Il 6 luglio 1914, il ventiseienne diplomatico francese Louis de Robien partì da Parigi per San Pietroburgo, dove era stato nominato addetto all’ambasciata francese. La data della sua partenza era stata anticipata in modo che potesse arrivare in tempo utile per contribuire ai preparativi per la visita di Stato del presidente Poincaré, in programma per il 20 luglio. Per guadagnare tempo, de Robien non prese l’espresso del Nord, che non effettuava servizio quotidiano, ma salì su una normale carrozza letto nel treno rapido per Colonia. Ci fu tempo per dare un’occhiata al Reno e alla grande cattedrale gotica prima di ripartire e attraversare la regione industriale della Ruhr, «sempre così impressionante, e non priva di una certa bellezza». Da lì il treno proseguì verso est, attraversando la Germania nel punto della sua massima larghezza, per raggiungere Wirballen (l’odierna Virbalis in Lituania) sulla frontiera est della Prussia orientale. Qui, con suo grande dispetto, de Robien dovette lasciare la sua comoda carrozza letto tedesca e cambiare treno a causa del diverso sistema di scartamento delle ferrovie russe. Il suo primo incontro con i locali alla frontiera produsse in lui una duratura impressione: non appena il treno si fu fermato, le carrozze vennero invase da un’«orda di persone barbute» che indossavano stivali e grembiuli bianchi, e che si presero cura del suo bagaglio con una fretta tale che non gli riuscì di star loro dietro. De Robien e gli altri passeggeri vennero indirizzati verso una barriera dove si trovavano «soldati con grandi sciabole». Lì vennero verificati i passaporti, con una procedura che lasciò stupefatto il diplomatico francese, poiché «in quell’era di libertà, in Europa si viaggiava ovunque, a parte che in Russia, senza portarsi dietro un passaporto». Dopo aver esibito i suoi documenti di viaggio, de Robien attese in un’ampia sala ai cui angoli erano poste delle icone, illuminate da candelabri, «strano equipaggiamento», gli parve, per quella che di fatto era una sala d’attesa. Alla fine le formalità furono completate, e il treno attraversò una campagna «terribilmente triste», costellata di villaggi al di sopra dei quali si intravedevano le cupole a bulbo delle chiese. De Robien cercò di parlare con alcuni ufficiali, che avevano l’aspetto di ingegneri, ma parlavano solo qualche parola di tedesco. «Ci sentivamo», ricordò, «come se fossimo in Cina»1.
Il suo arrivo a San Pietroburgo, dove avrebbe passato gli anni della guerra e attraversato il cataclisma di due rivoluzioni, non contribuì a far svanire quel senso di estraneità. Al contrario, non fece altro che «completare la nostra delusione». La capitale russa era piena di «orribili piccole carrozze, strade lunghe e in cattivo stato e cocchieri barbuti dall’aspetto esotico». Inizialmente alloggiò all’Hotel France, dove le camere erano ampie ma la mobilia era così brutta e l’atmosfera così sgradevole e «diversa da quella a cui siamo abituati in Europa» che decise di annullare la prenotazione e di trasferirsi invece all’Hotel d’Europe, sul «famoso Nevskij Prospekt». Ma anche la nuova sistemazione non era particolarmente europea, e i negozi lungo l’ampio viale che costeggiava il fiume erano deludenti – il migliore di essi, scrisse il nobile parigino, ricordava quelli di una cittadina francese di provincia2.
Spostarsi era difficile, perché quasi nessun passante era in grado di comprenderlo, cosa che per lui costituì uno choc, avendogli i suoi colleghi parigini assicurato che tutti laggiù sapevano il francese. Il cibo e le bevande della città erano di scarso conforto al conte, che era piuttosto schizzinoso: la cucina russa, notava, era terribile, soprattutto le minestre di pesce, «detestabili»; solo la ricetta del boršč lo colpì come «degna di esser mantenuta nel menu». Quanto alla «loro vodka», bevuta in un sol sorso, era «indegna di un palato civilizzato, educato alla lenta delibazione dei nostri cognac, dei nostri armagnac, delle nostre grappe e dei nostri kirsch»3.
Dopo essersi orientato in città, de Robien si diresse verso il suo nuovo posto di lavoro. Era per certi aspetti consolante che l’ambasciata francese, ospitata in un bel palazzo appartenente alla famiglia Dolgorukij, fosse situata in uno dei punti più belli lungo la riva della Neva. De Robien rimase particolarmente impressionato dai valletti in livrea blu e calzoni corti. Al piano terreno, affacciato sul fiume, si trovava l’ufficio dell’ambasciatore, adorno di tappezzerie e di dipinti di Van der Meulen. La porta accanto dava in una stanzetta nella quale era tenuto il telefono; era qui che ogni pomeriggio il personale dell’ambasciata si ritrovava per il rituale tè. Accanto a questa stanza era collocato l’ufficio del consigliere Doulcet, le cui pareti erano decorate dai ritratti di tutti gli ambasciatori di Francia presso la corte russa. Sul retro, dietro un ufficio affollato di segretari e di filze d’archivio, c’era una porta che si apriva sulla stanza blindata dell’ambasciata, dove venivano conservati i documenti segreti e i codici di trasmissione. L’orgoglio dell’ambasciata era la sala di ricevimento al primo piano, un bel salotto con le pareti tappezzate di damaschi verdi e oro alle quali erano appesi dipinti di Guardi appartenenti all’ambasciatore, e poltrone dorate che si diceva avessero fatto parte dell’arredamento della regina Maria Antonietta4.
De Robien conosceva già l’ambasciatore Maurice Paléologue, una figura straordinaria, che rivestiva quell’incarico dal gennaio precedente e avrebbe dominato la vita dell’ambasciata per tre anni, fino al termine del suo mandato. Le fotografie scattate nel 1914 lo ritraggono come un uomo azzimato, di altezza media, con la testa rasata e «occhi luminosissimi e profondamente infossati nelle orbite». Paléologue era uno «scrittore, più che un diplomatico», ricordò de Robien. Di ogni situazione coglieva l’aspetto drammatico e letterario. «Ogni volta che raccontava un evento o cercava di ripercorrere una conversazione, li ricreava quasi interamente nella sua immaginazione, conferendo ad essi una vividezza maggiore del vero». Paléologue era estremamente orgoglioso del suo nome, che affermava (speciosamente) di aver ereditato dagli imperatori dell’antica Bisanzio. Compensava questo «esotico» lignaggio (suo padre era un esule politico greco, sua madre una musicista belga) con un appassionato ed espansivo patriottismo, e con un desiderio di presentarsi come l’incarnazione della raffinatezza e della superiorità culturale francesi.
Una volta insediatosi a San Pietroburgo, Paléologue, che prima di allora non aveva mai occupato un posto così elevato, ben presto si adattò in pieno alle dimensioni del suo nuovo incarico. De Robien osservò a quali mezzi l’ambasciatore faceva ricorso per far pesare la sua importanza ai rappresentanti dei paesi «minori»: quando il segretario annunciava l’arrivo dell’inviato belga Buisseret o del suo collega olandese Sweerts, solitamente Paléologue usciva dalla porta posteriore per fare una passeggiata, ricevendo l’ospite di turno un’ora più tardi, nell’anticamera, allargando le braccia e dicendo: «Mio caro collega, oggi ho avuto così tanto da fare...». Il suo amore per la stravaganza e l’ostentazione era eccezionale anche nel mondo dei grandi ambasciatori. Nella società pietroburghese si attribuiva molta importanza al fatto che all’ambasciata francese i pranzi fossero preparati dallo chef che Paléologue si era portato da Parigi. De Robien attribuiva tutto ciò alla discendenza «orientale» dell’ambasciatore, aggiungendo maliziosamente che, come per molti parvenus, il suo amore per la magnificenza aveva qualcosa di affettato e di innaturale5.
Paléologue aveva orrore per quel tipo di dettagliati dispacci che erano il pane quotidiano del lavoro diplomatico, e preferiva invece dar forma alle sue impressioni creando vivaci scene invigorite da dialoghi nei quali le frasi a effetto prendevano il posto delle lunghe e spesso ambigue circonlocuzioni verbali che erano la norma nelle quotidiane comunicazioni diplomatiche russe. De Robien ricordò un giorno particolare nel quale era previsto che l’ambasciatore fosse ricevuto in udienza dallo zar per un colloquio su un’importante questione militare. Paléologue desiderava che il relativo dispaccio venisse spedito non appena fosse tornato all’ambasciata, in modo che arrivasse a Parigi nel momento adatto per produrre «il massimo effetto». Per far ciò, redasse il resoconto del colloquio col sovrano prima ancora di essere uscito dall’ambasciata per recarsi all’udienza. De Robien e i suoi colleghi si dettero quindi da fare per trascrivere in codice la particolareggiata narrazione di una conversazione che non era mai avvenuta. Fra tutte quelle falsità, il conte ricordava una frase tipica dell’ambasciatore Paléologue: «A questo punto, il colloquio è giunto a una svolta cruciale, e l’imperatore mi ha offerto una sigaretta»6.
I commenti di de Robien sull’ambasciatore, per quanto ostili, erano probabilmente corrispondenti al vero. Paléologue era una delle personalità più cangianti fra coloro che rivestivano l’incarico di ambasciatore nel servizio diplomatico francese. Per molti anni aveva languito nella Centrale di Parigi, condannato a noiose mansioni di copiatura. In seguito gli era stata attribuita la responsabilità dell’archiviazione dei documenti segreti, in particolar modo quelli relativi all’Alleanza franco-russa e ai legami fra il ministero degli Esteri e i servizi segreti militari, lavoro che apprezzava. I lunghi anni passati nelle funzioni di custode delle informazioni che il ministero accumulava sull’alleanza e sulle minacce militari che essa doveva affrontare – ebbe accesso, ad esempio, alle informazioni dei servizi francesi sui piani tedeschi di mobilitazione su due fronti – gli fecero sviluppare un’idea delle relazioni estere della Francia che attribuiva un’importanza fondamentale alla minaccia tedesca e alla coesione dell’alleanza7. I suoi scritti storici trasmettono il senso di una concezione romantica del grande uomo, visto come colui che dedica tutto se stesso ai momenti in cui si presentano scelte di portata storica mondiale; nella sua biografia del conte di Cavour possiamo ad esempio leggere questo passo, citato dai Mémoires di Luigi XIV:
La saggezza vuole che in talune circostanze molto si lasci fare al caso; la ragione consiglia allora di seguire non so quali impulsi o istinti ciechi, superiori alla ragione stessa, che sembrano ispirati dal cielo. Nessuno può dire quando occorra diffidare di essi o abbandonarvisi; né libri, né regole, né esperienze lo insegnano; un certo equilibrio ed un certo ardimento dello spirito lo fanno indovinare8.
La spiccata e profonda germanofobia di Paléologue si associava ad un gusto per gli scenari catastrofici che molti dei suoi colleghi ritenevano pericoloso. Durante il periodo che passò a Sofia (1907-1912), uno dei pochi incarichi all’estero da lui ricoperti prima di accettare la guida dell’ambasciata di San Pietroburgo, un suo collega riferì che i suoi dispacci e le sue conversazioni pullulavano di sfrenate descrizioni di «orizzonti, nuvole e minacciose tempeste». Di fatto è arduo trovare commenti di quel periodo che lo elogino senza riserve. C’erano semplicemente troppi rapporti di segno negativo, osservò un alto funzionario del ministero degli Esteri nel maggio del 1914, perché si potesse avere fiducia nel nuovo ambasciatore9. Izvol’skij lo tratteggiò come un «creatore di frasi a effetto, un fanfarone, e molto mellifluo». Perfino i suoi colleghi britannici a Sofia lo descrivevano come un uomo «eccitabile», «incline a diffondere voci sensazionalistiche e allarmistiche», e «spacciatore di storie incredibili»10.
La nomina di Paléologue a dirigere l’ambasciata di San Pietroburgo, in quello che era l’incarico strategicamente più delicato e importante della diplomazia francese, potrebbe quindi apparire piuttosto strana. Egli dovette la sua ascesa all’interno del corpo diplomatico più al prevalere di un particolare orientamento politico che al consueto curriculum di requisiti professionali. Delcassé lo scoprì e lo patrocinò con energia, soprattutto perché condivideva le sue opinioni sulla minaccia tedesca alla Francia; in Paléologue, Delcassé trovò un subordinato che poteva riecheggiare e rafforzare le sue stesse idee. La stella di Paléologue declinò con la caduta di Delcassé nel 1905, dopo la quale si trovò costretto ad accontentarsi di vari incarichi minori. Fu Poincaré a intervenire in suo favore; i due erano amici intimi fin dai giorni in cui studiavano insieme al Liceo Louis-le-Grand a Parigi. Il «grande dono» di Paléologue, notò malignamente de Robien, consisteva nell’essere stato compagno di classe di Poincaré e di Millerand al liceo («fu alla loro amicizia che dovette la sua stupefacente carriera»)11. Da primo ministro, Poincaré richiamò Paléologue da Sofia nel 1912 e lo nominò direttore politico al Quai d’Orsay. Questa spettacolare promozione – un balzo in alto nelle gerarchie che apparve sbalorditivo per un uomo così eccentrico e controverso – turbò molti degli ambasciatori di più lungo corso. L’ambasciatore francese a Madrid disse a Bertie che Paléologue «non era roba giusta per la direzione»; il suo collega in Giappone ne parlò come di una «scelta penosa»12. Erano parole forti, anche per i consueti standard del servizio diplomatico, nel quale gli avanzamenti di grado spesso suscitavano critiche dettate dall’invidia. «Dobbiamo sperare» rilevò Eyre Crowe a Londra, «che l’atmosfera di Parigi avrà un effetto calmante sul signor Paléologue, ma in genere non è questo l’effetto che Parigi produce»13.
Poincaré era consapevole della reputazione di Paléologue, e fece il possibile per limitarne gli eccessi, ma i due amici avviarono uno stretto rapporto di lavoro basato su un profondo accordo su tutte le questioni chiave. Poincaré finì per dipendere dal giudizio di Paléologue14, il quale ad esempio lo incoraggiò a far assumere alla Francia impegni più decisi nei Balcani. Paléologue non riteneva possibile una conciliazione degli interessi austriaci e russi nella regione, e la sua ossessione per i nefandi piani di Berlino e di Vienna lo rese cieco di fronte alle macchinazioni della politica russa. Nelle due guerre balcaniche vide un’opportunità per consolidare la posizione della Russia nella penisola15. Il suo stretto legame con Poincaré fu uno dei motivi per cui Sazonov, che pure conosceva le sue idiosincrasie, ne accolse favorevolmente la nomina ad ambasciatore a San Pietroburgo16. Era un uomo del quale si poteva essere certi che avrebbe ripreso, nel gennaio del 1914, da dove Delcassé si era interrotto. Alla vigilia della propria partenza, in una conversazione con un diplomatico russo che si trovava a passare da Parigi, Paléologue dichiarò che stava per assumere l’incarico a San Pietroburgo, il che gli avrebbe permesso di metter fine alla politica di concessioni che fino a quel punto era prevalsa, e aggiunse che «si sarebbe battuto per una futura politica intransigente, senza compromessi o tentennamenti». «Basta con tutto questo, faremo vedere alla Germania la nostra forza!»17. Erano queste le convinzioni, gli atteggiamenti e i rapporti che avrebbero guidato il nuovo ambasciatore nel corso della crisi dell’estate del 1914.
Alle undici e trenta del mattino di mercoledì 15 luglio, il treno presidenziale lasciò la Gare du Nord di Parigi diretto a Dunkerque. A bordo c’erano Raymond Poincaré, il nuovo primo ministro René Viviani e il successore di Paléologue nella carica di direttore politico al Quai d’Orsay, Pierre de Margerie. Il mattino dopo, di buon’ora, i tre uomini raggiunsero la corazzata France per cominciare il loro viaggio attraverso il Mar Baltico fino a Kronstadt e a San Pietroburgo. L’ex socialista Viviani era un novizio nel suo incarico: era stato nominato presidente del Consiglio solo da quattro settimane, e non aveva la benché minima esperienza o conoscenza degli affari esteri. La sua principale utilità per Poincaré consisteva nel fatto che si fosse da poco convertito alla causa della Legge dei tre anni, che godesse di un considerevole seguito alla Camera e che fosse pronto a sostenere le idee del capo dello Stato in tema di difesa. Quando la visita di Stato entrò nel vivo, sarebbe subito apparso evidente che non era politicamente all’altezza della situazione. Pierre de Margerie, al contrario, era un esperto diplomatico di carriera, che era stato portato a Parigi da Poincaré nella primavera del 1912, all’età di cinquantuno anni, per occupare il posto di direttore associato al Quai d’Orsay. Poincaré aveva creato questo incarico di sorveglianza nella speranza che de Margerie avrebbe tenuto d’occhio Paléologue e vigilato per evitare qualsiasi indiscrezione di rilievo. Ma non fu necessario. Paléologue assolse il suo compito con soddisfazione del presidente, e quando venne ricompensato con la nomina a San Pietroburgo, de Margerie gli subentrò come direttore politico, dimostrandosi efficiente e – cosa più importante di tutte agli occhi di Poincaré – politicamente fedele. Né Viviani né de Margerie furono in grado di mettere effettivamente in discussione il controllo che il presidente della Repubblica esercitava sulla politica francese18.
Poincaré aveva molto a cui pensare quando a Dunkerque, alle cinque del pomeriggio del 16 luglio, salì a bordo della France. Prima ci fu la sensazionale accusa pronunciata da Charles Humbert nei confronti dell’amministrazione militare francese. In un discorso al Senato del 13 luglio in occasione della presentazione della sua relazione sulla speciale votazione di bilancio per l’acquisto di materiale per l’esercito, Humbert, senatore del dipartimento della Mosa (ai confini con il Belgio), aveva sferrato un violento attacco all’amministrazione militare francese. I forti di cui il paese disponeva, affermò, erano di scarsa qualità, le munizioni per i cannoni mancavano e gli impianti per le comunicazioni radio da un forte all’altro erano difettosi. Ogni volta che le installazioni radiofoniche tedesche di Metz trasmettevano, affermò Humbert, la stazione di Verdun cessava di funzionare. L’artiglieria francese era quantitativamente inferiore a quella tedesca, soprattutto nel settore dei cannoni di grosso calibro. L’attenzione dell’opinione pubblica francese, e in particolare delle madri della nazione, venne catturata soprattutto da un particolare: l’esercito era deplorevolmente a corto di scarponi; se fosse scoppiata la guerra, dichiarò il senatore, i soldati francesi avrebbero dovuto entrare in campagna con un solo paio di scarponi, oltre a un unico scarpone di riserva vecchio di trent’anni nello zaino. Il discorso suscitò grande sensazione nel mondo politico. Nella sua replica, il ministro della Guerra Adolphe Messimy non negò la sostanza delle accuse, ma sostenne che si stavano facendo rapidi progressi in tutti i campi19. Le deficienze nelle forniture dell’artiglieria sarebbero state risolte entro il 1917.
La vicenda fu tanto più irritante in quanto l’uomo che guidò l’agitazione parlamentare che si scatenò era il vecchio nemico di Poincaré Georges Clemenceau, il quale affermò che l’incompetenza rivelata dalla relazione era tale da giustificare la bocciatura parlamentare del nuovo bilancio militare. Alla fine si riuscì comunque a risolvere la questione e a far approvare le nuove spese per la difesa appena in tempo per non dovere posticipare la partenza del presidente per la Russia. Il giorno in cui la delegazione francese partì per Dunkerque, Viviani sembrava nervoso e preoccupato al pensiero di possibili intrighi e complotti, nonostante gli sforzi di Poincaré per calmarlo20.
Come se questo non bastasse, il 20 luglio si sarebbe dovuto aprire il processo a madame Caillaux, e c’era motivo di temere che le denunce e le rivelazioni fatte in tribunale potessero innescare una serie di scandali in grado di scuotere il governo. La portata della vicenda divenne evidente quando circolò la voce che la vittima, il direttore del quotidiano Calmette, fosse in possesso di telegrammi tedeschi decifrati che rivelavano la portata dei negoziati di Caillaux con la Germania durante la crisi di Agadir del 1911. In quelle comunicazioni – almeno stando ai telegrammi – Caillaux aveva parlato dell’auspicabilità di un riavvicinamento con Berlino. Lo stesso Caillaux affermò di essere in possesso di dichiarazioni giurate che provavano come la campagna contro di lui fosse stata orchestrata da Poincaré. L’11 luglio, pochi giorni prima della partenza del presidente per la Russia, Caillaux minacciò di rendere noti al pubblico quei documenti se Poincaré non avesse fatto pressioni per un’assoluzione di sua moglie21. I motori occulti che alimentavano gli intrighi politici parigini funzionavano ancora a pieni giri.
Nonostante queste preoccupazioni, Poincaré s’imbarcò per il suo viaggio nel Mar Baltico con umore sorprendentemente calmo e risoluto. Dovette provare un enorme sollievo ad allontanarsi da Parigi in un momento in cui il processo Caillaux aveva suscitato nella stampa una frenesia parossistica. Il presidente passò gran parte dei primi tre giorni della traversata sul ponte della France dando istruzioni a Viviani (la cui ignoranza sulle questioni di politica estera trovò «scioccante») riguardo alla missione a San Pietroburgo22. Il suo schema per queste lezioni introduttive, che ci dà una chiara indicazione di cosa egli stesso avesse in mente quando partì da Parigi, comprendeva «particolari sull’alleanza», una rassegna dei «vari temi sollevati a San Pietroburgo nel 1912», «le convenzioni militari di Francia e Russia», la proposta della Russia all’Inghilterra di una convenzione navale e «i rapporti con la Germania». «Non ho mai avuto difficoltà con la Germania», disse Poincaré, «perché l’ho sempre trattata con grande fermezza»23. I «temi sollevati a San Pietroburgo nel 1912» comprendevano il rafforzamento delle ferrovie strategiche, l’importanza dei massicci attacchi dal saliente polacco e l’esigenza di concentrarsi sulla Germania come principale avversario. E il riferimento all’Inghilterra costituisce un’indicazione del fatto che Poincaré stava ragionando non solo nei termini dell’alleanza con la Russia, ma anche nella prospettiva dell’embrionale Triplice Intesa. Questo era in poche parole il credo di Poincaré in tema di sicurezza: l’alleanza è la nostra base fondamentale, è la chiave indispensabile della nostra difesa militare e può essere mantenuta solo con l’intransigenza di fronte alle richieste del blocco avversario. Questi assiomi avrebbero condizionato la sua interpretazione della crisi in atto nei Balcani.
A giudicare dalle note del suo diario, per Poincaré i giorni del viaggio in mare furono profondamente rilassanti. Mentre Viviani s’inquietava per le notizie dello scandalo e dell’intrigo parigino che arrivavano frammentariamente via radiotelegrafo da Parigi, egli si godeva l’aria tiepida sul ponte e i riflessi del sole sul mare azzurro lievemente increspato da «impercettibili onde». Ci fu solo un piccolo intoppo: mentre si stava avvicinando al porto di Kronstadt, la France, viaggiando a 15 nodi orari nell’oscurità del primo mattino del 20 luglio, andò a sbattere contro un rimorchiatore russo che trainava una fregata verso l’ormeggio. L’incidente svegliò Poincaré, che si trovava nella sua cabina. Era assai spiacevole che una nave da guerra francese che procedeva in acque neutrali al comando di un ammiraglio della flotta avesse colpito e danneggiato un rimorchiatore di una nazione alleata. Si trattava, annotò con irritazione nel suo diario, di «un gesto che mancava di destrezza e di eleganza».
Il presidente recuperò tuttavia il suo buonumore di fronte alla vivace scena che accolse la France al suo ingresso nel porto di Kronstadt. Da tutte le direzioni, navi, postali addobbati a festa e imbarcazioni da diporto erano usciti per dare il benvenuto ai visitatori, e la lancia imperiale si affiancò alla nave francese per trasportare Poincaré fino allo yacht dello zar, l’Alexandria. «Lascio la France», annotò Poincaré, «con l’emozione che sempre mi sopraffà quando, al rumore dei colpi di cannone, lascio una delle nostre navi da guerra»24. Poco più in là, in piedi accanto allo zar sul ponte dell’Alexandria, da dove poteva osservare perfettamente l’intera scena, Maurice Paléologue stava probabilmente già componendo mentalmente un brano delle sue memorie:
Fu uno spettacolo magnifico. In una luce tremula e argentata, la France solcò lentamente le onde di color turchese e smeraldo, lasciando dietro di sé un lungo solco bianco. Poi si arrestò maestosamente. La possente nave da guerra cha ha condotto il capo dello Stato francese è ben degna del suo nome. Era infatti la Francia che arrivava in Russia. Sentii il cuore che mi batteva25.
I verbali delle riunioni del vertice che si tenne nei successivi tre giorni non sono stati conservati. Negli anni Trenta, i curatori dei Documents diplomatiques français li cercarono invano26. E anche i documenti russi sono andati persi, il che forse sorprende meno, date le interruzioni nella continuità degli archivi per gli anni corrispondenti alla guerra mondiale e alla guerra civile. Tuttavia è possibile farsi un’idea abbastanza chiara di quello che avvenne, grazie ai resoconti che ne fece Poincaré nel suo diario e a quanto si può rilevare dalle memorie di Paléologue e dagli appunti di altri diplomatici che furono presenti nel corso di quei giorni fatidici.
Gli incontri si concentrarono principalmente sulla crisi in corso in Europa centrale. È importante sottolinearlo, poiché spesso si è sostenuto che, essendo quella una visita di Stato programmata da tempo, più che un vero e proprio vertice sulla crisi, i temi discussi seguissero un piano già predisposto, nel quale la questione serba occupava un posto secondario. In realtà è vero il contrario. Già prima che Poincaré lasciasse la France, lo zar disse all’ambasciatore quanto fosse ansioso d’incontrarsi con il presidente francese: «Avremo gravi argomenti da discutere. Sono certo che concorderemo su tutti i punti [...] Ma c’è una questione che mi preme molto – la nostra intesa con l’Inghilterra. Dobbiamo far sì che entri nella nostra alleanza»27.
Non appena si furono concluse le formalità, lo zar e il suo ospite si avviarono verso la poppa dell’Alexandria e cominciarono la conversazione. «O piuttosto dovrei dire una discussione», scrisse Paléologue, «perché era ovvio che stavano parlando di cose serie, ponendosi domande l’un l’altro e discutendo». All’ambasciatore sembrò che Poincaré stesse dominando la conversazione; presto fu praticamente l’unico dei due «a parlare, mentre lo zar semplicemente faceva di sì col capo, ma tutto [il suo] aspetto mostrava la sua sincera approvazione»28. Secondo il diario di Poincaré, la conversazione che si svolse sull’Alexandria toccò dapprima il tema dell’alleanza, su cui Nicola II si espresse «con grande fermezza». Lo zar chiese a Poincaré dello scandalo Humbert, che disse aver fatto una pessima impressione in Russia, e sollecitò il presidente a fare quanto necessario per impedire che la Legge dei tre anni decadesse. Poincaré a sua volta lo rassicurò dicendogli che la nuova Camera francese aveva manifestato la sua vera volontà votando a favore del mantenimento della legge e che lo stesso Viviani ne era un convinto sostenitore. Quindi lo zar sollevò la questione dei rapporti fra Sergej Witte e Joseph Caillaux, che si diceva fossero esponenti di una nuova politica estera basata su un avvicinamento fra Russia, Francia, Germania e Gran Bretagna, ma fu d’accordo col presidente francese nel ritenere che si trattava di un progetto irrealizzabile, non tale da mettere in pericolo l’attuale schieramento geopolitico29.
In breve, ancor prima di essere sbarcati, Poincaré e lo zar avevano già verificato che le loro valutazioni sulla situazione in atto erano concordi. Il punto cruciale era la solidarietà dell’alleanza, e ciò significava non soltanto un sostegno diplomatico, ma anche la disponibilità ad un intervento militare. Il secondo giorno (21 luglio), lo zar si recò a far visita a Poincaré nel suo alloggio presso il Peterhof, e i due rimasero per circa mezz’ora a quattr’occhi. Stavolta la conversazione si concentrò dapprima sulla tensione esistente fra la Russia e la Gran Bretagna in Persia. Poincaré adottò un tono conciliante, sostenendo che si trattava di preoccupazioni di minima importanza, che non avrebbero dovuto compromettere le buone relazioni anglo-russe. Entrambi concordarono che la fonte del problema non stava a Londra o a San Pietroburgo, bensì in non meglio specificati «interessi locali» che non avevano più ampia rilevanza. E lo zar notò con un certo sollievo che Grey non aveva consentito che la scoperta dei colloqui navali da parte di Berlino mandasse in fumo il tentativo di giungere ad una convenzione. Vennero poi toccate altre questioni – l’Albania, la tensione greco-turca sulle isole egee e la politica dell’Italia –, ma la «più viva preoccupazione» dello zar, notò Poincaré, riguardava l’Austria e i suoi piani dopo l’attentato di Sarajevo. A questo punto della discussione, secondo Poincaré, lo zar fece un commento estremamente rivelatore: «Mi ripete che nelle attuali circostanze la completa alleanza fra i nostri due governi gli sembra più necessaria che mai». Poco dopo Nicola II se ne andò30.
Anche in questo caso, il tema centrale fu l’incrollabile solidarietà dell’Alleanza franco-russa di fronte alle possibili provocazioni da parte dell’Austria. Ma cosa voleva dire in pratica? Significava che l’alleanza avrebbe reagito a un’iniziativa austriaca contro la Serbia con una guerra che, inevitabilmente, avrebbe avuto una portata continentale? Poincaré offrì una risposta in codice a questa domanda il pomeriggio di quel 21 luglio, quando, con Viviani e Paléologue, ricevette i vari ambasciatori degli altri paesi. Il secondo ad essere ricevuto fu l’ambasciatore austro-ungarico Fritz Szapáry, appena rientrato da Vienna, dove era stato al capezzale della moglie morente. Dopo qualche parola di cordoglio per l’assassinio dell’arciduca, Poincaré chiese se ci fossero state nuove notizie dalla Serbia. «L’inchiesta giudiziaria sta procedendo», rispose Szapáry. Il racconto che Paléologue fornisce della risposta di Poincaré concorda strettamente con quello contenuto nel dispaccio dell’ambasciatore austriaco:
Naturalmente attendo con ansia i risultati di questa indagine, signor ambasciatore. Ricordo due precedenti inchieste che non hanno migliorato i vostri rapporti con la Serbia [...] Non ricordate? L’affare Friedjung e l’affare Prochaska31.
Era una risposta straordinaria, questa che un capo di Stato in visita a una capitale straniera dava ad un rappresentante di un paese terzo. A parte il tono sarcastico, essa equivaleva a negare in anticipo la credibilità di qualsiasi risultato l’Austria potesse produrre in merito a quel che stava dietro le uccisioni. Era come dichiarare che la Francia non accettava e non poteva accettare che il governo serbo avesse una qualsiasi responsabilità negli omicidi e che qualsiasi pretesa avanzata nei confronti di Belgrado sarebbe stata illegittima. Le vicende Friedjung e Prochaska erano dei pretesti per respingere a priori le rimostranze austriache. Poincaré proseguì:
Faccio rilevare con grande fermezza all’ambasciatore che la Serbia ha in Europa amici che rimarrebbero stupefatti da un’azione del genere32.
Paléologue riportò nelle sue memorie una formulazione ancora più netta:
La Serbia ha alcuni amici molto cordiali nel popolo russo. E la Russia ha un alleato, la Francia. Ci sono parecchie complicazioni da temere!33
Anche Szapáry riferì che il presidente francese aveva detto che un intervento austriaco avrebbe prodotto «una situazione pericolosa per la pace». Quali che siano state le esatte parole di Poincaré, l’effetto fu traumatico, e non solo per Szapáry, ma anche per i russi che erano lì vicino, alcuni dei quali, riferì de Robien, erano «noti per la loro antipatia nei confronti dell’Austria»34. A conclusione del suo dispaccio, Szapáry rilevava – ed è difficile contestare il suo giudizio – che il «contegno indelicato, quasi minaccioso» del presidente francese, uno «statista straniero che è ospite in questo paese», era in netto contrasto con «il comportamento cauto e riservato del signor Sazonov». L’intera scena dette l’impressione che l’arrivo di Poincaré a San Pietroburgo avrebbe avuto un «effetto tutt’altro che tranquillizzante»35.
Nel commentare il contrasto fra Sazonov e Poincaré, Szapáry individuò un nervo scoperto nei rapporti franco-russi. Quella sera stessa, nel corso di una cena presso l’ambasciata – un fastoso ricevimento in onore del presidente francese – Poincaré si sedette accanto a Sazonov. In un caldo soffocante – la stanza era poco ventilata –, i due discussero della situazione austro-serba. Con sua costernazione, Poincaré trovò Sazonov preoccupato e poco disposto alla fermezza. «Il periodo per noi è brutto», disse il ministro russo, «i nostri contadini sono ancora molto occupati col lavoro nei campi»36. Nel frattempo, nel petit salon attiguo, dove venivano intrattenuti gli ospiti di minor rilievo, l’atmosfera era diversa. Un colonnello dell’entourage di Poincaré fu sentito proporre un brindisi «alla prossima guerra e alla vittoria sicura»37. Poincaré rimase turbato dall’irresolutezza di Sazonov. «Dobbiamo avvertire Sazonov delle cattive intenzioni dell’Austria», disse a Paléologue, «incoraggiarlo a mantenere fermezza e promettergli il nostro sostegno»38. Più tardi, quella sera stessa, dopo essere stato ricevuto dall’assemblea municipale, Poincaré si trovò seduto a poppa dello yacht imperiale con Viviani e Izvol’skij, il quale era tornato da Parigi per partecipare agli incontri. Izvol’skij sembrò preoccupato – forse aveva parlato con Sazonov. Viviani apparve «triste e scontroso». Quando l’imbarcazione partì per il Peterhof in un silenzio quasi assoluto, Poincaré alzò lo sguardo verso il cielo notturno e si domandò: «Cosa ci starà preparando l’Austria?»39.
Il giorno seguente, il 22 luglio, fu particolarmente difficile. Viviani sembrava in preda a un esaurimento nervoso. La situazione precipitò nel pomeriggio, quando il primo ministro francese, che a pranzo si trovò seduto a sinistra dello zar, non sembrò in grado di rispondere a nessuna delle domande che gli venivano poste. A metà del pomeriggio, il suo comportamento si era fatto sempre più strano. Mentre Nicola II e Poincaré erano seduti ad ascoltare una banda militare, Viviani fu visto starsene da solo in piedi vicino alla tenda imperiale: mormorava, brontolava, imprecava ad alta voce, e in generale si comportava in modo da attirare l’attenzione su di sé. I tentativi fatti da Paléologue per calmarlo non servirono a niente. Nel suo diario, Poincaré registrò la situazione con un lapidario commento: «Viviani sta diventando sempre più triste e tutti cominciano a notarlo. Il pranzo è eccellente»40. Alla fine venne annunciato che Viviani soffriva di una «crisi di fegato» e avrebbe dovuto ritirarsi presto.
È impossibile stabilire con sicurezza per quale motivo il primo ministro stesse così male. Il suo crollo poté forse essere stato accelerato, come alcuni storici hanno ipotizzato, dall’ansia per gli sviluppi della situazione a Parigi (il mercoledì era arrivato un telegramma in cui si diceva che Caillaux aveva minacciato di produrre in tribunale varie trascrizioni dal contenuto delicato)41, ma è più probabile che Viviani, uomo profondamente pacifico, fosse in allarme per il clima sempre più propenso alla guerra che prevaleva nei vari incontri franco-russi. Questo è certamente ciò che pensava de Robien, per il quale era chiaro che il primo ministro era «sovreccitato da tutte quelle espressioni dello spirito militarista». Il 22 luglio, rilevò de Robien, non si parlò che di guerra: «Si percepiva che dalla sera prima l’atmosfera era cambiata». Rise quando i marinai dell’equipaggio della France gli dissero che erano preoccupati alla prospettiva di essere attaccati durante la traversata di ritorno, ma il loro nervosismo era un segno inquietante. Il momento culminante si ebbe giovedì 23 luglio – l’ultimo giorno di Poincaré in Russia –, quando i capi di Stato presenziarono a una rivista militare a cui parteciparono 70.000 uomini, mentre sullo sfondo risuonava una musica militare composta principalmente da brani come Sambre et Meuse e la Marche Lorraine, che i russi parvero ritenere «l’inno personale di Poincaré». Particolarmente notevole fu il fatto che i soldati non indossassero le loro elaborate uniformi da cerimonia, bensì l’uniforme da campo kaki che avevano messo per l’addestramento – circostanza che de Robien interpretò come un ulteriore sintomo di una generale volontà di guerra42.
Poincaré e Paléologue assisterono a una delle più curiose espressioni della solidarietà alleata la sera del 22 luglio, quando il granduca Nikolaj Nikolaevič, comandante della Guardia imperiale, invitò a cena gli ospiti presso Krasnoe Selo, una località di villeggiatura presso San Pietroburgo, dove c’erano molte belle ville, fra cui le residenze estive degli zar. La scena era pittoresca: tre lunghi tavoli erano sistemati in tende semi-aperte intorno a un giardino percorso da fresche acque e ricco di fiori profumati. Quando arrivò l’ambasciatore francese, venne accolto dalla moglie del granduca Nikolaj, Anastasia, e da sua sorella Milica, che aveva sposato il fratello di Nikolaj, Pëtr Nikolaevič. Le due sorelle erano figlie del sovrano alquanto energico e ambizioso del Montenegro, re Nicola. «Si rende conto», dissero (parlando insieme), «che stiamo vivendo giorni storici!».
Domani, alla rivista, le bande non suoneranno che la Marche Lorraine e Sambre et Meuse. Oggi mi è arrivato un telegramma (in codice predefinito) da mio padre. Mi dice che ci sarà la guerra prima della fine del mese [...] Che eroe è mio padre! [...] È degno dell’Iliade! Guardi questa scatolina che porto sempre con me. C’è un po’ di terra della Lorena, vera terra della Lorena che ho raccolto alla frontiera quando due anni fa sono stata in Francia con mio marito. Guardi là, al tavolo d’onore: è coperto di cardi. Non voglio altri fiori lì. Vede, sono cardi della Lorena! Ho raccolto diverse piante nei territori annessi, le ho portate qui e ne ho seminato i semi nel mio giardino [...] Milica, continua a parlare con l’ambasciatore. Digli tutto quello che oggi significa per noi, mentre io vado a ricevere lo zar [...]43.
Non era un parlare in senso figurato. Una lettera del novembre 1912 del generale de Laguiche, addetto militare francese a San Pietroburgo, conferma che nell’estate di quell’anno, mentre suo marito stava assistendo alle manovre militari francesi presso Nancy, la granduchessa Anastasia aveva mandato qualcuno al di là della frontiera nella Lorena controllata dai tedeschi con le istruzioni di raccogliere un cardo e un po’ di terra. La granduchessa portò il cardo in Russia, lo fece germinare e quindi piantò i semi nella terra della Lorena, li innaffiò con cura finché non crebbero nuovi cardi, quindi mescolò la terra lorenese con quella russa per simboleggiare l’Alleanza franco-russa e dette incarico al giardiniere di propagare il seme avvertendolo che se i cardi morivano, lui avrebbe perso il posto. I cardi che mostrò a Poincaré nel luglio del 1914 li aveva raccolti nel suo giardino44. Queste stravaganti manifestazioni avevano una concreta importanza politica; il marito di Anastasia, il granduca Nikolaj, panslavista e biscugino dello zar, era fra coloro che più attivamente premevano su Nicola II perché intervenisse militarmente a favore della Serbia, qualora l’Austria avesse posto a Belgrado richieste «inaccettabili».
La rapsodia montenegrina continuò anche durante la cena, quando Anastasia deliziò le persone che le erano vicine con alcune sue profezie: «Sta per esserci una guerra [...]. Non resterà più nulla dell’Austria [...]. Voi riprenderete l’Alsazia e la Lorena [...]. I nostri eserciti s’incontreranno a Berlino [...]. La Germania sarà distrutta [...]», e così via45. Anche Poincaré ebbe modo di vedere la principessa in azione. Durante un intervallo del balletto, mentre era seduto accanto a Sazonov, Anastasia e Milica si avvicinarono e cominciarono a rimproverare il ministro degli Esteri per l’insufficiente ardore del suo sostegno alla Serbia. Ancora una volta, la fiacchezza dei modi del ministro dette da pensare, ma Poincaré notò con soddisfazione che «lo zar, da parte sua, senza essere estasiato come le due granduchesse, mi sembra più determinato di Sazonov a difendere la Serbia per via diplomatica»46.
Queste dissonanze non impedirono ai membri dell’alleanza di concordare una linea d’azione comune. Alle sei del pomeriggio del 23 luglio, la sera della partenza dei francesi, Viviani, che sembrò in qualche modo essersi ripreso dal suo «attacco di fegato», concordò con Sazonov le istruzioni da inviare agli ambasciatori russo e francese a Vienna: si trattava di organizzare un’iniziativa amichevole congiunta per raccomandare moderazione all’Austria ed esprimere la speranza che essa evitasse qualsiasi mossa tale da compromettere l’onore o l’indipendenza della Serbia. Queste parole furono naturalmente scelte con attenzione per bloccare in anticipo la nota che l’Austria, come entrambi già sapevano, era in procinto di presentare. George Buchanan concordò che avrebbe suggerito al proprio governo di far recapitare all’Austria un analogo messaggio47.
Quella sera, durante la cena che precedette la partenza, sul ponte della France avvenne uno scontro assai emblematico fra Viviani e Paléologue sul testo di un comunicato che doveva essere redatto per la stampa. La bozza predisposta dall’ambasciatore si concludeva alludendo alla Serbia con queste parole:
I due governi hanno scoperto che le loro opinioni e intenzioni per il mantenimento dell’equilibrio dei poteri in Europa, specialmente nella penisola balcanica, sono assolutamente identiche.
Viviani non era contento di questa formulazione: «Penso che ci coinvolga un po’ troppo nella politica balcanica della Russia», disse. Venne quindi approntata un’altra versione, più anodina:
La visita che il presidente della Repubblica ha appena reso a S.A. l’imperatore di Russia ha dato ai due governi amici e alleati un’opportunità per scoprire che essi concordano interamente nelle loro opinioni sui vari problemi che la preoccupazione per la pace e gli equilibri di potere in Europa ha posto davanti alle potenze, particolarmente nei Balcani48.
Era un raffinato esercizio nell’arte dell’eufemismo. Tuttavia, nonostante il suo tono prudente, il comunicato nella sua versione rivista venne facilmente decodificato e sfruttato dalla stampa russa sia liberale che panslava, che cominciò a spingere apertamente per un intervento militare a sostegno di Belgrado49.
Poincaré non fu particolarmente contento dell’andamento della cena. La fitta pioggia caduta nel pomeriggio aveva praticamente buttato giù la tenda sul ponte di poppa, laddove avrebbero dovuto prendere posto i commensali, e non si può dire che il cuoco della nave si fosse coperto di gloria (il primo venne servito in ritardo, e «nessuno elogiò i piatti», avrebbe annotato più tardi lo stesso Poincaré). Ma il presidente poteva essere soddisfatto dell’impatto che nel complesso la sua visita aveva prodotto. Era venuto a predicare il vangelo della fermezza, e le sue parole avevano trovato orecchie disposte ad accoglierle. In quel contesto fermezza significava opposizione intransigente a qualsiasi misura austriaca. Le fonti non danno mai l’impressione che Poincaré o i suoi interlocutori russi si dessero in alcun modo pensiero di valutare quali misure l’Austria-Ungheria sarebbe stata legittimata ad assumere dopo le uccisioni. Non c’era bisogno di improvvisazioni o di nuove dichiarazioni politiche – Poincaré si stava semplicemente attenendo all’indirizzo che aveva elaborato fin dall’estate del 1912. Ciò può contribuire a spiegare per quale motivo, contrariamente a molti di coloro che gli stavano intorno, egli rimanesse così stranamente calmo durante tutto il corso della visita. Quello era lo scenario balcanico già da tempo prospettato in molti colloqui franco-russi. Una volta che anche i russi mantenessero una posizione di fermezza, ogni cosa avrebbe potuto svolgersi come previsto. Poincaré chiamava tutto questo politica di pace, perché immaginava che la Germania e l’Austria potessero retrocedere di fronte a una solidarietà così determinata. Ma se ogni tentativo fosse fallito, una guerra a fianco della potente Russia e, si sperava, della forza militare, navale e commerciale della Gran Bretagna non sarebbe stato il peggiore dei mali.
De Robien, che osservò tutto questo da vicino, non ne restò impressionato. La sua sensazione era che Poincaré fosse deliberatamente passato sopra all’autorità di Viviani – il quale come presidente del Consiglio e ministro degli Esteri era formalmente responsabile di quella politica – facendo assicurazioni e promesse a Nicola II. Poco prima di separarsi, Poincaré ricordò ancora una volta allo zar: «Stavolta dobbiamo mantenere la nostra posizione».
Quasi esattamente nello stesso momento [ricordò de Robien], l’Austria presentò il suo ultimatum a Belgrado. Anche i nostri avversari hanno deciso di «mantenere la posizione». Entrambe le parti immaginavano che un «bluff» sarebbe bastato a ottenere un successo. Nessuno dei giocatori pensava che sarebbe stato necessario andare fino in fondo. La tragica partita a poker aveva avuto inizio50.
Era nella natura dei grandi uomini, avrebbe poi scritto Paléologue, giocare partite così fatali. L’«uomo d’azione», osservò nello studio che dedicò a Cavour, diventa «un giocatore d’azzardo, giacché ogni iniziativa grave richiede non soltanto una visione anticipata dell’avvenire, ma anche una certa pretesa di provocare gli avvenimenti, di condurli, di dominarli»51.
1 Louis de Robien, Arrivée en Russie (Louis de Robien MSS, AN 427, AP 1, vol. II, cc. 1-2).
2 Ivi, cc. 3-4.
3 Ivi, cc. 6-7.
4 Ivi, cc. 8-9.
5 Ivi, c. 13.
6 Ivi, c. 12.
7 M.B. Hayne, The French Foreign Office and the Origins of the First World War, 1898-1914, Oxford 1993, pp. 117-118.
8 Maurizio [Maurice] Paléologue, Cavour, Bologna 1952, p. 45.
9 Daeschner a Doulcet, Parigi, 25 maggio 1914 (AMAE, PA-AP, 240 Doulcet, vol. XXI).
10 Izvol’skij a Sazonov, Parigi, 15 gennaio 1914 (IBZI, serie 3, vol. I, doc. 13, pp. 14-16); Bertie a Grey, Parigi, 26 gennaio e 15 giugno 1912; si veda Bertie a Nicolson, 26 gennaio 1912 (TNA, FO 800/165, cc. 133-134).
11 De Robien, Arrivée cit., c. 10.
12 Bertie a Nicolson, 26 gennaio 1912 (TNA, FO 800/165, cc. 133-134); l’espressione «lamentable choix» fu pronunciata il 18 giugno 1914 dall’ambasciatore in Giappone Gérard (Georges Louis, Les Carnets de Georges Louis, Paris 1926, vol. II, p. 125).
13 Commento di Crowe a margine di una lettera di Bertie a Grey, Parigi, 26 gennaio 1912 (cit. in John Keiger, France and the Origins of the First World War, London 1983, p. 5).
14 Ivi, p. 51.
15 Hayne, The French Foreign Office cit., pp. 253-254 e 133.
16 Izvol’skij a Sazonov, Parigi, 15 gennaio 1914 (IBZI, serie 3, vol. I, doc. 13, pp. 14-16).
17 Rapporto su una conversazione con Paléologue dei primi di gennaio del 1914 (in Vasilij N. Strandmann, Balkanske Uspomene, trad. serba dal russo, Beograd 2009, p. 240).
18 Sulla reputazione di Margerie come uomo fedele a Poincaré, si veda Sevastopulo (incaricato d’affari russo a Parigi) a Sazonov, Parigi, 15 gennaio 1914 (IBZI, serie 3, vol. I, doc. 16, p. 19); sull’affetto e la fedeltà di Margerie nei confronti di Poincaré, si veda Bernard Auffray, Pierre de Margerie, 1861-1942 et la vie diplomatique de son temps, Paris 1976, pp. 243-244; Keiger, France and the Origins cit., p. 51.
19 The French Army, in «The Times», 14 luglio 1914, p. 8, col. D; French Military Deficiencies e No Cause for Alarm, in «The Times», 15 luglio 1914, p. 7, col. A; Gerd Krumeich, Armaments and Politics in France on the Eve of the First World War. The Introduction of the Three-Year Conscription 1913-1914, Leamington Spa 1984, p. 214; Keiger, France and the Origins cit., p. 149.
20 Dal diario di Poincaré, 15 luglio 1914 (Notes journalières, BNF 16027).
21 Dal diario di Poincaré, 11 luglio 1914 (ibid.).
22 Dal diario di Poincaré, 18 luglio 1914 (ibid.).
23 Dal diario di Poincaré, 16 luglio 1914 (ibid.).
24 Dal diario di Poincaré, 20 luglio 1914 (ibid.).
25 Maurice Paléologue, An Ambassador’s Memoirs 1914-1917, London 1973, p. 5.
26 Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914, 3 voll., Milano 1942-1943, vol. II, La crisi del luglio 1914. Dall’attentato di Sarajevo alla mobilitazione generale dell’Austria-Ungheria, pp. 192-193.
27 Paléologue, An Ambassador’s Memoirs cit., p. 4.
28 Ivi, p. 5.
29 Dal diario di Poincaré, 20 giugno 1914 (Notes journalières, BNF 16027).
30 Dal diario di Poincaré, 21 giugno 1914 (ibid.).
31 Paléologue, An Ambassador’s Memoirs cit., p. 10; anche Szapáry parlò di un «riferimento indiretto all’affare Prochaska» (Szapáry a Berchtold, San Pietroburgo, 21 luglio 1914, in ÖUAP, vol. VIII, doc. 10461, pp. 567-568); Friedrich Würthle, Die Spur führt nach Belgrad, Wien 1975, pp. 207 e 330-331.
32 Annotazione del diario di Poincaré, 21 giugno 1914 (Notes journalières, BNF 16027).
33 Paléologue, An Ambassador’s Memoirs cit., p. 10.
34 Louis de Robien, Voyage de Poincaré (AN 427, AP 1, vol. II, c. 54). Robien non era presente quando quelle parole vennero pronunciate, ma apprese del loro effetto da testimoni russi.
35 Szapáry a Berchtold, San Pietroburgo, 21 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10461, p. 568); per una diversa valutazione di questi scambi di opinioni, cfr. Keiger, France and the Origins cit., p. 151, in cui si sostiene che Szapáry si sbagliò nel cogliere nelle parole del presidente una minaccia.
36 Annotazione del diario di Poincaré, 21 giugno 1914 (Notes journalières, BNF 16027).
37 De Robien, Voyage de Poincaré cit., c. 55.
38 Ivi, c. 57.
39 Dal diario di Poincaré, 21 giugno 1914 (Notes journalières, BNF 16027).
40 Dal diario di Poincaré, 22 giugno 1914 (ibid.).
41 Christopher Andrew, Governments and Secret Services: A Historical Perspective, in «International Journal», XXXIV, 1979, 2, pp. 167-186, in particolare p. 174.
42 De Robien, Voyage de Poincaré cit., cc. 56-58.
43 Paléologue, An Ambassador’s Memoirs cit., p. 15.
44 L’aneddoto è riportato in una lettera del 25 novembre 1912 di Laguiche all’ambasciatore francese a San Pietroburgo (Georges Louis) e al ministro della Guerra francese (Service Historique de la Défence, Château de Vincennes, Carton 7 N 1478): ringrazio il professor Paul Robinson della Graduate School of Public and International Affairs dell’Università di Ottawa per avermi segnalato questo documento e avermi fornito la citazione.
45 Paléologue, An Ambassador’s Memoirs cit., p. 15.
46 Dal diario di Poincaré, 22 giugno 1914 (Notes journalières, BNF 16027).
47 Dal diario di Poincaré, 23 giugno 1914 (ibid.).
48 Paléologue, An Ambassador’s Memoirs cit., pp. 16-17.
49 De Robien, Voyage de Poincaré cit., c. 62.
50 Ivi, cc. 62-63.
51 Paléologue, Cavour cit., p. 46.