Mentre Poincaré e Viviani si dirigevano verso il porto di Kronstadt, gli austriaci davano gli ultimi ritocchi all’ultimatum che doveva essere presentato a Belgrado. Domenica 19 luglio, spostandosi con veicoli non contrassegnati per non dare nell’occhio, i componenti del Consiglio dei ministri degli affari comuni si recarono all’appartamento privato di Berchtold per una riunione che doveva decidere «la prossima azione diplomatica contro la Serbia». Ci fu una discussione informale sulla nota che doveva essere inviata a Belgrado, quindi il testo venne definitivamente sistemato. Si decise che l’ultimatum sarebbe stato presentato il 23 luglio alle cinque del pomeriggio (poi posticipate alle sei per essere certi che fosse consegnato dopo la partenza di Poincaré). Berchtold dichiarò, speranzosamente, di ritenere improbabile «che si facesse pubblicamente parola del nostro passo prima [che Poincaré] lasciasse San Pietroburgo», ma poiché sapeva che la notizia dei piani di Vienna aveva già raggiunto Roma, era indispensabile muoversi rapidamente. Al governo serbo sarebbero state date quarantotto ore per rispondere; se l’ultimatum non fosse stato accettato integralmente dai serbi, sarebbe scaduto la sera di sabato 25 luglio.
E dopo cosa sarebbe successo? Il resto della discussione affrontò vari aspetti dello scenario che si sarebbe aperto dopo l’ultimatum. Conrad assicurò Tisza che sarebbero state messe a disposizione forze sufficienti per proteggere la Transilvania da un possibile attacco da parte della Romania. Tisza sostenne che l’Austria-Ungheria dovesse dichiarare fin da subito che non aveva «piani di accrescimento ai danni della Serbia» e non intendeva annettersi alcuna parte del territorio del regno. Il primo ministro ungherese era fortemente contrario, come nella seduta precedente, a qualsiasi misura che potesse far entrare nei domini della monarchia un numero maggiore di slavi meridionali scontenti, e guardava con timore anche alla prospettiva che eventuali annessioni da parte dell’Austria rendessero impossibile ai russi tirarsi indietro. Questa richiesta scatenò una discussione piuttosto vivace. Berchtold, in particolare, sostenne che una riduzione territoriale della Serbia avrebbe potuto, successivamente a un conflitto, rivelarsi un mezzo indispensabile per neutralizzare la minaccia che quel paese rappresentava per la sicurezza austro-ungarica. Tisza tenne duro, e i presenti raggiunsero una soluzione di compromesso: Vienna avrebbe dovuto annunciare formalmente, a tempo debito, che la duplice monarchia non stava facendo una guerra di conquista e non aveva piani per appropriarsi del territorio serbo. Tuttavia, avrebbe lasciato aperta la possibilità che altri Stati, e in particolare la Bulgaria, si assicurassero aree di territorio al momento controllate dalla Serbia1.
Né questo né altri incontri al vertice austriaci produssero qualcosa di neppure lontanamente simile a quella che oggi viene definita una exit strategy. La Serbia non era uno Stato canaglia in un contesto territoriale tranquillo: l’adiacente Albania rimaneva estremamente instabile, ed esisteva sempre la possibilità che la Bulgaria, una volta che avesse fagocitato territori macedoni ora soggetti alla Serbia, tornasse alla sua precedente politica filorussa; inoltre, come si sarebbero potute bilanciare le annessioni macedoni della Bulgaria con la necessità di placare la Romania con compensi territoriali?2 L’austrofobica dinastia Karadjordjević sarebbe rimasta al suo posto? E se no, chi o cosa l’avrebbe sostituita? C’erano poi questioni pratiche di ordine minore: chi si sarebbe occupato delle legazioni austriache a Belgrado e a Cetinje se l’Austria-Ungheria fosse stata costretta a rompere le relazioni con i due paesi? Forse la Germania?3 Tutti questi aspetti non vennero chiariti. E ancora una volta, come nella riunione del 7 luglio, alla possibilità di un intervento russo venne dedicata solo un’attenzione superficiale. I commenti di Conrad sulla situazione militare si concentrarono esclusivamente sul piano B dell’Austria, relativo ad uno scenario solo balcanico, piuttosto che sul piano R, che prevedeva la possibilità di un attacco russo alla Galizia austriaca. Tuttavia nessuno dei ministri presenti pensò di chiedere chiarimenti a Conrad su come avrebbe reagito se i russi fossero effettivamente intervenuti, né gli domandò se sarebbe stato facile passare da uno scenario di schieramento a un altro4. Lo sguardo dell’élite politica austriaca era ancora fisso sulla disputa con Belgrado, e non abbracciava problematiche più ampie. Anche quando a Vienna giunse notizia dello straordinario avvertimento di Poincaré a Szapáry, secondo cui la Serbia aveva «amici» – un messaggio che rivelava come la Francia e la Russia avessero armonizzato i loro punti di vista sulla possibile risposta a un’iniziativa austriaca –, Berchtold non prese in considerazione un cambiamento di linea5.
La nota e l’ultimatum furono redatti dal barone Musulin von Gomirje, una figura di rango relativamente basso, consigliere dal 1910 nelle sezioni per la politica ecclesiastica e per l’Asia orientale. Musulin venne incaricato di redigere la bozza dell’ultimatum in considerazione del fatto che aveva fama di saper scrivere con stile eccellente. Era, come scrisse Lewis Namier, «uno di quegli uomini medi, personalmente onesti, in buona fede, che un oscuro destino aveva scelto come pedina per il gioco che sarebbe sfociato nel più grande disastro della storia europea»6. Musulin rifinì il suo testo come un gioielliere fa con una pietra preziosa7. La nota che accompagnava l’ultimatum si apriva ricordando che dopo la crisi per l’annessione della Bosnia, la Serbia aveva promesso di procedere su un «piano di buon vicinato» con l’Austria-Ungheria. Nonostante questo impegno, proseguiva il testo, il governo serbo aveva continuato a tollerare l’esistenza all’interno del suo territorio di un «movimento sovversivo» che aveva patrocinato «atti di terrorismo, con una serie di attentati e di omicidi» – un riferimento un po’ esagerato a una dozzina circa di falliti complotti terroristici organizzati dagli slavi meridionali che avevano preceduto gli omicidi di Sarajevo. Lungi dal tentare di reprimere un simile fenomeno, si affermava, il governo serbo aveva «tollerato le attività criminali di varie società e affiliazioni» e «tutte le manifestazioni che potevano indurre la popolazione serba all’odio della Monarchia e al disprezzo delle sue istituzioni»8. L’indagine preliminare sul complotto per uccidere l’arciduca aveva rivelato che esso era stato pianificato e si era rifornito a Belgrado, e che l’ingresso degli attentatori in Bosnia era stato facilitato da funzionari di frontiera della Serbia. Non era quindi più tempo di un atteggiamento indulgente come quello che fino ad allora la monarchia aveva mostrato nei suoi rapporti con la Serbia. L’ultima parte della lettera affermava che il governo di Belgrado doveva affiggere un avviso pubblico nei territori del regno (di cui si forniva il testo) per ripudiare l’irredentismo panserbo.
Forse la caratteristica più importante di questo testo, che rappresentò la base della lettera che sarebbe stata inviata alle altre potenze quando cinque giorni dopo l’Austria dichiarò guerra a Belgrado, è che non asseriva l’esistenza di una diretta complicità da parte dello Stato serbo negli omicidi di Sarajevo, ma conteneva la più modesta affermazione che le autorità serbe avevano «tollerato» le organizzazioni e le attività che avevano portato agli omicidi. Queste espressioni attentamente soppesate erano in parte un semplice riflesso delle conoscenze ancora incerte di cui gli austriaci disponevano. Il ministero degli Esteri a Vienna aveva inviato il consigliere di sezione Friedrich von Wiesner a Sarajevo per collazionare ed esaminare la documentazione disponibile sul contesto in cui si era sviluppato il complotto. Il 13 luglio, dopo una scrupolosa indagine, Wiesner inoltrò una relazione in cui concludeva che non c’erano ancora elementi tali da provare una responsabilità o una complicità da parte del governo di Belgrado9. Questa relazione sarebbe stata in seguito citata da quanti affermarono che l’Austria, essendo decisa ad entrare in guerra, aveva semplicemente usato i fatti di Sarajevo come un pretesto. Come poi Wiesner spiegò allo storico americano Bernadotte Everly Schmitt, il suo telegramma era stato «ampiamente frainteso»:
Personalmente [ricordò Wiesner], a quel tempo era convinto dagli elementi raccolti dall’indagine della responsabilità morale del governo serbo per il delitto di Sarajevo, ma poiché non si trattava di prove tali da poter essere accettate da un tribunale, non aveva intenzione che venissero utilizzate nell’accusa formale contro la Serbia. Questo lo aveva chiarito, disse, quando ritornò a Vienna10.
Poiché gli austriaci erano determinati a rendere la loro accusa il più possibile stringente dal punto di vista giuridico, non si poteva assolutamente pensare di addurre una diretta colpevolezza dello Stato serbo nei delitti di Sarajevo. Nella documentazione relativa alla preparazione e all’addestramento dei giovani attentatori e al loro attraversamento della frontiera serba c’erano elementi sufficienti solo a confermare il coinvolgimento di vari organismi statali subordinati. Nel cercare di individuare le nebulose strutture di Narodna Odbrana, inoltre, gli austriaci avevano mancato di indagare la molto più importante Mano Nera, le cui reti erano profondamente inserite nello Stato serbo. Non erano stati capaci di seguire la pista che portava ad Apis, né di definire chiaramente la questione della conoscenza preventiva della cospirazione da parte del governo serbo, forse perché Biliński, imbarazzato per aver omesso di riferire a Berchtold della sua breve conversazione con l’ambasciatore serbo, successivamente mantenne il segreto su tutto l’episodio. Se avessero avuto conoscenze più complete, senza dubbio gli austriaci si sarebbero sentiti ancor più giustificati ad assumere le misure che avevano progettato. Per il momento, l’infamia del processo Friedjung, che era già stato impugnato dai russi e dai francesi come argomento per rifiutare le richieste di Vienna, costrinse coloro che avevano predisposto il testo dell’ultimatum a limitare quanto vi era espresso a quello che poteva essere provato al di là di ogni dubbio sulla base delle informazioni che erano già emerse dall’indagine di Sarajevo.
Il testo proseguiva quindi con le dieci richieste dell’ultimatum vero e proprio. I primi tre punti si concentravano sulla repressione degli organi irredentisti e della propaganda antiaustriaca che essi promuovevano. I punti 4, 6 e 8 si riferivano alla necessità di agire contro le persone implicate nell’attentato di Sarajevo, compresi il personale militare e gli ufficiali di frontiera che avevano sostenuto «il complotto del 28 giugno» e si trovavano «in territorio serbo». Il punto 7 era più specifico: chiedeva l’arresto «d’urgenza» del maggiore Voja Tankosić e di Milan Ciganović. Il primo era, all’insaputa degli austriaci, un agente della Mano Nera vicino ad Apis; era lui ad aver reclutato i tre giovani che formarono il nucleo fondamentale della squadra omicida. Ciganović era noto agli austriaci solo come «un dipendente dello Stato serbo compromesso dai risultati dell’istruttoria di Sarajevo», ma era pure, secondo la successiva testimonianza di Ljuba Jovanović, un esponente della Mano Nera che lavorava anche come agente segreto per Pašić11. Il punto 9 chiedeva che Belgrado fornisse a Vienna spiegazioni in merito alle «ingiustificabili dichiarazioni di alti funzionari serbi, sia in Serbia che all’estero, i quali, nonostante la loro posizione ufficiale, non hanno esitato dopo l’attentato del 28 giugno ad esprimersi in interviste in modo ostile verso la monarchia austro-ungarica». Questo punto si riferiva fra le altre cose alle interviste rilasciate da Spalajković a San Pietroburgo; esso ci ricorda anche quanto gli atteggiamenti austriaci fossero profondamente influenzati dalle reazioni della Serbia all’attentato. Il punto 10 chiedeva semplicemente una notifica ufficiale «senza ritardo» delle misure intraprese per adempiere ai precedenti punti.
I punti più controversi erano il 5 e il 6. Il 5 chiedeva al governo di Belgrado di «accettare la collaborazione in Serbia di organi dell’Imperiale e regio governo [dell’Austria-Ungheria] per la repressione del movimento sovversivo diretto contro l’integrità territoriale della Monarchia»; il punto 6 affermava che «organismi delegati» dall’Austria-Ungheria avrebbero «preso parte alle indagini» relative alle complicità nel crimine. Come di consueto, a Vienna questo documento era stato composto da diverse mani, ma era stato Berchtold ad insistere per introdurvi un riferimento al coinvolgimento austriaco12. La ragione di ciò è abbastanza ovvia: Vienna non si fidava che le autorità serbe avrebbero proseguito le indagini senza una qualche forma di supervisione e di verifica da parte dell’Austria. E si deve dire che niente di quello che il governo serbo fece fra il 28 giugno e la presentazione dell’ultimatum dette agli austriaci motivo per pensare altrimenti.
Era una richiesta inconciliabile con la sovranità serba, che già a Parigi, a San Pietroburgo e a Belgrado era stata individuata come un meccanismo potenzialmente in grado d’innescare uno scontro più ampio. Ci si può legittimamente domandare, naturalmente, se uno Stato può essere ritenuto responsabile per azioni compiute da privati cittadini che siano state pianificate all’interno del suo territorio. Ma affrontare la questione nei termini dell’inviolabilità della sovranità serba distorceva in qualche modo il quadro. In primo luogo, c’era il problema della reciprocità. Lo Stato serbo – o almeno gli statisti che lo dirigevano – accettò la responsabilità di un’eventuale «riunificazione» di tutti i serbi, compresi quelli che vivevano nei territori della duplice monarchia austro-ungarica. Ciò comportava almeno un riconoscimento limitato dei diritti sovrani dell’Impero nelle terre irredente «serbe». C’era poi il fatto che lo Stato serbo, sotto la guida di Pašić, poteva esercitare solo un controllo molto limitato sulle reti irredentiste. La compenetrazione delle reti cospirative con lo Stato serbo, e le affiliazioni transnazionali dell’irredentismo etnico, rendevano insensato qualsiasi tentativo di comprendere la frizione tra la Serbia e l’Austria-Ungheria nei termini di un’interazione fra due Stati territoriali sovrani. E naturalmente gli organi transnazionali e il contesto giuridico che oggi svolgono una funzione arbitrale in simili conflitti e verificano l’applicazione delle loro soluzioni non esistevano.
Quando Grey vide il testo integrale dell’ultimatum austriaco, lo descrisse, con un’espressione poi divenuta famosa, come «il documento più impressionante che avesse mai visto indirizzare da uno Stato a un altro Stato indipendente»; in una lettera a sua moglie, Winston Churchill descrisse la nota come «il documento nel suo genere più insolente che sia mai stato concepito»13. Non sappiamo quali riferimenti avessero in mente Grey e Churchill, e la specificità della situazione storica generata dai delitti di Sarajevo rende difficile procedere a giudizi comparativi. Ma sarebbe certamente fuorviante pensare alla nota austriaca come a un’anomala regressione a un’era barbarica di un remoto passato, prima dell’ascesa degli Stati sovrani. La nota austriaca era molto più blanda, ad esempio, dell’ultimatum che venne presentato alla Serbia-Jugoslavia con l’accordo di Rambouillet redatto nel febbraio e nel marzo del 1999 per costringere i serbi ad accettare la politica della Nato in Kosovo, in cui erano contenute disposizioni come questa:
Il personale della Nato disporrà, oltre che dei suoi veicoli, imbarcazioni, aerei ed equipaggiamenti, di libero e illimitato passaggio e di accesso senza impedimenti all’ex Repubblica di Jugoslavia, ivi compresi lo spazio aereo e le acque territoriali connessi. Ciò includerà, in modo non limitativo, il diritto di bivacco, manovra, accantonamento e utilizzazione di qualsiasi area o struttura sia necessaria per attività di supporto, addestramento e per l’effettuazione di operazioni14.
Henry Kissinger aveva senza dubbio ragione nel descrivere l’accordo di Rambouillet come «una provocazione, una scusa per dare avvio ai bombardamenti», poiché le sue condizioni erano inaccettabili anche per il più moderato dei serbi15. Le richieste dell’Austria nel 1914, al confronto, impallidiscono.
L’ultimatum di Vienna venne certamente redatto in base al presupposto che probabilmente i serbi non l’avrebbero accettato. Non si trattava di un estremo tentativo di salvare la pace fra due Stati confinanti, ma di una categorica dichiarazione della posizione austriaca. D’altra parte, non era, come nel caso dell’accordo di Rambouillet, una richiesta di totale prostrazione dello Stato serbo; le sue clausole si concentravano con precisione sulla minaccia posta dall’irredentismo serbo alla sicurezza austriaca, e perfino i punti 5 e 6 riflettevano le preoccupazioni per un mancato adempimento da parte della Serbia, che gli estensori avevano motivo di ritenere fondate. Occorre ricordare che ancora il 16 luglio, quando il rappresentante britannico Dayrell Crackanthorpe disse a Slavko Grujić, segretario generale del ministero degli Esteri a Belgrado, che avrebbe potuto essere opportuno aprire un’indagine indipendente serba sui delitti, Grujić aveva insistito sull’«impossibilità di adottare qualsiasi specifica misura prima di sapere quali fossero stati i risultati dell’inchiesta di Sarajevo». Una volta pubblicato il rapporto, il governo serbo avrebbe acconsentito a «qualsiasi richiesta di ulteriori indagini che le circostanze possano richiedere e che sia compatibile con gli usi internazionali». Se le cose fossero andate per il peggio, aggiunse minacciosamente Grujić, «la Serbia non sarebbe sola. La Russia non se ne starebbe tranquilla se la Serbia fosse attaccata senza ragione»16. Queste fumose formulazioni indicavano che le possibilità che la Serbia aderisse senza l’uso della forza alle richieste di un vicino ostile erano effettivamente esigue. Era stato proprio alle questioni dell’applicazione e del rispetto delle misure stabilite che nel 1912 il governo serbo aveva fatto riferimento nella sua circolare alle potenze per giustificare l’attacco agli Stati balcanici dell’Impero ottomano. Il fatto che i turchi avessero ripetutamente evitato di affrontare l’esigenza di riforme in Macedonia, si sosteneva, aveva comportato che il loro rifiuto di accettare qualsiasi forma di «partecipazione straniera» a tali riforme e la loro promessa «di introdurre autonomamente serie riforme» venissero accolti «in tutto il mondo» con una «sfiducia profondamente radicata»17. Si può dubitare che nel 1914 qualcuno a Belgrado notasse l’analogia.
La mattina del 23 luglio, il rappresentante diplomatico austriaco barone Giesl telefonò al ministero degli Esteri a Belgrado per informarlo che quella sera Vienna avrebbe consegnato un’«importante comunicazione» per il primo ministro serbo. Pašić era fuori Belgrado, in campagna elettorale; incaricato di sostituirlo durante la sua assenza era il ministro delle Finanze Lazar Paču. Quando ricevette il preannuncio della consegna della nota, Paču riuscì a raggiungere telefonicamente Pašić, che si trovava a Niš. Nonostante le suppliche dei suoi ministri, il capo del governo rifiutò di rientrare nella capitale. Le sue istruzioni furono: «Ricevete voi [Giesl] al mio posto». Quando Giesl comparve di persona al ministero, alle sei del pomeriggio (come si ricorderà la scadenza era stata posticipata di un’ora), venne ricevuto da Paču e da Grujić, al quale era stato chiesto di prendere parte all’incontro perché il ministro delle Finanze non parlava francese.
Giesl consegnò a Paču l’ultimatum, un allegato di due pagine e una nota di accompagnamento indirizzata a Paču in qualità di facente funzione di primo ministro, e lo informò che il tempo concesso per una risposta era esattamente di quarantotto ore. Quando tale termine fosse scaduto, nel caso in cui non vi fosse stata risposta o ve ne fosse stata una insoddisfacente, Giesl avrebbe rotto le relazioni diplomatiche e fatto ritorno a Vienna con tutto il personale della legazione. Senza aprire il dossier, Paču rispose che poiché si era in pieno periodo elettorale e molti ministri erano fuori Belgrado, sarebbe stato fisicamente impossibile riunire i responsabili dei dicasteri in tempo utile per assumere una decisione. Giesl replicò che «nell’epoca delle ferrovie e dei telegrafi e in un paese di queste dimensioni il ritorno dei ministri può essere questione di poche ore». In ogni caso, aggiunse, «si trattava di una questione interna del governo serbo, su cui non occorreva che egli [Giesl] si pronunciasse»18. Il dispaccio telegrafico che Giesl inviò a Vienna si chiude con queste parole: «non vi è stata ulteriore discussione», ma nelle conversazioni tenute nel dopoguerra con lo storico italiano Luigi Albertini, Giesl ricordò che Paču si mostrò esitante, dicendo che non poteva accettare la nota. Il diplomatico austriaco gli replicò che in quel caso l’avrebbe messa sul tavolo e a quel punto Paču avrebbe potuto farne «quello che voleva»19.
Non appena Giesl fu partito, Paču riunì i ministri serbi ancora presenti nella capitale e procedette assieme a loro alla lettura del testo. Paču in particolare fu scioccato perché si era aspettato, nonostante tutta l’evidenza del contrario, che alla fine la Germania avrebbe trattenuto gli austriaci dal compiere qualsiasi passo che «potesse trascinare anch’essa nella guerra». Per un po’ i presenti studiarono la nota in un «silenzio mortale, perché nessuno osava essere il primo ad esprimere i propri pensieri». Il primo a parlare fu il ministro dell’istruzione Ljuba Jovanović, che percorse diverse volte la stanza avanti e indietro e poi dichiarò che non restava altro che «combattere valorosamente»20.
Dopo di che vi fu uno strano intervallo. Vista l’estrema importanza della nota, era chiaro a tutti i presenti che Pašić doveva tornare immediatamente a Belgrado. Il primo ministro aveva dedicato la mattina a fare campagna elettorale a Niš, nella Serbia meridionale, in vista delle elezioni del 14 agosto. Dopo aver tenuto un discorso, sembrò perdere improvvisamente interesse per la campagna. «Sarebbe giusto che ci riposassimo un po’», disse a Šajinović, il direttore politico del ministero degli Esteri, che era in viaggio con lui. «Cosa pensi di una partenza per Salonicco [annessa alla Grecia con il Trattato di Bucarest nel 1913], dove potremmo rimanere in incognito due o tre giorni?». Mentre i due attendevano che la carrozza speciale predisposta per il primo ministro venisse attaccata al treno per Salonicco, Pašić venne informato da un addetto della stazione che c’era una telefonata urgente per lui da Belgrado. Era Lazar Paču, che gli implorava di rientrare nella capitale. Pašić non aveva alcuna intenzione di affrettarsi. «Ho risposto a Laza che egli doveva ricevere la nota; quando io sarò di nuovo là [a Belgrado] risponderemo. Laza mi ha detto che da quanto egli aveva appreso questa non doveva essere una nota ordinaria. Ma io sono rimasto fermo alla mia risposta». Sicuramente, lui e presero posto sul treno per Salonicco. Solo quando il convoglio giunse a Lescovac, a circa cinquanta chilometri a sud di Niš, il primo ministro venne convinto a rientrare da un telegramma del principe reggente Alessandro21.
Era un comportamento bizzarro, ma per lui non del tutto insolito. Possiamo ricordare a tale proposito che nell’estate del 1903, quando i particolari dell’assassinio di re Alessandro e della regina Draga gli vennero comunicati in anticipo dai regicidi, Pašić aveva reagito portando la sua famiglia in treno sulla costa adriatica, quindi in un territorio soggetto al governo austriaco, dove poté restare in attesa delle conseguenze. Che cosa esattamente avesse in mente quel pomeriggio del 23 luglio è impossibile stabilirlo. Forse, come ha ipotizzato Albertini, sperava semplicemente di evitare la pesante responsabilità di accettare la nota. È abbastanza interessante che Berchtold fosse venuto a sapere da non precisati canali segreti che Pašić aveva l’intenzione di dimettersi nel momento stesso in cui l’avesse ricevuta22. Forse fu solo preso dal panico, oppure sentì il bisogno di chiarirsi le idee e di riflettere sulle possibili opzioni. Gli impegni legati alle elezioni politiche, a cui si accompagnava la più grande crisi della storia della Serbia moderna, lo avevano senza dubbio messo notevolmente sotto pressione. Comunque sia, il momento passò, e il primo ministro e il direttore politico arrivarono a Belgrado il 24 luglio, alle cinque del mattino.
Ci volle poco tempo perché la risposta serba all’ultimatum prendesse forma. La sera del 23 luglio, mentre Pašić era in viaggio per rientrare nella capitale, Paču inviò una nota circolare alle legazioni serbe affermando che le richieste contenute nella nota austriaca erano «tali che nessun governo serbo avrebbe potuto accettarle nella loro interezza». Paču confermò questa impostazione quando fece visita all’incaricato d’affari Strandmann, il quale, dopo la morte di Hartwig, stava svolgendo le funzioni di capo della sede diplomatica russa. Dopo che Paču se ne fu andato, comparve il principe Alessandro, per discutere della crisi con Strandmann. Anch’egli sostenne che l’accettazione dell’ultimatum era «assolutamente impossibile per uno Stato che abbia il minimo riguardo per la propria dignità», e aggiunse che riponeva la sua fiducia nella magnanimità dello zar di Russia, «la cui potente parola sola potrebbe salvare la Serbia». Il mattino seguente, di buon’ora, fu la volta di Pašić ad incontrarsi con Strandmann. Il primo ministro serbo sostenne che la Serbia non avrebbe potuto né accettare né respingere la nota austriaca, e doveva immediatamente cercare di posticipare il termine per la risposta. Si sarebbe dovuto rivolgere un appello alle potenze per proteggere l’indipendenza della Serbia. «Ma», aggiunse Pašić, «se la guerra è inevitabile, combatteremo»23.
Tutto ciò potrebbe far pensare che la dirigenza politica serba arrivò quasi immediatamente ad una posizione unanime, secondo cui la Serbia doveva resistere e, se necessario, entrare in guerra. Ma queste dichiarazioni furono tutte riferite da Strandmann. È probabile che il desiderio di ottenere il sostegno della Russia spingesse i ministri presenti a Belgrado a insistere sull’impossibilità di un’accettazione. Altre testimonianze indicano che, fra di loro, coloro che avevano la responsabilità delle decisioni erano profondamente allarmati di fronte alla prospettiva di un attacco austriaco, e non vedevano alternative a un’accettazione dell’ultimatum24. Il ricordo delle vicende dell’ottobre 1913, quando Sazonov aveva consigliato a Belgrado di cedere di fronte a un ultimatum austriaco sull’Albania, era ancora abbastanza fresco per suscitare dubbi sulla possibilità che la Russia appoggiasse la Serbia nella crisi attuale. Accertarsi dell’atteggiamento della Francia era difficile, poiché i principali responsabili della politica francese erano in viaggio per rientrare in patria dalla Russia, e l’inviato francese Descos, che da qualche tempo aveva mostrato segni di stress, era crollato ed era stato richiamato a Parigi, e il suo sostituto non era ancora arrivato.
Nella prima riunione ministeriale convocata da Paču la sera del 23 luglio non era stata raggiunta alcuna decisione, e la situazione rimase irrisolta dopo il ritorno di Pašić il mattino seguente. Pašić stabilì semplicemente che non si dovesse prendere alcuna decisione finché i russi non avessero reso nota la loro posizione. Oltre ai colloqui con Strandmann, che furono com’è ovvio riferiti immediatamente a San Pietroburgo, ci furono due richieste ufficiali di chiarimenti. Pašić telegrafò a Spalajković chiedendogli di accertare quali fossero le idee del governo russo. Lo stesso giorno, il principe reggente Alessandro inviò un telegramma allo zar affermando che la Serbia «non potrebbe difendersi» e che il governo di Belgrado era pronto ad accogliere tutti i punti dell’ultimatum «la cui accettazione sarà raccomandata da Vostra Maestà»25. Lo storico italiano Luciano Magrini, che intervistò i principali responsabili della politica serba e altri testimoni degli eventi belgradesi di quei giorni, ne trasse la conclusione che il governo di Belgrado aveva in effetti deciso di accettare l’ultimatum e di evitare la guerra. «Si riteneva che, sotto il peso della grave minaccia e nella dichiarata impossibilità di sostenere un attacco austriaco, la Serbia avrebbe dovuto [...] accettare integralmente l’ultimatum austriaco, evitando in tal modo la guerra»26. Fu evidentemente con un atteggiamento di rassegnazione che Pašić compose il suo telegramma del 25 luglio indirizzato alle missioni serbe, dichiarando che Belgrado intendeva dare una risposta che fosse «conciliante su tutti i punti» e offrire a Vienna «piena soddisfazione»27. Si trattava senza ombra di dubbio di un netto passo indietro rispetto alla circolare molto più decisa inviata da Paču due giorni prima. Un telegramma di Crackanthorpe a Grey, inviato poco dopo mezzogiorno del 25 luglio, conferma che a quel punto i serbi erano perfino disposti ad accettare i famigerati punti 5 e 6, con i quali si chiedeva la costituzione di una commissione congiunta d’inchiesta, «a condizione che si possa provare che la nomina di tale commissione sia conforme all’uso internazionale»28.
È possibile che le rassicurazioni russe irrigidissero la posizione dei serbi. Intorno alle otto e trenta del 23 luglio, arrivò un telegramma inviato da Spalajković la sera prima, in cui si riferiva della sua conversazione con Poincaré nel corso della visita di Stato. Il presidente francese aveva chiesto all’inviato serbo se ci fossero notizie da Belgrado, e ricevuta la risposta che la situazione era pessima, aveva affermato: «Vi aiuteremo a migliorarla»29. Era gratificante, ma non c’era niente di sostanziale. Alla mezzanotte circa del 24 luglio, giunse a Belgrado un telegramma con cui si diceva che era attesa «da un momento all’altro un’energica decisione»30.
I più importanti dispacci di Spalajković furono due telegrammi inviati la notte fra il 24 e il 25 luglio, in cui si riportavano i particolari di un colloquio con Sazonov avvenuto un po’ prima delle sette del pomeriggio del 24 luglio, e nel corso del quale il ministro degli Esteri russo aveva aggiornato il diplomatico serbo sui risultati di una riunione del Consiglio dei ministri tenutasi alle tre del pomeriggio stesso. Spalajković riferì che il ministro degli Esteri russo aveva «condannato con disgusto l’ultimatum austro-ungarico», dichiarando che nessuno Stato avrebbe potuto accettare simili richieste senza «suicidarsi». Sazonov aveva assicurato a Spalajković che la Serbia poteva «contare in via ufficiosa sul sostegno russo», ma non aveva specificato quale forma questo aiuto avrebbe assunto, perché si trattava di questioni che avrebbe «dovuto decidere lo zar» e su cui occorreva «consultarsi con la Francia». Nel frattempo, la Serbia avrebbe dovuto evitare qualsiasi provocazione non necessaria. Se il paese avesse subito un attacco e fosse stato incapace di difendersi, avrebbe dovuto in primo luogo ritirare le sue forze armate verso sud-est, nell’interno31. Lo scopo non era accettare un’occupazione austriaca, bensì tenere gli eserciti serbi pronti per un successivo schieramento. Il secondo telegramma di quella notte, inviato alle 1.40 del 25 luglio, riferiva che il Consiglio dei ministri russo aveva deciso di assumere «misure energiche, perfino la mobilitazione» e che era in procinto di annunciare con un «comunicato ufficiale» che la Russia prendeva la Serbia sotto la propria protezione32.
Alle otto di sera del 25 luglio, Spalajković spedì un altro dispaccio riferendo di aver parlato con l’addetto militare serbo, il quale era appena tornato dalla residenza dello zar a Carskoe Selo. L’addetto aveva parlato con il capo di stato maggiore russo, e disse a Spalajković che il Consiglio militare aveva mostrato «la più grande disponibilità alla guerra» ed era deciso a «fare qualsiasi cosa per proteggere la Serbia». Lo zar, in particolare, aveva sorpreso tutti con la sua determinazione. Inoltre, era stato dato l’ordine che alle sei esatte del pomeriggio, alla scadenza dell’ultimatum, tutti i cadetti dell’ultimo anno presenti in Russia venissero promossi al grado di ufficiale, un chiaro segnale di un’imminente piena mobilitazione. «In tutti gli ambienti, senza eccezione, regna la più grande determinazione e la più grande esultanza per la posizione adottata dallo zar e dal suo governo»33. Altri dispacci parlavano delle misure militari che erano già in atto, dell’atmosfera di «orgoglio e [di disponibilità] ad ogni sacrificio» che pervadeva gli ambienti governativi e la sfera pubblica, e dell’emozione con cui era stata accolta la notizia proveniente da Londra che la flotta britannica era stata messa in stato di allerta34.
Furono probabilmente queste notizie a dissolvere l’atteggiamento fatalista che si era diffuso a Belgrado, e dissuasero i ministri serbi dal tentare di evitare la guerra accettando le richieste dell’ultimatum35. Il telegramma di Spalajković del 24 luglio che riferiva delle vaghe rassicurazioni di Sazonov sul sostegno russo arrivò a Belgrado il giorno dopo, in due parti, la prima alle 4.17 del mattino, la seconda alle 10. Il telegramma che accennava alla mobilitazione russa arrivò alle11.30 dello stesso giorno, in tempo per essere consegnato ai ministri serbi prima che redigessero la loro risposta alla nota austriaca36.
Nonostante l’irrigidirsi del loro atteggiamento, i ministri serbi fecero uno sforzo immenso per limare la loro risposta a Vienna in modo da dare l’impressione di offrire la massima accondiscendenza senza tuttavia compromettere la sovranità del loro paese. Pašić, Ljuba Jovanović e la maggior parte dei ministri in quel momento presenti a Belgrado, fra i quali quelli dell’Interno, dell’Economia e della Giustizia (Stojan Protić, Velizar Janković e Marko Djuričić), intervennero nel corso delle numerose redazioni del testo. Slavko Grujić, segretario generale del ministero degli Esteri, avrebbe in seguito descritto a Luigi Albertini la febbrile attività che precedette la presentazione della risposta. Nel corso del pomeriggio del 25 luglio furono approntate numerose bozze, poiché i ministri intervennero a turno per aggiungere o rimuovere vari passaggi; anche la versione finale era così piena di modifiche, inserimenti e cancellature da risultare praticamente illeggibile.
Finalmente, dopo le ore 16 il testo parve definitivo e si tentò di farne delle copie a macchina, ma il dattilografo, poco esperto, era molto nervoso, e dopo alcune righe la macchina da scrivere non funzionò più, cosicché si dovette stendere la risposta a mano, con inchiostro ectografico, e provvedere a farne delle copie con la gelatina. [...] Febbrile fu il lavoro dell’ultima mezz’ora; la risposta venne corretta qua e là a penna. Un’intera frase, posta fra parentesi, venne cancellata con inchiostro e resa illeggibile. Alle 17.45 Grujić consegnò a Pašić il testo della risposta chiuso in una busta37.
Pašić aveva sperato che Grujić o qualche altra figura minore comunicasse la risposta al barone Giesl, ma quando nessuno si fece avanti, disse: «Ebbene, gliela porterò io», scese le scale e si diresse a piedi all’incontro con Giesl, mentre i ministri e i funzionari corsero tutti a prendere il treno per Niš, dove il governo serbo si stava trasferendo in preparazione del conflitto ormai imminente.
La risposta serba può essere apparsa confusa, ma in realtà era un capolavoro di evasività diplomatica. Il barone Musulin, che aveva composto il primo abbozzo dell’ultimatum austriaco, la descrisse come «il più brillante esemplare di abilità diplomatica» che avesse mai avuto modo di vedere38. La risposta si apriva con una fiduciosa ostentazione. Il governo serbo, si affermava, aveva dimostrato in molte occasioni nel corso delle guerre balcaniche il suo atteggiamento moderato e pacifico. Infatti, era «grazie alla Serbia e al sacrificio che essa ha fatto nell’esclusivo interesse della pace europea che la pace [era] stata preservata». Gli estensori del testo si dichiaravano quindi sicuri che la loro risposta avrebbe eliminato ogni malinteso fra i due paesi. Poiché il governo non poteva essere considerato responsabile per le azioni commesse da individui privati, e non esercitava un controllo diretto sulla stampa o sulla «pacifica attività di associazioni», era rimasto sorpreso e addolorato per le accuse provenienti da Vienna39.
Nelle loro risposte ai singoli punti, gli estensori offrivano un’astuta miscela di accettazioni, accettazioni condizionate, evasività e dinieghi. Ufficialmente accettavano di condannare ogni forma di propaganda che fosse diretta alla dissoluzione dell’Impero austro-ungarico o all’annessione dei suoi territori (pur avendo cura di parlare in via ipotetica, per evitare di ammettere implicitamente che tale propaganda fosse mai esistita). Sulla questione della repressione delle organizzazioni irredentiste, la risposta affermava che il governo serbo non disponeva «di alcuna prova [...] che la società Narodna Odbrana o altre simili società» avessero fino a quel momento commesso «alcun atto criminale» – ma ciò nonostante, si accettava di sciogliere la stessa Narodna Odbrana e qualsiasi altra società che «possa agire contro l’Austria-Ungheria». Il punto 3 affermava che il governo si impegnava a rimuovere dall’istruzione pubblica serba tutto ciò che potesse servire a fomentare una propaganda contro l’Austria-Ungheria, «quando il Governo I. e R. le fornirà fatti e prove di questa propaganda». Il punto 4 accettava di procedere all’allontanamento dall’esercito e dall’amministrazione di ufficiali e funzionari giudicati colpevoli in base all’inchiesta giudiziaria, quando le autorità austro-ungariche avessero comunicato loro «i nomi e gli atti di questi ufficiali e funzionari». Sul problema della creazione di commissioni d’inchiesta miste austro-serbe (al punto 5), la risposta affermava che il governo serbo «non si rende chiaramente conto del senso e della portata della richiesta», ma che s’impegnava ad accettare tale collaborazione, qualora essa fosse conforme «ai principi del diritto internazionale e alla procedura criminale, nonché ai rapporti di buon vicinato». Il punto 6 (relativo alla partecipazione di funzionari austriaci ai procedimenti giudiziari a carico delle persone implicate) venne respinto nettamente in base alla considerazione che la misura contemplata avrebbe violato la Costituzione serba – era il punto che toccava la sovranità della Serbia, su cui Sazonov aveva sollecitato Belgrado a non cedere. Quanto al punto 7, con cui si chiedeva l’arresto di Tankosić e Ciganović, il governo serbo affermava di avere arrestato il primo «la sera stessa della consegna della nota», mentre non era stato ancora possibile arrestare Ciganović. Ancora una volta, si chiedeva al governo austriaco di fornire gli elementi di «presunzione di colpevolezza nonché le eventuali prove della loro colpevolezza [...] ai fini di ulteriori indagini». Su questo punto la risposta era piuttosto contorta e ambigua: non appena era emersa una connessione fra il nome di Ciganović e l’inchiesta di Sarajevo, la polizia di Belgrado lo aveva spinto ad andare in congedo fuori della capitale, dichiarando al tempo stesso che in città non esisteva alcuna persona di nome Milan Ciganović40. La risposta serba accettava poi senza alcuna condizione i punti 8 e 10 relativi al procedimento giudiziario a carico dei funzionari di frontiera colpevoli di attività illegali e al dovere di riferire al governo austro-ungarico sulle misure adottate. Ma il punto 9, con il quale gli austriaci avevano richiesto spiegazioni per i commenti ostili pronunciati pubblicamente da funzionari serbi nei giorni successivi agli omicidi, ottenne una risposta più equivoca: il governo serbo avrebbe «volentieri» fornito tali spiegazioni, una volta che il governo austriaco gli avesse «indicato i passaggi in questione di quei commenti e quando avesse mostrato che quei commenti erano stati effettivamente pronunciati dai detti funzionari»41.
È difficile dissentire dalla stupita ammirazione di Musulin per questo testo così finemente elaborato. L’affermazione che spesso compare nelle trattazioni generali, secondo cui esso rappresentava una quasi completa capitolazione alle richieste austriache, è profondamente fuorviante. Si trattava di un documento confezionato per gli amici della Serbia, non per il suo nemico. Agli austriaci offriva incredibilmente poco42. E soprattutto, addossava a Vienna l’onere di portare avanti la procedura per aprire l’indagine sul retroterra serbo del complotto, senza, d’altra parte, concedere quel tipo di collaborazione che avrebbe consentito di seguire in modo efficace le piste più rilevanti. In questo senso rappresentava una continuazione della politica che le autorità serbe avevano seguito fin dal 28 giugno: negare con decisione qualsiasi forma di coinvolgimento e astenersi da ogni iniziativa che potesse implicare il riconoscimento di un tale coinvolgimento. Molte delle risposte su punti specifici aprivano la prospettiva di lunghi, lamentosi e con tutta probabilità inutili negoziati con gli austriaci su cosa esattamente potesse costituire «fatti e prove» di una propaganda irredentista o di un’attività cospirativa svolta da ufficiali e funzionari. Il richiamo al «diritto internazionale», sebbene efficace in termini di propaganda, serviva solo a gettare fumo negli occhi, in quanto per casi del genere non esistevano né una giurisprudenza internazionale né organi internazionali con l’autorità di risolverli in modo giuridicamente valido e vincolante. Tuttavia il testo venne perfettamente tarato perché si presentasse come la voce di statisti ragionevoli e sinceramente perplessi, che si sforzavano di comprendere il senso di richieste oltraggiose e inaccettabili. Era la voce misurata della Serbia politica e istituzionale, che sconfessava qualsiasi legame con la sua gemella panserba espansionista ricorrendo a modalità che avevano profonde radici nella storia delle relazioni serbe con l’estero. Essa fu naturalmente sufficiente a convincere gli amici della Serbia che di fronte a una simile piena capitolazione, Vienna non avesse alcun fondato motivo per passare all’azione.
In realtà, quindi, sulla maggior parte dei punti si trattò di un rifiuto, seppur presentato diversamente. E ci si può a buon diritto chiedere se Pašić avesse davanti a sé altre possibilità, una volta che, rifiutandosi di prendere l’iniziativa di chiudere le organizzazioni irredentiste, aveva consentito che la crisi giungesse fino a quel punto. Abbiamo analizzato nel capitolo 1 le varie possibili ragioni della singolare passività mostrata dal primo ministro dopo il 28 giugno – la sua persistente vulnerabilità dopo i recenti scontri con il partito militare e con la rete della Mano Nera, le consuetudini profondamente radicate di reticenza e di segretezza che aveva acquisito nel corso di trent’anni passati in una pericolosa posizione di vertice nella politica serba, e la sostanziale simpatia ideologica che lui e i suoi colleghi nutrivano per la causa irredentista. A ciò si può aggiungere un’ulteriore considerazione. Pašić doveva avere delle buone ragioni per temere qualsiasi approfondita indagine sul delitto, perché ciò avrebbe senz’altro potuto portare alla luce legami che conducevano al cuore stesso dell’élite politica serba. Tutto quello che si sarebbe potuto scoprire sulle macchinazioni messe in atto da Apis avrebbe, per non dire altro, danneggiato la causa di Belgrado.
Molto più preoccupante era però la possibilità che le ricerche e le indagini a proposito dell’agente Ciganović, il quale faceva il doppio gioco ed era stato individuato come sospetto dagli austriaci, avrebbero potuto rivelare che Pašić e i suoi ministri erano al corrente in anticipo della vicenda, circostanza che il primo ministro aveva negato con forza nella sua intervista del 7 luglio al giornale «Az Est» (La Sera). In un certo senso, forse, gli austriaci stavano veramente chiedendo l’impossibile, e in particolare che la Serbia ufficiale che compariva sulla carta politica ponesse fine alla Serbia etnica espansionista dell’irredentismo. Il problema era che le due Serbie erano interdipendenti e inseparabili, due parti di una stessa entità. Nella sede del ministero della Guerra di Belgrado, luogo ufficiale quanti altri mai, di fronte alla principale stanza di ricevimento era appesa l’immagine di un paesaggio serbo, davanti a cui era rappresentata una figura allegorica femminile sul cui scudo erano elencate le «province ancora da liberare»: la Bosnia, l’Erzegovina, la Vojvodina, la Dalmazia e via dicendo43.
Ancor prima che gli venisse consegnata la risposta, Giesl sapeva che l’accettazione dell’ultimatum non sarebbe stata incondizionata. Già alle tre di quel pomeriggio in Serbia era stato infatti emanato l’ordine di mobilitazione generale, la guarnigione cittadina era andata in gran fretta e rumorosamente ad occupare le alture nei dintorni della città, la Banca Nazionale e gli archivi statali erano stati evacuati da Belgrado per trasferirli nell’interno del paese e il corpo diplomatico si stava già preparando a seguire il governo nella sua sede provvisoria di Kragujevac, sulla strada per Niš44. Uno dei ministri coinvolti nella redazione della risposta fece anche filtrare un avvertimento confidenziale45. Cinque minuti prima della scadenza dell’ultimatum, alle 5.55 del pomeriggio di sabato 25 luglio, Pašić si presentò alla legazione austriaca e consegnò la nota, dicendo in un tedesco incerto (non parlava francese): «Abbiamo accettato una parte delle vostre richieste [...] quanto al resto riponiamo le nostre speranze nella vostra lealtà e cavalleria come generale austriaco», e se ne andò. Giesl gettò uno sguardo sdegnoso al testo, vide che era insoddisfacente, e firmò una lettera scritta in anticipo con cui informava il primo ministro che avrebbe lasciato Belgrado quella sera stessa assieme al personale della legazione. La protezione delle proprietà e dei cittadini austro-ungarici venne formalmente affidata alla legazione tedesca, i codici vennero prelevati dalla stanza blindata e dati alle fiamme, e i bagagli – già preparati – vennero portati fuori per caricarli sulle auto in attesa davanti al portone. Alle 6.30 Giesl, sua moglie e il personale della legazione erano già sul treno che li portava fuori da Belgrado. Dieci minuti dopo, varcavano il confine con l’Austria.
Si era dunque alla guerra? In un curioso telegramma del 24 luglio a Mensdorff, che si trovava a Londra, Berchtold dette istruzioni all’ambasciatore di informare Grey che la nota austriaca non era un formale ultimatum, ma una «iniziativa diplomatica con un limite di tempo», che qualora fosse scaduta senza un risultato soddisfacente avrebbe portato alla cessazione delle relazioni diplomatiche e all’avvio dei necessari preparativi militari. Tuttavia la guerra non era ancora inevitabile: se la Serbia in seguito avesse deciso di cedere, «sotto la pressione dei nostri preparativi militari», continuava Berchtold, le si sarebbe chiesto di pagare un’indennità a favore dell’Austria per i costi sostenuti46. Il giorno seguente, mentre Berchtold era in viaggio verso ovest, diretto a Bad Ischl per incontrarsi con l’imperatore Francesco Giuseppe, fu raggiunto a Lambach da un telegramma inviato da Vienna dal capo della Prima sezione, il barone Karl Macchio. Vi si diceva che l’incaricato d’affari russo a Vienna, Kudašev, aveva presentato una richiesta ufficiale di un rinvio del termine accordato. Nella sua risposta, Berchtold affermò che tale rinvio era impossibile, aggiungendo però che anche dopo la scadenza la Serbia avrebbe sempre potuto evitare la guerra accogliendo le richieste austriache47. Forse queste sue parole riflettevano, come ritenne Albertini, un momentaneo nervosismo48; forse, per altro verso, erano semplicemente un tentativo di prendere tempo – si è visto quanto gli austriaci temessero di trovarsi in ritardo nei preparativi militari, una volta che questi fossero diventati necessari.
A uno sguardo retrospettivo, è chiaro che non c’era molto da ricavare da queste manovre dell’ultimo minuto. Il 26 e il 27 luglio arrivarono dispacci di Spalajković dal tono esultante, con la notizia che i russi stavano mobilitando un esercito di 1.700.000 uomini e progettavano di «cominciare immediatamente una vigorosa offensiva contro l’Austria-Ungheria non appena essa attacchi la Serbia». Lo zar era convinto, riferiva Spalajković il 26 luglio, che i serbi si sarebbero «battuti come leoni» e avrebbero perfino potuto distruggere da soli gli austriaci dalla loro ridotta nell’interno del paese. La posizione della Germania ancora non era chiara, ma anche se i tedeschi non fossero entrati nella lotta, lo zar riteneva che vi fossero buone possibilità per giungere a una «spartizione dell’Austria-Ungheria»; se ciò non fosse avvenuto, i russi avrebbero «messo in esecuzione i piani militari francesi, per cui la vittoria contro la Germania è comunque certa»49.
Spalajković, ex capodipartimento del ministero degli Esteri serbo, era così eccitato da spingersi a proporre una linea politica: «Secondo me, ci si presenta una splendida opportunità per utilizzare questo evento saggiamente e raggiungere la piena unificazione dei serbi. È auspicabile, quindi, che l’Austria-Ungheria ci attacchi. In quel caso, avanti nel nome di Dio!». Queste ottimistiche manifestazioni provenienti da San Pietroburgo contribuirono a irrigidire ulteriormente l’atteggiamento serbo. A questo punto, concessioni dell’ultima ora alle richieste austriache erano inconcepibili. Pašić aveva a lungo creduto che l’unificazione dei serbi non sarebbe stata raggiunta in tempo di pace, che sarebbe stata forgiata soltanto nel fuoco di una grande guerra, e con l’aiuto di una grande potenza. Non si trattava di un vero e proprio piano, che in quanto tale non era mai esistito: era soltanto un futuro immaginato, il cui avvento sembrava ora imminente. Sarebbero passate quasi due settimane prima che si verificasse qualche scontro di una certa importanza, ma la strada che portava alla guerra s’intravedeva già. Per la Serbia, non ci sarebbero stati ripensamenti.
La mattina del 28 luglio 1914, l’imperatore Francesco Giuseppe firmò la dichiarazione di guerra contro la Serbia con una penna di struzzo, seduto alla scrivania del suo studio nella villa imperiale di Bad Ischl. Davanti a lui c’era un busto della moglie defunta, scolpito in un lucido marmo bianco. All’altezza del suo gomito destro c’erano un moderno accendisigari elettrico e un’ingombrante struttura in bronzo su un piedistallo di legno scuro, il cui filo intrecciato era attaccato a una presa sulla parete dietro la scrivania. Il testo aveva il tono di un manifesto, come quello che gli austriaci avevano utilizzato per dichiarare la guerra alla Prussia nel 1866:
Ai miei popoli! Era mio fervente desiderio consacrare gli anni che, per grazia di Dio, mi rimangono, ad opere di pace ed a proteggere i miei popoli dai pesanti sacrifici e fardelli della guerra. La Provvidenza, nella sua saggezza, ha decretato altrimenti. Gli intrighi di un malevolo avversario mi costringono, per difendere l’onore della mia Monarchia, per la protezione della sua dignità e della sua posizione di potenza, per la sicurezza dei suoi possessi, ad afferrare la spada dopo lunghi anni di pace50.
In quel momento, Belgrado era già una città spopolata. Tutti gli uomini in età da militare erano stati richiamati, e molte famiglie erano andate a rifugiarsi con i parenti nelle zone interne del paese. La maggior parte dei cittadini stranieri era partita. Alle due del pomeriggio del 28 luglio, la voce di una guerra imminente si era propagata come un fuoco di sterpaglie in tutta la città. Le edizioni straordinarie di tutti i giornali andavano esaurite appena i venditori le portavano in strada51. Prima della fine della giornata, due imbarcazioni a vapore che trasportavano lungo il Danubio munizioni e mine erano state catturate da guastatori e sorveglianti austriaci. Poco dopo l’una di notte, truppe serbe fecero saltare il ponte sulla Sava fra Semlin e Belgrado. Le cannoniere austriache aprirono il fuoco, e dopo un breve scontro, i soldati serbi si ritirarono.
La notizia che la guerra era stata infine dichiarata riempì di gioia Sigmund Freud, all’epoca cinquantottenne: egli dichiarò che per la prima volta in trent’anni si sentiva austriaco, e che sentiva di dover concedere all’Impero un’altra possibilità, e affermò: «Tutta la mia libido è rivolta all’Austria-Ungheria»52.
1 Protocolli del Consiglio dei ministri tenutosi a Vienna il 19 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10393, pp. 511-514); Franz Conrad von Hötzendorf, Aus meiner Dienstzeit 1906-1918, 5 voll., Wien 1921-1925, vol. IV, pp. 87-92.
2 La questione venne sollevata nella lettera di Czernin a Berchtold («segretissima»), Sinaia, 27 luglio 1914 (HHS tA, PA I, Liasse Krieg 812, cc. 193-198).
3 Szögyényi al ministero degli Esteri di Vienna, Berlino, 14 luglio 1914 (ivi, c. 446).
4 Ivi, c. 512.
5 Samuel R. Williamson, Austria-Hungary and the Origins of the First Word War, Houndmills 1991, p. 203.
6 Lewis Bernstein Namier, In the Margin of History, London 1939, p. 247.
7 Manfred Rauchensteiner, Der Tod des Doppeladlers. Österreich-Urgarns und der Erste Weltkrieg, Graz 1994, p. 78.
8 Si veda il testo della nota e dell’ultimatum austriaci in ÖUAP, vol. VIII, doc. 10395, pp. 515-517.
9 Wiesner a Berchtold (due telegrammi), Sarajevo, 13 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, docc. 10252 e 12253, pp. 436-437); sull’impatto del rapporto Wiesner, si veda Sidney Bradshaw Fay, The Origins of the First World War, 2 voll., New York 1928, vol. II, pp. 236-239.
10 Bernadotte Everly Schmitt, Interviewing the Authors of the War, Chicago 1930, p. 22.
11 Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914, 3 voll., Milano 1942-1943, vol. II, La crisi del luglio 1914. Dall’attentato di Sarajevo alla mobilitazione generale dell’Austria-Ungheria, pp. 93-101.
12 Musulin aveva redatto il punto 6, che venne rivisto una prima volta da Berchtold, poi ancora da Musulin e infine riformulato da Forgach (ivi, vol. II, pp. 255-256).
13 Grey a Bunsen (ambasciatore a Vienna), che riferisce della sua conversazione con Lichnowsky (BD, vol. XI, doc. 91, pp. 73-74); il giudizio di Churchill è citato in David Fromkin, Europe’s Last Summer. Who Started the Great War in 1914?, New York 2004, p. 184 (trad. it. L’ultima estate dell’Europa. Il grande enigma del 1914: perché è scoppiata la prima guerra mondiale?, Milano 2005, p. 214).
14 Rambouillet Agreement, Interim Agreement for Peace and Self-Government in Kosovo (nel sito internet del dipartimento di Stato degli Usa: http://www.state.gov/www/regions/eur/ksvo_rambouillet_text.html).
15 Ian Bancroft, Serbia’s Anniversary is a Timely Reminder, in «Guardian Unlimited», 24 marzo 2009 (consultato in http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2009/mar/24/serbia-kosovo).
16 Crackanthorpe a Grey, Belgrado, 18 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 80, pp. 64-65).
17 Legazione reale di Serbia, Londra, al ministero degli Esteri olandese, 18 ottobre 1912 (NA, 2.05.3, Ministerie van Buitenlandsa Zaken, doc. 648, Correspondentie over de Balkan-oorlog).
18 Giesl a Berchtold, Belgrado, 23 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10526, p. 596).
19 Albertini, Le origini della guerra del 1914 cit., vol. II, p. 286.
20 Ricordi di Ljuba Jovanović (cit. ivi, vol. II, p. 347).
21 Questi particolari furono raccontati da Grujić (cit. ivi, p. 348).
22 Berchtold a Giesl, Vienna, 23 luglio 1014 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10519, p. 594).
23 Strandmann a Sazonov, 24 luglio 1914 (IBZI, serie 3, vol. V, doc. 35, p. 38).
24 Così secondo la ricostruzione che il colonnello Pavlović fece nel corso di conversazioni con Luciano Magrini nell’ottobre del 1915, durante la ritirata serba: Magrini, Il dramma di Seraievo. Origini e responsabilità della guerra europea, Milano 1929, pp. 203-205.
25 Pašić a Spalajković, Belgrado, 24 luglio 1914 (DSPKS, vol. VII/2, doc. 501); il reggente Alessandro allo zar Nicola II (trascritto in Strandmann a Sazonov, 24 luglio 1914, in IBZI, serie 3, vol. V, doc. 37, p. 39).
26 Magrini, Il dramma di Seraievo cit., pp. 205-206.
27 Pašić alle legazioni serbe all’estero, Belgrado, 25 luglio 1914 (Collected Diplomatic Documents Relating to the Outbreak of the European War, a cura del British Foreign Office, London 1915, pp. 389-390).
28 Crackanthorpe a Grey, Belgrado, ore 12.30, 25 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 114, pp. 87-88).
29 Spalajković a Pašić, San Pietroburgo, inviato alle 18.15 del 22 luglio 1914 (DSPKS, vol. VII/2, doc. 484).
30 Albertini, Le origini della guerra del 1914 cit., vol. II, p. 354.
31 Spalajković a Pašić, San Pietroburgo, inviato alla mezzanotte del 24 luglio 1914 (DSPKS, vol. VII/2, doc. 527).
32 Gale Stokes, The Serbian Documents from 1914: A Preview, in «Journal of Modern History», XLVIII, 1976, pp. 69-84, in particolare p. 72. Spalajković a Pašić, San Pietroburgo, 25 luglio 1914, ore 1.40 (erroneamente datato 24 luglio dai curatori): DSPKS, vol. VII/2, doc. 503.
33 Spalajković a Pašić, San Pietroburgo, ore 20 del 25 luglio 1914 (DSPKS, vol. VII/2, doc. 556).
34 Spalajković a Pašić, San Pietroburgo, ore 15.22 del 25 luglio 1914, e ore 14.55 del 26 luglio 1914 (ivi, docc. 556 e 559).
35 Sull’impatto dei telegrammi provenienti dalla Russia, si veda Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914 cit., vol. II, pp. 354-357; in particolare sul rifiuto di Sazonov dei punti 5 e 6 dell’ultimatum, si veda Magrini, Il dramma di Seraievo cit., p. 206; Stokes, The Serbian Documents cit.; cfr. Mark Cornwall, Serbia, in Decisions for War 1914, a cura di Keith M. Wilson, London 1995, pp. 79-80. Cornwall, la cui analisi degli sviluppi a Belgrado è insuperata, sostiene che il testo dei telegrammi provenienti da San Pietroburgo era troppo generico per convincere Pašić al di là di ogni dubbio che i russi intendevano venire in aiuto alla Serbia. È vero che Sazonov fu vago – come di fatto era tenuto ad essere – sui particolari di quel che la Russia avrebbe fatto e quando, ma personalmente ritengo che il continuo crescendo di indicazioni dei telegrammi di Spalajković dovesse essere sufficiente a rassicurare i governanti che i russi erano in procinto di intervenire. Ma si deve ammettere che la determinazione serba a resistere era forte fin dall’inizio, come si può vedere dal modo con cui Belgrado gestì la crisi fin da quando essa si aprì.
36 Sullo scambio di telegrammi e sui loro orari di arrivo, si veda la nota dei curatori alla comunicazione di Spalajković a Pašić, San Pietroburgo, inviata a mezzanotte del 24 luglio 1914 (DSPKS, vol. VII/2, doc. 527), e Stokes, The Serbian Documents cit.
37 La ricostruzione di Grujić è citata in Albertini, Le origini della guerra del 1914 cit., vol. II, pp. 363-364.
38 Alexander Musulin von Gomirje, Das Haus am Ballhausplatz. Erinnerungen eines österreich-ungarischen Diplomaten, München 1924, p. 241.
39 Il testo della risposta (in francese) è in Note der serbischen Regierung und die Belgrader Gesandtschaft, Belgrado, s.d. ma 25 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10648, pp. 660-663).
40 Miloš Bogičević, Le Procès de Salonique, Juin 1917, Paris 1927, p. 132; Joachim Remak, Sarajevo. The Story of a Political Murder, London 1959, p. 207.
41 Il testo della risposta (in francese) è in Note der serbischen Regierung und die Belgrader Gesandtschaft, Belgrado, s.d. ma 25 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10648, pp. 660-663 [e in Albertini, Le origini della guerra del 1914 cit., vol. II, pp. 365-368]).
42 Roberto Segre, Vienna e Belgrado 1876-1914, Milano [1935], p. 78; si veda anche James Joll, The Origins of the First World War, London 1984, p. 13 (trad. it. Le origini della prima guerra mondiale, Roma-Bari 1985, pp. 18-19); Joachim Remak, 1914-The Third Balkan War: Origins Reconsidered, in «Journal of Modern History», XLIII, 1971, pp. 353-366.
43 Si veda Monarchiefeindliche Bilder im Belgrader Kriegsministerium, una nota inclusa nel dossier inviata alle legazioni austro-ungariche dopo il ricevimento della risposta serba (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10654, pp. 665-704, in particolare p. 704).
44 L’addetto militare di Belgrado al capo di stato maggiore, Belgrado, 25 luglio 1914 (Kriegsarchiv Wien, AOL Evidenzbureau, 3506, 1914, Resumés d. vertraulichen Nachrichten-Italian, Russland, Balkan, ‘B’ [Balkan]); N. Shebeko [Šebeko], Souvenirs. Essai historique sur les origines de la guerre de 1914, Paris 1936, p. 231.
45 La mia narrazione della partenza di Giesl riprende ampiamente da Albertini, Le origini della guerra del 1914 cit., vol. II, p. 374.
46 Berchtold a Mensdorff, Vienna, 24 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10599, p. 636).
47 Macchio a Berchtold, Vienna, 25 luglio 1914; Berchtold a Macchio, Lambach, 25 luglio 1914 (ivi, vol. VIII, docc. 10703 e 10704, pp. 731-732).
48 Albertini, Le origini della guerra del 1914 cit., vol. II, pp. 381 sgg.
49 Spalajković al ministero degli Esteri serbo a Niš, San Pietroburgo, ore 4.10 del 26 luglio 1914 (DSPKS, vol. VII/2, doc. 584).
50 Franz Joseph, The Imperial Rescript and Manifesto, 28 luglio 1914, in Austria-Hungary’s Version of the War, in «New York Times Current History of the European War», 26 dicembre 1914, pp. 223-226, in particolare p. 223 (consultato tramite Periodical Archives Online).
51 Rapaport a Vredenburch, Belgrado, 28 luglio 1914 (NA, 2.05.36, doc. 9, Consulaat-Generaal Belgrado en Gezandschap Zuid-Slavië).
52 Ernest Jones, Sigmund Freud: Life and Work, 3 voll., London 1953-1957, vol. II, p. 192 (trad. it. Vita ed opere di Freud, II. Gli anni della maturità, 1901-1919, Milano 1964, p. 217).