 1914 (HHS tA, PA I, Liasse Krieg 810, c. 22).
8 Nota del ministero della Guerra (firmata Krobatin), Vienna, 2 luglio 1914; Berchtold a Möllwald (ÖUAP, vol. VIII, docc. 9996 e 10040, pp. 270-271 e 275-276).
9 Spalajković a Pašić, San Pietroburgo, 9 luglio 1914 (AS, MID-PO, 412, c. 28).
10 Rodd a Grey, Roma, 7 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 36, p. 28); Mérey a Berchtold, Roma, 2 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 9988, p. 263); Mikhailović a Pašić, Roma, 1° luglio 1914 (AS, MID-PO, 411, cc. 762-765).
11 Lettera privata di Sverbeev a Sazonov, Roma, 30 giugno 1914 (IBZI, serie 3, vol. IV, doc. 29, p. 37); Mikhailović a Pašić, Roma, 1° luglio 1914 (AS, MID-PO, 411, cc. 762-765).
12 John Keiger, France and the Origins of the First World War, London 1983, pp. 139 e 145.
13 Szécsen a Berchtold, Parigi, 1° luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 9970, p. 237).
14 Bosković a Pašić, Londra, 18 luglio 1914 (AS, MID-PO, 411, c. 684).
15 Mensdorff al ministero degli Esteri a Vienna, Londra, 16 luglio 1914 (HHS tA, PA I, Liasse Krieg 812, c. 478).
16 Czernin al ministero degli Esteri a Vienna, Bucarest, 10 luglio 1914 (ivi, 810, c. 369).
17 Jovanović a Pašić, Berlino, 13 luglio 1914 (AS, MID-PO, 412, cc. 63-64); Spalajković a Pašić, San Pietroburgo, 12 luglio 1914 (ivi, cc. 105-106).
18 Šebeko a Sazonov, Vienna, 30 giugno 1914 e 1° luglio 1914 (due comunicazioni) (IBZI, serie 3, vol. VIII, docc. 32, 46 e 47, pp. 39, 53 e 54).
19 Hartwig a Sazonov, Belgrado, 30 giugno 1914 (ivi, vol. IV, doc. 35, p. 43); sull’importanza del processo Friedjung come pretesto per respingere senza indugi le argomentazioni dell’Austria contro la Serbia, cfr. Manfred Rauchensteiner, Der Tod des Doppeladlers. Österreich-Ungarn und der Erste Weltkrieg, Graz 1994, p. 77.
20 Bronewskj a Sazonov, Sofia, 8 luglio 1914 (IBZI, serie 3, vol. IV, doc. 136, p. 143).
21 Sverbeev (ambasciatore a Berlino) a Sazonov, 2 luglio 1914 (ivi, doc. 62, p. 68).
22 Benckendorff a Sazonov, Londra, 30 giugno 1914 (ivi, doc. 26, p. 32).
23 Bunsen (inviato britannico a Vienna) a Grey, 5 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 40, pp. 31-32).
24 Carlotti a San Giuliano, San Pietroburgo, 8 luglio 1914 (IBZI, serie 3, vol. IV, doc. 128, p. 128); la pubblicazione russa di questa comunicazione segnala che negli archivi del ministero degli Esteri russo non esistono documenti relativi alla conversazione, e il resoconto della stessa fornito da Czernin non fa menzione di questo punto. La ragione di ciò può essere che Czernin aveva acquisito informazioni privilegiate da un suo contatto a Vienna, ma voleva nascondere il fatto di aver divulgato le intenzioni degli austriaci a Sazonov. La notevole corrispondenza fra la rivelazione di Czernin e la linea ufficiale di Vienna in quel momento sembra indicare tuttavia che il commento fu effettivamente pronunciato e che lo scambio di opinioni sia autentico.
25 Szapáry a Berchtold, 18 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10365, p. 495).
26 Questo disse Šebeko a Berchtold il 30 luglio 1914 a Vienna, si veda N. Schebeko [Šebeko], Souvenirs. Essai historique sur les origines de la guerre de 1914, Paris 1936, p. 258.
27 Szécsen a Berchtold, 4 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10047, p. 299).
28 Grey a Buchanan, Londra, 8 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 39, p. 31).
29 Bunsen a Grey, 5 luglio 1914 (ivi, doc. 41, pp. 31-32).
30 Bernadotte Everly Schmitt, Interviewing the Authors of the War, Chicago 1930, p. 10. Mentre Schmitt accettò la smentita di Artamonov, Albertini si mostrò più scettico: cfr. Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914, 3 voll., Milano 1942-1943, vol. II, La crisi del luglio 1914. Dall’attentato di Sarajevo alla mobilitazione generale dell’Austria-Ungheria, pp. 83-87.
31 Commenti a margine di Guglielmo II al dispaccio di Tschirschky a Bethmann Hollweg, Vienna, 30 luglio 1914 (in Julikrise und Kriegsausbruch 1914. Eine Dokumenten sammlung, a cura di Imanuel Geiss, 2 voll., Hanover 1963-1964, vol. I, doc. 2, p. 59).
32 Rapporto di Berchtold su una conversazione con Tschirschky, 3 luglio 1913 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10006, p. 277); Hugo Hantsch, Leopold Graf Berchtold. Grandseigneur und Staatsmann, 2 voll., Graz 1963, vol. II, pp. 566-568.
33 Szögyényi a Berchtold, Berlino, 5 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10058, pp. 306-307).
34 Memoria di Hoyos, in Fritz Fellner, Die Mission «Hoyos», in Id., Vom Dreibund zum Völkerbund. Studien zur Geschichte der Internationalen Beziehungen 1882-1919, a cura di Heidrun Maschl, Brigitte Mazohl-Wallnig, Wien 1994, p. 137.
35 Holger Afflerbach, Falkenhayn: Politisches Denken und Handeln im Kaiserreich, München 1994, p. 151; Albertini, Le origini della guerra del 1914 cit., vol. II, p. 146; Annika Mombauer, Helmut von Moltke and the Origins of the First World War, Cambridge 2001, p. 190; Julikrise und Kriegsausbruch 1914 cit., vol. I, p. 79.
36 Szögyényi a Berchtold, Berlino, 6 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10076, p. 320).
37 July 1914. The Outbreak of the First World War. Selected Documents, a cura di Imanuel Geiss, New York 1974, p. 72; Albertini, Le origini della guerra del 1914 cit., vol. II, pp. 164-166.
38 Albertini, Le origini della guerra del 1914 cit., vol. II, p. 139; Hantsch, Leopold Graf Berchtold cit., vol. II, pp. 571-572.
39 Albertini, Le origini della guerra del 1914 cit., vol. II, pp. 142 e 146-147; Afflerbach, Falkenhayn cit., p. 151; Stevenson, Armaments and the Coming of War. Europe 1904-1915, Oxford 1996, pp. 372 e 375.
40 July 1914. The Outbreak of the First World War cit., p. 72; Stevenson, Armaments and the Coming of War cit., p. 372; Szögyényi a Berchtold, Berlino, 28 ottobre 1913 (ÖUAP, vol. VII, doc. 8934, pp. 513-515).
41 Sulle preoccupazioni britanniche riguardo all’affidabilità dei russi nella primavera e nell’estate del 1914, si veda Thomas Otte, The Foreign Office Mind. The Making of British Foreign Policy, 1865-1914, Cambridge 2001, pp. 376-378; sui timori francesi riguardo a Sergej Witte si veda Stefan Schmidt, Frankreichs Aussenpolitik, in der Julikrise 1914. Ein Beitrag zur Geschichte des Ausbruchs des Ersten Weltkrieges, München 2009, pp. 266-268.
42 Konrad H. Jarausch, The Illusion of Limited War: Chancellor Bethmann Hollweg’s Calculated Risk, July 1914, in «Central European History», II, 1969, 1, pp. 48-76; Gian Enrico Rusconi, Rischio 1914. Come si decide una guerra, Bologna 1987, pp. 95-115.
43 Jarausch, The Illusion of Limited War cit., p. 48.
44 Dieter Hoffmann, Der Sprung ins Dunkle: Oder wie der 1. Weltkrieg entfesselt wurde, Leipzig 2010, pp. 159-162; «Le Matin», 4 gennaio 1914; cfr. anche Ignat’ev a Danilov (quartiermastro generale russo), Parigi, 22 gennaio 1914 (IBZI, serie 3, vol. I, doc. 77, pp. 65-68, in particolare p. 66). Izvol’skij sospettava che l’articolo fosse ispirato da un funzionario di livello intermedio del Quai d’Orsay, si veda ivi, p. 66, n. 1.
45 Cit. in Hermann von Kuhl, Der deutsche Generalstab in Vorbereitung und Durchführung des Weltkrieges, Berlino 1920, p. 72.
46 Pourtalès a Bethmann, 13 giugno 1914 (DD, vol. I, doc. 1, p. 1).
47 Note a margine di Guglielmo II alla traduzione dello stesso articolo (ivi, doc. 2, p. 3).
48 Bethmann a Lichnowsky, Berlino, 16 giugno 1914 (GP, vol. XXXIX, doc. 15883, pp. 628-630, in particolare p. 628).
49 I.V. Bestužev, Russian Foreign Policy, February-June 1914, in «Journal of Contemporary History», I, 1966, 3, p. 96.
50 Memorandum dello stato maggiore, Berlino, 27 novembre 1913 e 7 luglio 1914 (PA-AA, R 11011).
51 Zara S. Steiner, Britain and the Origins of the First World War, London 1977, pp. 120-124; Wolfgang J. Mommsen, Domestic Factors in German Foreign Policy before 1914, in «Central European History», VI, 1973, pp. 3-43, in particolare pp. 36-39.
52 Kurt Riezler. Tagebücher, Aufsätze, Dokumente, a cura di Karl Dietrich Erdmann, Göttingen 1972, pp. 182-183 (annotazione del 7 luglio 1914). La pubblicazione dei diari di Riezler innescò un lungo e spesso acrimonioso dibattito, riguardante sia la responsabilità della Germania per lo scoppio della guerra (la polemica sulle tesi di Fischer continuava a covare sotto la cenere) sia l’autenticità dei diari (soprattutto delle parti relative al periodo prebellico). Bernd Sösemann, in particolare, accusò Erdmann di aver descritto in modo inesatto come un «diario», tale da fornire al lettore un punto di vista contemporaneo agli eventi, il manoscritto, che invece era composto da fogli sciolti con pesanti correzioni e in parte mutili, senza distinguere quelle che sembrano essere originali annotazioni di diario dalle interpolazioni di epoca successiva. Si veda Bernd Sösemann, Die Erforderlichkeit des Unmöglichen. Kritische Bemerkungen zu der Edition: Kurt Riezler, Tagebücher, Aufsätze, Dokumente, in «Blätter für deutsche Landesgeschichte», CX, 1974; Id., Die Tagebücher Kurt Riezlers. Untersuchungen zu ihrer Echtheit und Edition, in «Historische Zeitschrift», 1983, 236, pp. 327-369, e la dettagliata risposta di Erdmann: Karl Dietrich Erdmann, Zur Echtheit der Tagebücher Kurt Riezlers. Eine Antikritik, ivi, pp. 371-402. Sul valore duraturo dell’edizione e dell’apparato critico di Riezler, nonostante il particolare carattere della fonte, si veda l’introduzione di Holger Afflerbach alla ristampa dell’edizione di Erdmann (Göttingen 2008).
53 Kurt Riezler. Tagebücher, Aufsätze, Dokumente cit., p. 182 (annotazione del 7 luglio 1914).
54 Ivi, p. 184 (annotazione dell’8 luglio 1914); sull’importanza di questo argomento per la politica tedesca, si veda anche Jürgen Angelow, Der Weg in die Urkatastrophe. Der Zerfall des alten Europa 1900-1914, Berlin 2010, pp. 25-26.
55 Alexander von Hoyos, Meine Mission nach Berlin, in Fellner, Die «Mission Hoyos» cit., p. 137.
56 Protocollo del Consiglio dei ministri per gli affari comuni convocato il 7 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10118, pp. 343-351, in particolare pp. 343-345).
57 Ivi, p. 349.
58 Gunther E. Rothenberg, The Army of Francis Joseph, Lafayette 1976, pp. 177-179; Rauchensteiner, Tod des Doppeladlers cit., pp. 74-75; Roberto Segre, Vienna e Belgrado 1876-1914, Milano [1935], p. 61.
59 Samuel R. Williamson, Austria-Hungary and the Origins of the First World War, Houndmills 1991, p. 199.
60 Franz Conrad von Hötzendorf, Aus meiner Dienstzeit, 1906-1918, 5 voll., Wien 1921-1925, vol. IV, p. 33.
61 Rapporto di Berchtold all’imperatore, 14 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10272, pp. 447-448).
62 Conrad a Berchtold, Vienna, 10 luglio 1914 (ivi, doc. 10226, pp. 414-415).
63 Schebeko, Souvenirs cit., p. 214; Sidney Bradshaw Fay, The Origins of the First World War, 2 voll., New York 1928, vol. II, pp. 243-248.
64 L’ambasciatore austriaco conte Mérey informò Vienna delle indiscrezioni tedesche in un telegramma dal tono irritato del 18 luglio; nella sua risposta, Berchtold indicava che aveva appreso da «fonti segrete sicure» – riferimento in codice a informazioni derivanti da intercettazioni – delle istruzioni di Roma agli inviati a Bucarest e a San Pietroburgo: si veda Mérey a Berchtold, Roma, 18 luglio 1914, e Berchtold a Mérey, Vienna, 20 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, docc. 10364 e 10418, pp. 494 e 538). Sulle implicazioni della violazione del segreto, si veda Williamson, Austria-Hungary and the Origins cit., p. 201; Id., Confrontation with Serbia: The Consequences of Vienna’s Failure to Achieve Surprise in July 1914, in «Mitteilungen des Österreichischen Staatsarchivs», XLIII, 1993, pp. 168-177; Id., The Origins of the First World War, in «Journal of Interdisciplinary History», XVIII, 1988, pp. 795-818, in particolare pp. 811-812. Su tutto ciò si veda anche: San Giuliano a Berlino, San Pietroburgo, Vienna e Belgrado, 16 luglio 1914, in I documenti diplomatici italiani, [a cura del] ministero degli Affari esteri, serie IV, 1908-1914, 12 voll., Roma 1964, vol. XII, doc. 272; Richard J.B. Bosworth, Italy, the Least of the Great Powers: Italian Foreign Policy before the First World War, Cambridge 1979, pp. 380-386 (trad. it. La politica estera dell’Italia giolittiana, Roma 1985, pp. 422-429).
65 Si veda Schebeko, Souvenirs cit., p. 213.
66 Crackanthorpe a Grey, Belgrado, 17 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 53, p. 41).
67 Pašić alle legazioni serbe, Belgrado, 19 luglio 1914 (AS, MID-PO, 412, fo. 138).
68 Albertini, Le origini della guerra del 1914 cit., vol. II, pp. 266-269, a cui si rinvia per ulteriori particolari.
69 Robin Okey, The Habsburg Monarch, c. 1765-1918. From Enlightenment to Eclipse, London 2001, p. 377.
70 William Jannen, The Austro-Hungarian Decision for War in July 1914, in Essays on World War I: Origins and Prisoners of War, a cura di Samuel R. Williamson, Peter Pastor, New York 1983, in particolare pp. 58-60.
71 Sulla fiducia di Vienna riguardo all’effetto deterrente della forza militare tedesca, si veda Segre, Vienna e Belgrado cit., p. 69.
72 Memorandum redatto fra il 28 giugno e il 7 luglio 1914 da Berthold Molden, giornalista e collaboratore del dipartimento stampa del ministero degli Esteri a Vienna (cit. in Solomon Wank, Desperate Counsel in Vienna in luglio 1914: Berthold Molden’s Unpublished Memorandum, in «Central European History», XXVI, 1993, 3, pp. 281-310, in particolare p. 292).
73 Si veda il citato Memorandum Molden (ivi, p. 293).
74 Edna Ullmann-Margalit, Big Decisions: Opting, Converting, Drifting, Hebrew University of Jerusalem, Centre for the Study of Rationality, Discussion Paper #409, consultato in http://www.ratio.huji.ac.il/. Cfr. anche Edna Ullmann-Margalit, Sidney Morgenbesser, Picking and Choosing, in «Social Research», XLIV, 1977, 4, pp. 758-785. Sono grato a Ira Katznelson per avermi segnalato questi contributi.
75 Ullmann-Margalit, Big Decisions cit., p. 11.
76 Telegramma di Storck al ministero degli Esteri a Vienna, Belgrado, 6 luglio 1914 (HHS tA, PA I, Liasse Krieg 810, c. 223); secondo questo documento, l’inviato britannico Crackanthorpe aveva confidato a Storck che personalmente trovava il comportamento dei suoi «colleghi della Triplice Intesa più che strano».
77 Questo era il sospetto del rappresentante diplomatico italiano Cora, che era stato presente in varie occasioni (fra cui la famosa serata di bridge) in cui Hartwig aveva messo in ridicolo il defunto arciduca; si veda Storck a Berchtold, Belgrado, 13 luglio 1914 (ivi, c. 422).
78 Giesl a Berchtold, Belgrado, 11 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10193, pp. 396-398); per un altro resoconto completo sulla morte dell’inviato si veda Strandmann a Sazonov, Belgrado, 11 luglio 1914 (IBZI, serie 1, vol. IV, doc. 164, p. 163).
79 Cit. in Albertini, Le origini della guerra del 1914 cit., vol. II, p. 279.
80 Sazonov a Strandmann, San Pietroburgo, 13 luglio 1914 (IBZI, serie 1, vol. IV, doc. 192, p. 179).
81 Descos a Viviani, Belgrado, 11 luglio 1914 (DDF, serie 3, vol. X, doc. 499, pp. 719-721, in particolare p. 721).