12. Gli ultimi giorni

Una strana luce sulla carta dell’Europa

Per quasi tutta la durata della Crisi di luglio, gli occhi delle autorità londinesi rimasero puntati sulle nove contee dell’Ulster, nel Nord dell’Irlanda. Il 21 marzo del 1914 la Camera dei comuni approvò in terza lettura un disegno di legge che introduceva lo Home Rule per l’Irlanda, ma che venne poi respinto dalla Camera dei Lords. Il governo liberale di Herbert Asquith, che dipendeva dai voti dei nazionalisti irlandesi, decise di avvalersi delle prerogative del Parliament Act, che in tali circostanze consentiva all’esecutivo di aggirare il parere dei Lords e di approvare un disegno di legge mediante il consenso della Corona. Il profilarsi di una parziale devoluzione all’Irlanda cattolica delle funzioni governative suscitò profonde e aspre controversie. La questione più spinosa riguardava l’eventuale scelta delle contee dell’Ulster, di composizione confessionale mista, alle quali lo Home Rule non si sarebbe applicato e che quindi avrebbero potuto rimanere a far parte del Regno Unito. Disperando di trovare una soluzione in grado di soddisfare le rispettive richieste, i cattolici nazionalisti irlandesi e i protestanti unionisti cominciarono a prepararsi alla lotta armata per il potere. In quella primavera, l’Irlanda fu sull’orlo di una vera e propria guerra civile. Fu questo il terreno di coltura dei problemi che da allora avrebbero continuato a tormentare la politica dell’Irlanda del Nord fino ai primi del ventunesimo secolo1.

Le tensioni generate dalla questione irlandese condizionarono profondamente la vita politica del Regno Unito, perché riguardavano l’identità passata, presente e futura della società britannica. Il Partito conservatore (il Conservative and Unionist Party, secondo la denominazione ufficiale) era fieramente contrario allo Home Rule. L’orientamento unionista era molto sentito anche fra gli ufficiali dell’esercito britannico, nel quale molte reclute provenivano da famiglie anglo-irlandesi protestanti, fortemente legate all’Unione. Di fatto, non si poteva essere sicuri che l’esercito sarebbe rimasto fedele se fosse stato chiamato a far entrare in vigore lo Home Rule. Nell’incidente di Curragh del 20 marzo 1914, cinquantasette ufficiali britannici di stanza al Curragh Camp nella contea di Kildare annunciarono che avrebbero rassegnato le loro dimissioni piuttosto che dover imporre l’applicazione dello Home Rule contro la resistenza degli unionisti2.

Fra coloro che all’interno dell’esercito sostennero l’insubordinazione unionista c’era il direttore delle operazioni militari Henry Wilson, che aveva svolto un ruolo di primo piano nell’estendere la portata dei piani di emergenza che la Gran Bretagna avrebbe dovuto applicare nel caso di un intervento continentale. Wilson fece sempre meno sforzi per mascherare il proprio disprezzo per «Squiff» (come chiamava il premier Asquith) e il suo «schifoso gabinetto». Non si fece scrupolo di utilizzare la questione dello Home Rule per ricattare il primo ministro affinché accettasse le richieste degli unionisti. In un memorandum presentato al Consiglio dell’esercito e che doveva essere presentato al governo il 29 giugno 1914, Wilson e i suoi colleghi sostenevano che per imporre lo Home Rule in Irlanda e restaurarvi l’ordine, l’esercito avrebbe avuto bisogno di schierare nell’isola l’intera forza di spedizione britannica3. In altre parole: se il governo britannico voleva imporre il provvedimento, avrebbe dovuto rinunciare a qualsiasi intervento militare in Europa nel prossimo futuro; al contrario, un intervento militare continentale avrebbe comportato la rinuncia all’introduzione dello Home Rule. Ciò a sua volta significava che gli ufficiali di simpatie unioniste – assai numerosi in un corpo di ufficiali dominato da famiglie anglo-irlandesi di religione protestante – tendevano a vedere in un intervento continentale britannico un possibile mezzo per rinviare o impedire del tutto l’introduzione dello Home Rule. In nessun altro paese europeo, con l’unica possibile eccezione dell’Austria-Ungheria, la situazione interna esercitò una pressione così diretta sulle prospettive politiche dei comandanti militari di grado più elevato.

Quando arrivarono le notizie di Sarajevo, l’attenzione del governo britannico era ancora tutta concentrata sull’Ulster. Il primo ministro non teneva un diario, ma la sua corrispondenza intima con la sua giovane amica e anima gemella, Venetia Stanley, un’elegante e intelligente donna di mondo, ha un analogo valore, con le sue sincere e accurate descrizioni delle preoccupazioni quotidiane di Asquith. Le lettere indicano come la morte violenta dei «reali austriaci» avvenuta il 28 giugno non produsse un effetto particolare sulla coscienza politica del primo ministro, che era rivolta completamente alle «cose bizzarre che stanno succedendo riguardo all’Ulster»4. Asquith non fece più alcun riferimento alla situazione internazionale fino al 24 luglio, quando scrisse mestamente che anche un altro giro di contrattazioni sull’Ulster era fallito, affossato dalla complessa geografia confessionale delle contee di Tyrone e Fermanagh. Solo alla fine di una lunga discussione sulle questioni dell’Irlanda settentrionale il primo ministro scrisse che l’Austria aveva appena inviato «un prepotente e umiliante ultimatum alla Serbia, che non può assolutamente accettarlo».

Siamo a una distanza misurabile, o almeno immaginabile da un vero Armageddon, che rimpicciolirà gli Ulster and Nationalist Volunteers alle loro reali proporzioni. Fortunatamente non sembra vi sia ragione per cui dovremo essere qualcosa di più che spettatori5.

Questa lettera si apriva con il sorprendente annuncio che «la luce si è spenta», ma Asquith non si riferiva alla imminente estinzione della civiltà europea, bensì semplicemente alla partenza da Londra di Venetia, che quel mattino si trasferì nella casa di campagna della sua famiglia ad Anglesey.

Per Edward Grey, quelli furono giorni densi di preoccupazioni personali: la sua vista stava peggiorando – gli era sempre più difficile seguire la palla durante le partite di squash, e la notte non riusciva più a distinguere la sua stella preferita. Stava progettando di passare più tempo in campagna, e si parlava di una visita da un rinomato oculista tedesco. Diversamente da Asquith, tuttavia, egli percepì immediatamente la gravità della crisi che stava montando nell’Europa sud-orientale.

Nei colloqui che ebbe nel corso di luglio con gli ambasciatori delle altre potenze a Londra, Grey, come aveva spesso fatto in precedenza, tracciò un percorso tortuoso che evitava accuratamente l’assunzione di impegni diretti. L’8 luglio avvertì Paul Cambon che se l’imperatore asburgico fosse stato costretto dall’opinione pubblica austriaca ad assumere un’iniziativa contro la Serbia, la Francia e la Gran Bretagna avrebbero fatto tutto quello che era in loro potere per indurre San Pietroburgo alla calma; Cambon «approvò calorosamente»6. Quello stesso giorno, Grey ricordò all’ambasciatore russo che a Berlino c’era tensione per i recenti colloqui navali anglo-russi, e che era essenziale che la Russia non desse alla Germania alcun motivo di sospettare che si stava preparando un’azione contro di lei7. Il 9 luglio assicurò l’ambasciatore tedesco, il conte Lichnowsky, che la Gran Bretagna non aveva alcuna intesa segreta e vincolante né con la Francia né con la Russia, aggiungendo però che i rapporti del suo paese con gli alleati dell’Intesa non avevano perso niente della loro «cordialità», e che Lichnowsky doveva essere consapevole che fin dal 1906 c’erano state alcune «conversazioni» fra le varie autorità militari e navali, senza peraltro alcun «intento aggressivo»8.

I colloqui del segretario di Stato agli Esteri con l’ambasciatore austriaco furono formalmente cortesi, ma riservati ed evasivi nella sostanza. Quando il 17 luglio il conte Mensdorff si lamentò con Grey per gli eccessi della stampa di Belgrado, il ministro inglese chiese – piuttosto stranamente – se per caso non ci fosse almeno un giornale serbo che si fosse comportato adeguatamente. Mensdorff concesse che poteva anche essere così, ma proseguì dicendo che la duplice monarchia non poteva continuare a tollerare un livello così intenso di sovversione politica. «Su ciò Sir Edward Grey ha concordato», riferì Mensdorff, «ma non è entrato in ulteriori discussioni sull’argomento»9. Dopo aver ricevuto il testo della nota inviata dall’Austria a Belgrado, il 24 luglio Grey invitò Mensdorff ad andare nuovamente a trovarlo – fu in quell’occasione che descrisse la nota come il più «impressionante» documento del genere che avesse mai visto. Ma perfino in quel caso il segretario agli Esteri ammise che le affermazioni dell’Austria sulla complicità di certi organismi statali serbi e perfino alcune delle richieste contenute nella nota erano «giustificate»10. Quello stesso giorno, dopo essersi assicurato l’approvazione da parte del governo, propose che, qualora fosse scoppiata una contrapposizione fra la Russia e l’Austria, dovessero intervenire di concerto le quattro potenze meno direttamente coinvolte nella disputa, vale a dire la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia e la Germania11.

Niente di tutto ciò fornì una qualsiasi indicazione che Grey avesse intenzione di far entrare il suo paese nel conflitto. Aveva spesso rilevato che l’opinione pubblica (intendendo con ciò essenzialmente la stampa) sarebbe stata in definitiva l’elemento decisivo per un’azione britannica, ma in quella sfera il sostegno ad una prospettiva interventista era scarso. Quasi tutti i maggiori giornali manifestavano avversione per l’ipotesi di una partecipazione britannica ad una guerra europea. Il «Manchester Guardian» dichiarò che la Gran Bretagna non rischiava di essere trascinata nel conflitto austro-serbo da «trattati di alleanza», e fece il famoso annuncio secondo il quale «tanto poco Belgrado si preoccupa di Manchester, tanto poco Manchester si preoccupa di Belgrado». Il 29 luglio, il «Daily News» espresse disgusto per l’idea che delle vite britanniche potessero essere sacrificate a pro «dell’egemonia russa sul mondo slavo»12. Il 1° agosto, il suo direttore, il liberale Alfred George Gardiner, pubblicò un pezzo intitolato Perché non dobbiamo combattere, i cui due argomenti centrali erano che non esisteva alcun fondamentale conflitto d’interessi fra la Gran Bretagna e la Germania, e che sconfiggere la Germania avrebbe di fatto istituito una dittatura della Russia sull’«Europa e sull’Asia». Erano titoli di parte liberale, ma neppure la stampa tory era entusiasta di una possibile guerra. Lo «Yorkshire Post», ad esempio, dubitava del fatto che una vittoria austro-tedesca sull’Alleanza franco-russa avrebbe lasciato l’Inghilterra in condizioni peggiori rispetto all’eventualità di una vittoria della Francia e della Russia, e non vedeva «ragione per cui la Gran Bretagna dovesse entrare» in un conflitto. Il 28 luglio, il «Cambridge Daily News» affermò a sua volta che l’interesse del paese nell’imminente conflitto era trascurabile, e il 31 luglio l’«Oxford Chronicle» annunciò che il dovere del governo era mantenere localizzata la disputa e badare bene a tenersene fuori13. Solo il «Times» argomentò ripetutamente a favore di un intervento britannico: sebbene il 17 luglio Wickham Steed si fosse mostrato moderatamente solidale con la posizione austriaca, fin dal 22 luglio il giornale previde un conflitto continentale, e il 27, 29 e 31 luglio si espresse a favore di un coinvolgimento della Gran Bretagna. Particolarmente veementi furono le tirate del giornalista Horatio Bottomley (un truffatore molto impegnato a promuovere se stesso), il cui editoriale per il proprio giornale «John Bull», nella prima settimana di luglio, si apriva con la frase «Abbiamo sempre guardato alla Serbia come a un focolaio di spietate cospirazioni e inganni», per poi affermare che «la Serbia deve essere spazzata via» e proseguire, senza una logica apparente, raccomandando che il governo britannico «approfitt[asse] della crisi» per «annientare» la flotta tedesca14. Il ministro serbo a Londra, Mateja Bosković, fu così sgomento per gli articoli del «John Bull» da presentare una formale protesta al ministero degli Esteri britannico e da consultare i legali per citare il giornale per le sue «bugie» sulla Serbia15.

Almeno fino all’inizio di agosto, quindi, non si poteva dire che l’opinione pubblica stesse facendo pressioni sul governo britannico a favore di un intervento. Né sembrava probabile che il governo stesso prendesse l’iniziativa. La maggioranza dei ministri era ancora fermamente non interventista. Era la stessa costellazione che aveva prodotto la rivolta della compagine governativa contro la politica di Grey nel novembre del 1911. Questo fu il problema fondamentale con cui Grey si dovette sempre scontrare: che una vasta parte del suo partito non si fidava della sua politica estera. Per qualche tempo aveva potuto contare sul sostegno parlamentare dei conservatori, ma nell’estate del 1914, mentre l’opposizione allo Home Rule era al culmine, anche questa base di consenso appariva fragile. Di fronte a queste pressioni riprese la sua consueta prassi di discutere della situazione internazionale esclusivamente con i suoi compagni di partito liberali Asquith, Haldane e Churchill.

Fu solo nella riunione del governo che si tenne il 24 luglio, dopo lunghe e difficili discussioni sulle minuzie delle circoscrizioni del governo locale nell’Ulster, che Grey sollevò la questione della politica che la Gran Bretagna doveva adottare nella crisi internazionale in atto, proponendo che si formasse un concerto delle quattro potenze meno direttamente coinvolte nella contrapposizione fra Austria e Serbia, con il compito di mediare fra i due antagonisti. Era la prima volta che il gabinetto discuteva di politica estera nell’arco di più di un mese. In un brano un po’ elaborato ma stranamente efficace, Churchill in seguito avrebbe evocato l’emergere nel governo di una prima consapevolezza di quanto importanti fossero le parole pronunciate da Grey: «La visione delle parrocchie di Fermanagh e di Tyrone svaniva sempre più fra le nebbie e le piogge dell’Irlanda ed una luce dapprima incerta e poi sempre più decisa illuminava ai nostri occhi la carta dell’Europa»16. Il governo approvò la proposta di Grey di creare le condizioni per un intervento delle quattro potenze e quindi si sciolse per il fine settimana.

Quando giunse a conclusione la quarta settimana di luglio, Grey cominciò a chiedere con decisione che venissero chiarite le circostanze in presenza delle quali il governo si sarebbe dovuto preparare a intervenire. Lunedì 27 luglio chiese se il gabinetto avrebbe sostenuto l’intervento qualora la Francia fosse stata attaccata dalla Germania. I vecchi oppositori di Grey – Morley, Simon, Burns, Beauchamp e Harcourt – minacciarono tutti di dimettersi immediatamente se fosse stata presa una decisione del genere. In una riunione a tarda notte fra il 29 e il 30 luglio, dopo una lunga discussione nella quale non si era giunti a una risoluzione, Grey spinse perché si promettesse aiuto alla Francia. Solo quattro dei suoi colleghi del governo (compresi Asquith, Haldane e Churchill) appoggiarono la proposta, il resto si oppose.

Perfino la questione del Belgio non sembrava tale da innescare un intervento. Era ampiamente diffusa la convinzione, sia sulla base di informazioni segrete militari assunte dallo stato maggiore francese, sia da un’analisi della situazione militare, che i tedeschi avrebbero raggiunto la Francia attraverso il Belgio, rompendo il trattato internazionale del 1839 che ne garantiva la neutralità. Ma il governo britannico ritenne che, pur essendo la Gran Bretagna uno dei firmatari del trattato, l’obbligo di rispettarlo ricadeva collettivamente su tutti i firmatari, e non singolarmente su ognuno di essi. Se la questione si fosse realmente presentata, si concluse, la reazione britannica sarebbe stata «politica più che conseguente a un obbligo»17. In effetti, colpisce il sangue freddo con cui i capi militari e politici britannici assisterono alla violazione della neutralità belga da parte della Germania. Sulla base dei colloqui fra gli stati maggiori britannico e francese del 1911, Henry Wilson era giunto alla conclusione che i tedeschi avrebbero scelto di attraversare le Ardenne attraverso il Belgio meridionale, concentrando le loro truppe nell’area a sud dei fiumi Sambre e Mosa; queste considerazioni vennero presentate alla 114a sessione del Comitato per la difesa imperiale18. Lo stesso scenario venne preso in esame dal governo il 29 luglio, quando Lloyd George mostrò, usando una carta geografica, per quale motivo era probabile che i tedeschi avrebbero attraversato «solo [...] l’angolo più lontano» del Belgio. Invece di indignarsi per una simile prospettiva, i ministri la accettarono come una misura strategicamente necessaria (dal punto di vista tedesco), e in quanto tale praticamente inevitabile. Le preoccupazioni strategiche britanniche si concentravano principalmente su Anversa e sulla foce della Schelda, che era sempre stata considerata un elemento chiave per la sicurezza britannica. «Non vedo», commentò Churchill, «per quale motivo dovremmo partecipare se attraversano un po’ il Belgio»19. In seguito Lloyd George affermò che egli si sarebbe rifiutato di entrare in guerra se l’invasione del Belgio da parte della Germania si fosse limitata al passaggio attraverso le Ardenne20. I governanti britannici davano in ogni caso per scontato che gli stessi belgi non avrebbero opposto la loro ultima resistenza nel Sud, bensì, dopo aver dato l’impressione di resistere per poter dimostrare di non essere stati loro a consentire la violazione, si sarebbero attestati sulle loro linee fortificate poste più a nord21. In considerazione di ciò, non esisteva un rapporto automatico fra un’invasione tedesca del Belgio e un intervento britannico nel conflitto.

Sarebbe un errore, tuttavia, dedurre da questi segni di riluttanza che lo stesso Grey o le personalità a lui più vicine avessero abbandonato il loro impegno di lunga data nei confronti dell’Intesa. Al contrario, Grey guardava alla crisi in atto in Europa quasi interamente da questo punto di vista. L’idea che il parlamento potesse non onorare l’obbligo morale con la Francia per creare e salvaguardare il quale egli si era impegnato così a fondo era per lui motivo di profonda inquietudine. Con i suoi colleghi condivideva il disgusto personale per la politica avventurista di Belgrado, ed era al corrente dei massacri e delle vessazioni in atto nelle aree che essa aveva da poco conquistato. Certamente disponeva di sufficienti informazioni per comprendere il tipo di minaccia che la Serbia rappresentava per la monarchia austro-ungarica, ed espresse la propria ripugnanza per l’idea che le grandi potenze dovessero essere «trascinate in una guerra dalla Serbia»22. E tuttavia non mostrò interesse per un tipo d’intervento che avrebbe offerto all’Austria opzioni diverse dall’ultimatum. La mediazione delle quattro potenze proposta nella riunione del governo del 24 luglio era destinata al fallimento23. Delle quattro potenze coinvolte (Gran Bretagna, Germania, Italia e Francia), verosimilmente solo una avrebbe difeso gli interessi dell’Austria-Ungheria. Inoltre, sia l’Impero asburgico sia il sistema internazionale non disponevano di mezzi per garantire il rispetto delle decisioni che avrebbero potuto essere assunte. Infine, la grande potenza più direttamente coinvolta nel sostenere l’irredentismo serbo non avrebbe partecipato, né sarebbe stata legata, alle decisioni del concerto delle altre potenze. La fiducia di Grey nella propria capacità di comporre in qualche modo i contrasti derivava senza dubbio in parte dalla buona fama che si era guadagnato presiedendo l’Assemblea degli ambasciatori del 1913 a Londra. Ma una mediazione fra opzioni di guerra o di pace era qualcosa di diverso da una discussione sulle zone di confine albanesi.

Nelle sue reazioni alla crisi, Grey subordinò il suo approccio alla disputa austro-serba ai più generali imperativi dell’Intesa, il che, di fatto, significava un tacito sostegno alla politica della Russia. Grey parlò a più riprese dell’importanza di «calmare» la Russia, e chiese a San Pietroburgo di evitare misure inutilmente provocatorie, ma mostrò un’assai scarsa conoscenza, e anche scarso interesse, riguardo a ciò che stava effettivamente avvenendo in Russia nei giorni cruciali che seguirono la presentazione della nota austriaca. Questa ignoranza non era del tutto colpa sua, poiché i russi nascosero deliberatamente i loro «preparativi clandestini» a Buchanan, dicendogli il 26 luglio che a Mosca e a San ­Pietroburgo le «misure protettive» erano state messe in atto semplicemente per affrontare un’ondata di scioperi che stava danneggiando ­l’industria russa. Buchanan non ne fu del tutto convinto: il 26 luglio, in un breve dispaccio a Grey, rilevò che, siccome gli scioperi erano «praticamente terminati», le misure che aveva osservato dovevano «senza dubbio» essere collegate a una «potenziale mobilitazione»24. Ma Grey non si mostrò interessato, da parte di Buchanan non ci furono tentativi di dar seguito a queste indicazioni, e da Londra non arrivarono istruzioni di muoversi in questo senso. Fu in questo modo che il ministero degli Esteri gestì le comunicazioni con la Russia. Il 26 luglio, il giorno in cui Buchanan inoltrò il suo rapporto, Nicolson si incontrò con il conte Lichnowsky, il quale si presentò con un telegramma urgente del proprio governo, secondo cui sembrava che la Russia stesse richiamando le «classi dei riservisti», il che di fatto voleva dire che stava mobilitando. Grey rispose che Londra «non aveva informazioni riferite ad una mobilitazione generale né ad alcuna mobilitazione immediata». Ma poi aggiunse:

Sarebbe comunque difficile e delicato, per noi, chiedere a San Pietroburgo di non mobilitare per niente quando l’Austria sta contemplando una simile misura; non ci darebbero ascolto. La cosa essenziale sarebbe, se possibile, evitare operazioni militari attive25.

Era a dir poco uno strano modo di leggere la situazione, perché presupponeva un’equivalenza fra la mobilitazione austriaca e quella russa, trascurando il fatto che mentre le misure austriache erano concentrate esclusivamente sulla Serbia, quelle russe erano dirette contro l’Austria (e la stessa Germania, nella misura in cui il Regolamento del 2 marzo 1913 si applicava a quasi tutti i distretti militari russi occidentali ed era in ogni caso stato esteso fino a coprire la mobilitazione della flotta baltica). I commenti di Grey rivelavano anche una piena (o forse parzialmente voluta) ignoranza del significato delle misure di mobilitazione in un’epoca in cui la velocità nella concentrazione delle truppe e nell’attacco era considerata un elemento cruciale del successo militare. Infine, se Grey fosse stato interessato ad adottare un approccio imparziale al problema effettivamente ingarbugliato della mediazione e del contenimento a livello locale del conflitto, avrebbe potuto desiderare un esame approfondito dei punti di forza e dei punti deboli delle rivendicazioni austriache contro la Serbia, e mirare ad impedire contromisure russe che avrebbero certamente innescato un conflitto più ampio. Ma non fece niente del genere. Quando l’8 luglio si era incontrato con Benckendorff, e in varie altre successive occasioni, Grey, dopo tutto, aveva accettato l’impostazione russa secondo la quale «una guerra serba significherebbe inevitabilmente una guerra europea»26.

In linea generale Grey sapeva quel che era avvenuto nel corso della visita di Stato francese a San Pietroburgo. In un dispaccio del 24 luglio (successivo alla partenza di Poincaré), l’ambasciatore Buchanan riferì che le riunioni svoltesi nella capitale russa avevano rivelato una «perfetta comunanza di vedute» fra la Russia e la Francia sulla «pace generale e sull’equilibrio dei poteri in Europa», e che i due Stati concordavano nella «solenne affermazione degli obblighi imposti dalla [loro] alleanza»; Sazonov aveva chiesto a Buchanan di comunicare a Grey la sua speranza che il governo britannico «proclamasse [la sua] solidarietà con la Francia e la Russia»27. Commentando quel dispaccio, Eyre Crowe usò formulazioni più incisive di quelle che avrebbe scelto Grey, ma colse il nucleo della logica che avrebbe sostenuto la posizione del segretario agli Esteri:

Qualunque cosa possiamo pensare sul merito delle accuse austriache contro la Serbia, la Francia e la Russia le considerano dei pretesti, e pensano che sia in causa ormai la questione più grossa della Triplice Alleanza contro la Triplice Intesa. Penso che per l’Inghilterra sarebbe inopportuno dal punto di vista politico, per non dire pericoloso, tentare di contraddire quest’opinione, o trovare il modo di complicare la questione presentando rimostranze a San Pietroburgo e a Parigi. [...] I nostri interessi sono legati a quelli della Francia e della Russia, in questa lotta che non riguarda il possesso della Serbia, ma contrappone la Germania che punta alla dittatura politica in Europa e le potenze che vogliono preservare la loro libertà individuale28.

Grey assicurò a Lichnowsky che la Gran Bretagna non aveva obblighi legali nei confronti dei suoi alleati dell’Intesa. Ma il 29 luglio mise anche in guardia l’ambasciatore tedesco (senza una specifica autorizzazione preventiva da parte del governo) che se la Germania e la Francia fossero state trascinate nel conflitto, la Gran Bretagna avrebbe potuto ritenere necessario passare rapidamente all’azione29. Quando il 30 luglio Bethmann Hollweg contattò Londra avanzando l’ipotesi che la Germania avrebbe rinunciato ad annettersi territori francesi se la Gran Bretagna fosse rimasta neutrale, Grey telegrafò a Goschen (ambasciatore britannico a Berlino) per informarlo che la proposta «non poteva per il momento essere accolta»30.

Le azioni e le missioni di Grey rivelavano quanto profondamente l’indirizzo di pensiero seguito dall’Intesa influenzasse la sua visione della crisi in corso. Si trattava, di fatto, di una riproposizione di quello scenario balcanico che era diventato la logica trainante dell’Allean­za franco-russa, e che Grey aveva interiorizzato nel suo avvertimento all’ambasciatore tedesco all’inizio di dicembre del 1912 (si veda il capitolo 6). Si sarebbe sollevata una disputa sui Balcani – non era importante chi cominciasse –, la Russia ci sarebbe entrata, tirandosi dietro la Germania, e la Francia sarebbe «inevitabilmente» intervenuta a fianco del suo alleato; di fronte ad una situazione del genere, la Gran Bretagna non avrebbe potuto restarsene da una parte a vedere la Germania schiacciare la Francia. È esattamente questo il copione che Grey – nonostante qualche dubbio e momentanee tergiversazioni – seguì nel 1914. Il ministro britannico non esaminò né valutò attentamente le accuse dell’Austria alla Serbia, e anzi non mostrò alcun interesse per la questione, non perché credesse che il governo serbo fosse innocente riguardo alle accuse rivoltegli31, ma perché condivideva la posizione franco-russa secondo cui la minaccia austriaca alla Serbia costituiva un «pretesto», come disse Crowe, per mettere in azione l’alleanza.

Una caratteristica fondamentale di quello scenario era che la Gran Bretagna accettava – o perlomeno non contestava – la legittimità di un attacco russo contro l’Austria per risolvere una disputa austro-serba, e l’inevitabilità del sostegno francese all’iniziativa russa. Le precise circostanze della contrapposizione fra Austria e Serbia e il problema della colpevolezza erano questioni d’interesse subordinato; quel che importava era la situazione che si sarebbe sviluppata una volta che i russi (e i francesi) fossero coinvolti. E definire il problema in questo modo naturalmente poneva l’onere sulla Germania, il cui intervento a difesa dell’Austria doveva necessariamente innescare la mobilitazione francese e una guerra continentale.

Poincaré rientra a Parigi

Mentre Grey, in conclusione della riunione del governo del 24 luglio, stava proponendo la sua idea di una mediazione da parte delle quattro potenze, il presidente Poincaré e il capo del governo Viviani stavano attraversando il Golfo di Finlandia a bordo della France, scortati da torpediniere russe. Quando il giorno seguente arrivarono in Svezia, Poincaré approfittò della possibilità di usare collegamenti telegrafici sicuri per assicurarsi che il controllo sulle decisioni politiche rimanesse nelle mani sue e (nominalmente) di Viviani. Dette istruzioni a quest’ultimo affinché rilasciasse una dichiarazione alla stampa francese per annunciare che era in contatto con tutte le parti interessate e aveva riassunto la direzione degli affari esteri. «È importante», rilevò Poincaré, «che in Francia non abbiano l’impressione che Bienvenu-Martin [l’inesperto facente funzione di ministro degli Esteri a Parigi] sia stato lasciato a sbrigarsela da solo»32. Nelle ventiquattr’ore precedenti, alla radio di bordo della France erano arrivate varie informazioni sull’evoluzione della crisi austro-serba. Quando emerse un quadro più completo, Poincaré confermò la posizione che aveva delineato a San Pietroburgo: l’iniziativa austriaca era illegittima, e le pretese di Vienna erano «ovviamente inaccettabili per la Serbia», costituendo di fatto una «violazione dei diritti umani». La responsabilità di salvare la pace non ricadeva più sulla Russia, i cui preparativi militari erano del tutto conformi alle posizioni espresse e concordate durante la visita di Stato delle autorità francesi, ma sui tedeschi, che dovevano contenere il loro alleato austriaco. Se non lo avessero fatto, annotò Poincaré nel suo diario il 25 luglio, «si porrebbero in una posizione assai ingiusta, assumendosi la responsabilità delle azioni violente dell’Austria»33.

L’episodio più rivelatore del carattere dinamico che egli attribui­va al proprio ruolo negli eventi è rappresentato dalla sua reazione alla notizia, che lo raggiunse a Stoccolma, secondo cui Sazonov aveva consigliato ai serbi di non opporre resistenza agli austriaci lungo il confine, ma di far retrocedere le loro forze verso l’interno del paese, per poter sostenere davanti alla comunità internazionale di essere stati invasi e appellarsi alle potenze per avere giustizia. Lo scopo che Sazonov perseguiva con queste indicazioni era ottenere la solidarietà internazionale alla causa serba, ma allo stesso tempo spingere quanto più possibile gli austriaci ad adottare gli schieramenti previsti dal piano B, indebolendo quindi le forze disponibili per uno schieramento che contrastasse un attacco russo in Galizia. Poincaré interpretò erroneamente questa notizia come un’indicazione del fatto che Sazonov aveva perso il controllo della situazione e propendeva per un’abdicazione della Russia alle sue responsabilità verso lo Stato balcanico. «Certo non possiamo mostrarci più audaci [cioè più impegnati a sostenere Belgrado] dei russi», scrisse34. «La Serbia ha tutte le possibilità di essere umiliata». Era, o piuttosto sembrava, un ritorno a quei giorni dell’inverno del 1912-1913 in cui i governanti francesi avevano fatto pressioni sui russi perché adottassero nei Balcani una posizione più decisamente antiaustriaca. A quell’epoca, l’addetto militare russo a Parigi aveva reagito con perplessità ai discorsi bellicosi dei militari francesi. Ora la situazione era diversa. C’era stato un accordo sulla politica da seguire, e le paure di Poincaré che Sazonov avesse ancora una volta un atteggiamento oscillante erano infondate.

Potrebbe sembrare strano che di fronte all’aggravarsi della crisi in Europa centrale, Poincaré non abbia semplicemente annullato la visita in Svezia che aveva in programma nel viaggio di ritorno. La sosta a Stoccolma è stata talvolta citata come una dimostrazione della sostanziale passività del presidente francese riguardo alla crisi. Per quale motivo, se Poincaré intendeva svolgere un ruolo attivo negli eventi, lui e Viviani si sarebbero concessi un po’ di turismo marittimo durante il ritorno a Parigi?35 La risposta è che la visita in Svezia non era affatto una visita turistica, ma un tassello cruciale della strategia dell’alleanza che era stata riconfermata a San Pietroburgo. Poincaré e lo zar avevano discusso della necessità di assicurarsi la neutralità della Svezia (in preparazione, si deve pensare, di una imminente guerra europea). Le relazioni fra Svezia e Russia erano state turbate in tempi recenti da un’aggressiva attività di spionaggio russa e dalle paure di Stoccolma per un imminente attacco russo, o dalla frontiera comune o dal Baltico36. L’ultimo giorno in cui si videro a San Pietroburgo, Nicola II aveva chiesto personalmente a Poincaré di comunicare al re Gustavo V di Svezia che lo zar era animato da intenzioni pacifiche nei confronti del suo vicino baltico, e che se fino a quel momento non era stato a conoscenza di attività spionistiche ai suoi danni, ora vi avrebbe posto immediatamente fine37. Soprattutto, era di fondamentale importanza impedire che la Svezia cadesse nelle braccia dei tedeschi, tenendo conto di tutte le gravi complicazioni strategiche che ciò avrebbe potuto comportare. Il 25 luglio, dopo aver passato il pomeriggio con Gustavo V, Poincaré adempì al suo incarico e poté riferire che il re ricambiava cordialmente il desiderio dello zar che la Svezia rimanesse neutrale38.

Era ovviamente imbarazzante doversene stare a pranzo in Svezia mentre la crisi europea si aggravava, soprattutto perché il povero Viviani stava ancora una volta cominciando a dar segni di tensione. Ma l’opinione pubblica francese era ancora tranquilla: l’attenzione rimaneva puntata sul processo Caillaux, che terminò soltanto il 28 luglio, con la sorpresa dell’assoluzione della signora. In questa situazione, come Poincaré ben sapeva, un ritorno anticipato avrebbe più facilmente allarmato che rassicurato l’opinione pubblica francese ed europea. Inoltre, avrebbe «suscitato l’impressione che la Francia potesse essere coinvolta nel conflitto»39. Ma una volta che il 27 luglio si seppe che il Kaiser era rientrato anticipatamente a Berlino dal suo viaggio sul Baltico a bordo del panfilo imperiale, Poincaré, che a questo punto era bombardato da telegrammi dei ministri che lo sollecitavano a tornare a Parigi, non ci pensò due volte a cancellare le visite di Stato programmate in Danimarca e in Norvegia, che in ogni caso erano meno urgenti dal punto di vista strategico, e dette ordine all’equipaggio della France di puntare direttamente su Dunkerque40.

Avevano appena invertito la rotta, che la France e la sua scorta, la corazzata della classe dreadnought Jean Bart, si trovarono vicine a un incrociatore da battaglia tedesco che attraversava la baia di Meclemburgo all’altezza di Kiel, seguito da una torpediniera che voltò la coda e lasciò la scena. L’incrociatore da battaglia tedesco fece il consueto saluto, facendo sparare a salve uno ad uno tutti i cannoni a traverso, e la Jean Bart contraccambiò il saluto – la France invece rimase in silenzio, com’era d’uso per le navi che trasportavano un capo di Stato. Qualche minuto dopo, la stazione telegrafica a bordo della France intercettò una trasmissione radio criptata inviata dall’incrociatore subito dopo il saluto, con cui presumibilmente si allertava Berlino informandola che il presidente francese era in rotta per tornare a Parigi41.

Poincaré e Viviani si trovarono ad adottare prospettive sempre più divergenti sulla situazione internazionale. Poincaré notò che il primo ministro sembrava «sempre più turbato e inquieto», ed era preoccupato dalle «idee più contraddittorie»42. Quando il 27 luglio arrivò un telegramma in cui si riferiva dell’affermazione di Grey secondo cui l’Inghilterra non sarebbe rimasta inattiva di fronte allo scoppio di una guerra nei Balcani, Poincaré trasse spunto da questa fermezza per tentare di tirar su Viviani. Il presidente impiegò gran parte della giornata, come aveva fatto durante il viaggio a San Pietroburgo, a spiegare a Viviani «che la debolezza è [...] sempre la madre delle complicazioni», e che l’unico indirizzo sensato era manifestare «una costante fermezza». Ma Viviani continuò ad essere «nervoso, agitato [e] a pronunciare parole e frasi inquietanti, che denotano una visione fosca delle questioni di politica estera». Anche Pierre de Margerie (capo del dipartimento politico di Quai d’Orsay) rimase turbato «dallo strano stato mentale» di Viviani. Poincaré assisteva costernato al fatto che il primo ministro non sembrava in grado di parlare coerentemente se non di congressi di partito e delle alleanze politiche riguardanti il leader socialista Jean Jaurès43.

Anche Poincaré era sotto stress. Un particolare motivo di inquietudine fu la serie di radiogrammi confusi e quasi incomprensibili che il 27 luglio riportavano varie dichiarazioni di Grey. Dopo aver avvertito l’ambasciatore austriaco che la Gran Bretagna non sarebbe rimasta a guardare in una guerra che avesse origine nei Balcani, ora Grey comunicava all’ambasciatore francese Paul Cambon che l’opinione pubblica britannica non avrebbe approvato un coinvolgimento del paese in una guerra sulla questione serba. Ma mentre Viviani aveva paura di una corsa a precipizio verso la guerra, quel che Poincaré più temeva era che non ci si contrapponesse con decisione ad un’azione austriaca contro la Serbia:

se l’Austria vuole una vittoria ancor più piena [e per «vittoria» intendeva la supposta accettazione delle richieste austriache da parte di Belgrado], se dichiara guerra o se entra a Belgrado, l’Europa la lascerà fare? Interverrà per mettere fine [a un’ulteriore escalation] solo se saranno l’Austria e la Russia a scontrarsi? Questo significherebbe schierarsi dalla parte dell’Austria e darle carta bianca con la Serbia. Ho esposto tutte queste obiezioni a Viviani44.

Il 28 luglio, mentre stavano entrando nel Mare del Nord e si avvicinavano alla costa francese, Poincaré fece comunicare via radio che l’accoglienza a Dunkerque venisse cancellata: occorreva che il treno del presidente fosse pronto, in modo che il gruppo potesse partire per Parigi direttamente dal porto. Sul Mare del Nord il tempo era più freddo e più grigio, il mare era increspato, e c’erano frequenti rovesci. Gli ultimi radiogrammi riferivano che i britannici appoggiavano una «iniziativa congiunta» delle potenze per disinnescare la crisi; per Poincaré si trattava di una notizia incoraggiante, poiché significava che i russi avrebbero fatto un passo indietro solo se lo avessero fatto gli austriaci. E infine arrivavano notizie molto positive da Parigi: in risposta all’ambasciatore tedesco von Schoen, il quale aveva insistito che la disputa austro-serba era una questione che i due paesi coinvolti avrebbero dovuto risolvere fra di loro; il facente funzione di ministro degli Esteri Bienvenu-Martin aveva dichiarato che la Francia non avrebbe fatto niente per contenere la Russia, a meno che la Germania non contenesse l’Austria-Ungheria. Contento per questa risposta decisa, che giungeva inaspettata, Poincaré dette istruzioni a de Margerie affinché Viviani telegrafasse a Parigi dando la sua approvazione, come capo del governo, alla risposta di Bienvenu-Martin. Era un chiaro esempio di come funzionasse la catena di comando della politica estera francese in quegli ultimi giorni del luglio 191445.

Prima di arrivare in Francia, Poincaré si era ormai convinto – sebbene non vi fossero ancora segni di contromisure militari da parte della Germania – che non era più possibile evitare una guerra europea46. Trovò i ministri calmi e risoluti, e si sentì sollevato nel vedere che avevano un atteggiamento più energico di quello del pavido Viviani. Poincaré aveva già telegrafato a Bienvenu-Martin, incaricandolo di fare da collegamento con i ministri della Guerra, della Marina, dell’Interno e delle Finanze per far sì che venissero adottate tutte le «precauzioni necessarie» nell’eventualità che la tensione si innalzasse; fu contento di vedere che in tutti i settori erano stati fatti grandi progressi. Il sottosegretario agli Esteri Abel Ferry e il ministro dei Lavori pubblici René Renoult, che erano arrivati a Dunkerque per accogliere il presidente e il suo seguito, informarono Poincaré che i soldati in licenza erano stati richiamati, le truppe nei campi di addestramento erano rientrate nelle rispettive guarnigioni, i prefetti erano stati messi in allerta, gli impiegati pubblici avevano ricevuto ordine di rimanere ai loro posti e Parigi aveva provveduto ad acquistare forniture essenziali; «in poche parole, sono stati fatti quei passi che, in caso di bisogno, consentirebbero una mobilitazione immediata»47. Quando Renoult, sul treno che li riportava da Dunkerque alla capitale, gli chiese se fosse ancora possibile un’intesa politica fra le grandi potenze, Poincaré rispose: «No, non ci può essere intesa. Non ci può essere accordo»48. Più di ogni altra cosa, è rivelatrice la descrizione che nel suo diario Poincaré fece della folla che si radunò per salutarlo lungo la strada per Parigi, e che testimonia lo stato d’animo di un leader politico già in guerra:

Abbiamo immediatamente notato che il morale della popolazione è eccellente, soprattutto quello degli operai e dei portuali. Una fittissima moltitudine si è riversata sui pontili e sulle banchine e ci ha salutati con grida ripetute di «Viva la Francia!», «Viva Poincaré!». Controllo la mia emozione, e scambio qualche parola col sindaco, i senatori e i deputati. Tutti mi dicono, e il prefetto me lo conferma, che possiamo contare sull’unità e sulla determinazione del paese49.

Il governo russo aveva già messo in atto misure di pre-mobilitazione di vasta portata. Parigi ne era ben informata, sia da Paléologue, la cui breve nota era del 25 luglio, sia, più in dettaglio, il giorno dopo, dall’addetto militare francese a San Pietroburgo, il generale Pierre de Laguiche50. La mattina del 29 luglio, poi, l’ambasciatore Izvol’skij portò la notizia che per quello stesso giorno era programmata una parziale mobilitazione della Russia contro l’Austria-Ungheria. È difficile ricostruire quale fu la risposta di Poincaré a queste notizie, perché in seguito, al momento di preparare le sue memorie, egli tolse dalle pagine del suo diario manoscritto quella in cui, in data 29 luglio, parlava probabilmente delle misure russe51. Non sono poi stati conservati i verbali della riunione del Consiglio dei ministri convocata quello stesso giorno. Ma secondo una confidenza fatta la sera stessa a Joseph Caillaux dal ministro dell’Interno Louis Malvy, che era presente, il governo approvò esplicitamente le misure russe52. Né il 26-27 luglio, né il 29, Parigi ritenne opportuno contenere l’alleato.

Tutto ciò era in accordo con il prospettato scenario balcanico e con il pensiero strategico francese, che attribuiva grande importanza alla rapidità e all’efficienza della mobilitazione russa. Ma questa prio­rità doveva essere bilanciata con l’esigenza di garantirsi l’intervento della Gran Bretagna. Alla fine di luglio, il governo britannico era incerto sulla linea da seguire, dovendo decidere se, quando e come eventualmente intervenire nell’imminente conflitto europeo. Una cosa è chiara: se la Francia fosse entrata in una guerra di aggressione a fianco del suo alleato, ciò avrebbe profondamente indebolito il suo appello morale all’aiuto britannico. Tuttavia, la sicurezza della Francia nei confronti di un attacco della Germania ad occidente richiedeva che Parigi insistesse perché la risposta militare da parte di San Pietroburgo fosse la più rapida possibile. Era il consueto paradosso: la stessa guerra che a occidente doveva avere un carattere difensivo, ad est doveva cominciare in modo aggressivo. Questi contrastanti imperativi posero un’enorme pressione ai governanti di Parigi. E la pressione si fece particolarmente acuta la notte del 29 luglio, quando i tedeschi avvisarono San Pietroburgo che avrebbero preso in considerazione l’ipotesi di mobilitare le proprie forze se i russi non avessero interrotto la loro mobilitazione.

A tarda notte, fra il 29 e il 30 luglio, all’ambasciata russa a Parigi arrivò un telegramma di Sazonov che informava Izvol’skij dell’avvertimento tedesco. Poiché la Russia non poteva retrocedere, scriveva Sazonov, era intenzione del governo «accelerare le nostre misure difensive e ritenere probabile l’inevitabilità di una guerra». Izvol’skij ricevette l’ordine di ringraziare il governo francese, a nome di Sazonov, per la sua generosa assicurazione secondo cui «possiamo assolutamente contare sul sostegno della Francia come alleato»53. Poiché i russi avevano già avvisato la Francia della precedente decisione di avviare una mobilitazione parziale (diretta contro la sola Austria), si può dedurre che l’«accelerazione» di cui parlava Sazonov si riferisse a un’imminente mobilitazione generale della Russia, una misura cioè che avrebbe reso di fatto inevitabile una guerra continentale54. Non sorprende che a Parigi questo messaggio innescasse un turbinio di attività. Izvol’skij inviò a notte fonda il suo segretario di legazione al Quai d’Orsay e si recò personalmente da Viviani per mostrargli il telegramma di Sazonov. Poco dopo, alle quattro del mattino del 30 luglio, Viviani si riunì con il ministro della Guerra Adolphe Messimy e con il presidente Poincaré all’Eliseo, per discutere la notizia. Il risultato fu una risposta francese attentamente calibrata, che venne inviata quel mattino stesso:

La Francia è risoluta ad adempiere a tutti gli obblighi dell’alleanza. Tuttavia, nell’interesse della pace generale e considerato che fra le potenze meno interessate sono ancora in corso discussioni, ritengo che sarebbe opportuno che, nelle misure di precauzione e di difesa che la Russia creda di dover adottare, non proceda nell’immediato ad alcuna disposizione che possa offrire alla Germania un pretesto per una mobilitazione totale o parziale delle sue forze55.

Questa risposta viene talvolta citata come una prova della volontà del governo francese, messo in allarme dalle misure russe, di compromettere gli accordi per la sicurezza dell’Alleanza franco-russa, con l’intento di salvaguardare la pace56. Certamente questo è quello che sembrò a Viviani: la sera, in un incontro con l’ex ministro degli Esteri Gabriel Hanotaux, si lamentò dicendo: «[i russi] ci stanno mettendo di fronte a fatti compiuti, senza quasi neppure consultarci»57. Ma lo scopo della nota era in realtà più complesso. Essa mirava a convincere i britannici che la Francia si stava sforzando di porre un freno al proprio alleato, ed è con quest’idea in mente che una copia del messaggio venne immediatamente inviata a Paul Cambon a Londra. Il collegamento con l’Entente anglo-francese è reso esplicito da Poincaré nel suo diario, dove annotò che il messaggio a San Pietroburgo era stato formulato «a causa dell’atteggiamento ambiguo dell’Inghilterra»58. Allo stesso tempo, comunque, de Margerie e Messimy ricevettero istruzioni da Poincaré – a quanto sembra senza che Viviani ne fosse informato – per chiarire a Izvol’skij la vera natura delle intenzioni del governo francese. Il resoconto che Izvol’skij fece dei colloqui con il diplomatico e con il ministro modificò sostanzialmente l’impatto del precedente telegramma che sollecitava moderazione:

Margerie, col quale ho appena parlato, mi ha detto che il governo francese non desidera intervenire nei nostri preparativi militari, ma crede che sia estremamente auspicabile, nell’interesse della continuazione dei negoziati per preservare la pace, che questi preparativi evitino il più possibile di assumere un carattere manifesto e provocatorio. Sviluppando lo stesso pensiero, il ministro della Guerra ha anche detto al conte Ignat’ev [l’addetto militare russo a Parigi] che potremmo fare una dichiarazione per dire che siamo disposti, per i superiori interessi della pace, a rallentare temporaneamente le nostre misure di mobilitazione, il che d’altra parte non deve impedirci di procedere con i nostri preparativi militari e anzi di portarli avanti con maggiore energia, a condizione che ci asteniamo dall’effettuare trasferimenti in massa di truppe59.

Questi due telegrammi, entrambi inviati il 30 luglio, danno un’idea delle complesse triangolazioni mediante le quali si svolgeva una politica francese che doveva mediare fra i rigorosi imperativi dell’Alleanza franco-russa e la confusa logica dell’Entente anglo-francese. Appellarsi ai «superiori interessi della pace» significava in sostanza offrire all’avversario un’opportunità per recedere – eventualità questa che sembrava peraltro sempre più improbabile. Nel frattempo, i preparativi di guerra della Russia continuavano, nella forma di una quasi mobilitazione che si fermava un gradino prima della concentrazione di masse di soldati sulla frontiera occidentale. Negli appunti che prese durante il Consiglio dei ministri la mattina del 30 luglio, il sottosegretario di Stato agli Esteri Abel Ferry riassunse la politica francese con queste parole: «Non fermare la mobilitazione russa. Mobilitare, ma non concentrare»60. Nel diario di Poincaré, dopo il brano che parla dell’invio del telegramma in cui si sollecitava San Pietroburgo alla moderazione, si legge questa frase: «Allo stesso tempo, prendiamo le misure necessarie per disporre le nostre truppe di copertura a est»61.

La Russia mobilita

La sera del 29 luglio, il capo di stato maggiore russo trasmise l’Ukaz di mobilitazione generale al generale Sergej Dobrorol’skij. Come responsabile della mobilitazione, a quest’ultimo competeva ottenere le firme ministeriali senza le quali l’ordine non poteva entrare in vigore. L’atmosfera era cupa. Suchomlinov, un tempo tanto esplicito nelle sue convinzioni belliciste, negli ultimi giorni era diventato molto placido. Forse, rifletté Dobrorol’skij, aveva anche il rimpianto di aver pubblicato qualche mese prima il suo incendiario articolo su «Birževija Vedomosti», in cui dichiarava che la Russia era «pronta per la guerra»62. L’ammiraglio Grigorovič, ministro della Marina, rimase sconvolto nel leggere l’Ukaz: «Cosa? La guerra con la Germania? La nostra flotta non è in condizioni di resistere contro quella tedesca». L’ammiraglio telefonò a Suchomlinov per avere conferma, e quindi firmò «con il cuore gonfio». Nell’ufficio del reazionario e ultramonarchico ministro dell’Interno, Nikolaj Maklakov, Dobrorol’skij trovò «un’atmosfera di preghiera»: su uno stretto tavolo delle grandi icone brillavano alla luce di una lampada da chiesa. «In Russia» – disse il ministro – «la guerra non sarà mai popolare nelle masse del basso popolo. Apprezzano più le idee rivoluzionarie che una vittoria sulla Germania. Ma non si sfugge al proprio destino [...]». Facendosi il segno della croce, anche Maklakov firmò l’ordine63.

Alle 21 circa, una volta raccolte tutte le firme necessarie, Dobrorol’skij si recò all’ufficio telegrafico centrale di San Pietroburgo, dove il direttore generale dei servizi postali e telegrafici era stato avvertito in anticipo di tenersi pronto ad una trasmissione «della massima importanza». Il testo venne battuto con grande scrupolo in varie copie, in modo da poterlo spedire simultaneamente dalle macchine della sala principale che collegava San Pietroburgo ai principali centri dell’Impero russo. Da questi sarebbe stato ritrasmesso a tutte le città e a tutti i distretti. Secondo il protocollo previsto per la trasmissione di ordini di mobilitazione, l’ufficio telegrafico doveva interrompere ogni altra attività. Alle 21.30, poco prima della trasmissione, squillò il telefono: era Januškevič, capo di stato maggiore, che ordinò a Dobrorol’skij di non trasmettere il testo, ma di restare in attesa di ulteriori istruzioni. Pochi minuti dopo arrivò un messaggero, il capitano dello stato maggiore Tugan-Baranovskij, in stato di agitazione. Lo zar aveva cambiato opinione. Invece di un ordine di mobilitazione, doveva essere emanato un ordine di mobilitazione parziale, secondo le modalità approvate «in linea di principio» nelle riunioni del 24 e del 25 luglio. Il nuovo ordine venne debitamente stilato e trasmesso a mezzanotte circa del 29 luglio, facendo scattare le misure di mobilitazione nei distretti di Kiev, Odessa, Mosca e Kazan’64.

Questa improvvisa inversione di tendenza generò una serie di equivoci, dagli esiti quasi comici, nell’ambasciata francese. Il generale Laguiche, addetto militare, venne avvisato dell’imminente mobilitazione poco dopo le 22, ma i russi gli dissero di non informare l’ambasciatore Paléologue, per evitare che questi, con la sua indiscrezione, compromettesse la segretezza della decisione. Ma Paléologue venne a sapere della vicenda un’ora dopo da un’altra fonte (un russo che non mantenne il riserbo), e inviò immediatamente il suo segretario Chambrun al ministero degli Esteri russo, per allertare con un telegramma urgente Parigi, comunicando che era in corso una mobilitazione generale (lo strumento del telegramma ministeriale venne scelto per timore che il sistema cifrato francese non fosse sicuro; allo stesso tempo, Paléologue spedì un telegramma in cifra al Quai d’Orsay in cui si leggeva: «Si prega di ritirare presso l’ambasciata russa, come cosa di estrema urgenza, il mio telegramma n. 304»). Mentre stava recandosi al ministero, Chambrun incontrò Laguiche, il quale aveva appena appreso che lo zar aveva ritirato l’ordine di mobilitazione. Laguiche ordinò a Chambrun di cancellare la parte del suo telegramma riferita alla decisione di «dare segretamente avvio alla mobilitazione». Il telegramma inviato all’ambasciata russa di Parigi ora annunciava semplicemente la mobilitazione della Russia contro l’Austria, e così Viviani e i suoi colleghi non seppero che San Pietroburgo si era fermata alla soglia di una mobilitazione generale. La mattina seguente, Paléologue s’infuriò per i tentativi dell’addetto militare e del suo primo segretario di ostacolare le comunicazioni con Parigi.

In ogni caso, la mobilitazione parziale annunciata il 29 luglio non era una soluzione sostenibile. Una mobilitazione parziale poneva infatti difficoltà insuperabili ai componenti dello stato maggiore che dovevano organizzare le operazioni, poiché rischiava di intralciare fortemente i preparativi per una successiva mobilitazione totale. A meno che l’ordine non venisse annullato da un provvedimento di mobilitazione generale nelle successive ventiquattr’ore, si sarebbero prodotti danni irreparabili alle misure preliminari per un attacco ad occidente. La mattina presto del 30 luglio Sazonov e Krivošein si consultarono telefonicamente – entrambi erano «fortemente preoccupati per l’arresto della mobilitazione generale»65. Sazonov propose che Krivošein chiedesse un’udienza allo zar per tentare di convincerlo che era urgente procedere ad una mobilitazione generale. Alle 11, Sazonov e Januškevič si incontrarono nell’ufficio di quest’ultimo, e il capo di stato maggiore espose nuovamente le ragioni che suggerivano di dare immediatamente corso alla mobilitazione generale. Da lì, Sazonov tentò di mettersi in contatto telefonicamente con il Peterhof. Dopo alcuni tesi minuti di attesa, Sazonov udì la voce, in un primo momento irriconoscibile, di un uomo «poco abituato a parlare al telefono, che desiderava sapere con chi stesse parlando»66. Lo zar acconsentì a ricevere Sazonov alle tre di quel pomeriggio (rifiutò invece di ricevere insieme a lui anche Krivošein, perché non sopportava che i ministri unissero le forze per patrocinare le loro posizioni).

Al Peterhof, Sazonov venne subito fatto entrare nello studio dell’imperatore, dove trovò il sovrano «stanco e preoccupato». Per volere dello zar, l’udienza si svolse alla presenza del generale Tatiščev, che stava per riprendere il suo posto di addetto militare russo presso l’imperatore tedesco. Sazonov parlò per cinquanta minuti, esponendo le difficoltà tecniche, ricordando a Nicola II che i tedeschi avevano respinto «tutte le nostre offerte di conciliazione, che si sono spinte ben oltre lo spirito di disponibilità alle concessioni che ci si attenderebbe da una Grande potenza le cui forze sono intatte», e concluse affermando che «non rimaneva alcuna speranza di salvare la pace». Lo zar pose termine alla riunione formulando la sua decisione definitiva: «Ha ragione, non resta altro che prepararci ad un attacco. Trasmetta al capo di stato maggiore i miei ordini di mobilitazione»67.

Alla fine, con profondo sollievo, Januškevič ricevette la chiamata che stava aspettando. «Dirami i suoi ordini, generale», gli disse Sazonov, «e poi scompaia per tutto il resto della giornata». Ma la paura di Sazonov che potesse esserci un altro contrordine si rivelò infondata. Ancora una volta, toccò al generale Dobrorol’skij recarsi all’ufficio telegrafico centrale per trasmettere il telegramma che ordinava la mobilitazione generale. Stavolta, tutti sapevano cosa fosse in gioco. Quando alle 18 circa Dobrorol’skij entrò nel salone principale dell’ufficio telegrafico, «un silenzio solenne regnava fra i telegrafisti, uomini e donne». Ognuno era seduto di fronte al suo apparecchio, in attesa di una copia del telegramma. Non arrivò nessun messaggero da parte dello zar. Qualche minuto dopo le 18, mentre gli operatori restavano in silenzio, gli apparecchi cominciarono a scattare e a picchiettare, e la sala fu invasa da un fitto e operoso brusio meccanico68.

La mobilitazione generale della Russia fu una delle più gravi decisioni della Crisi di luglio. Fu la prima mobilitazione ad essere attuata, e arrivò in un momento in cui il governo tedesco non aveva ancora neppure dichiarato lo Stato di pericolo di guerra (Kriegsgefahrzustand), il provvedimento che in Germania corrispondeva al Periodo preparatorio della guerra che in Russia era entrato in vigore il 26 luglio. L’Austria-Ungheria, da parte sua, era ancora ferma ad una mobilitazione parziale mirante alla sconfitta della Serbia. Su questa sequenza di eventi alcuni esponenti politici francesi e russi avrebbero in seguito mostrato qualche imbarazzo. Nel Libro arancione pubblicato dopo lo scoppio della guerra dal governo russo per giustificare le decisioni che aveva assunto nel corso della crisi, i curatori retrodatarono di tre giorni l’ordine di mobilitazione generale austriaca, in modo da far apparire il provvedimento russo come una semplice reazione agli sviluppi in corso altrove. Un telegramma dell’ambasciatore a Vienna Šebeko del 29 luglio, in cui si affermava che per il giorno successivo era «previsto» un ordine di mobilitazione generale, venne retrodatato al 28 luglio e riformulato nel modo seguente: «L’ordine di mobilitazione generale è stato firmato»; in realtà, il provvedimento non venne emanato che il 31 luglio, per entrare in vigore il giorno seguente. Il Libro giallo francese alterò in modo ancor più disinvolto i documenti, inserendo un finto comunicato di Paléologue datato 31 luglio, nel quale si leggeva che l’ordine russo era stato emanato «in conseguenza della mobilitazione generale dell’Austria» e delle «misure di mobilitazione assunte segretamente, ma con continuità, dalla Germania nei sei giorni passati [...]». In realtà, i tedeschi erano rimasti, in termini militari, un’isola di relativa calma per tutta la durata della crisi69.

Quali furono i motivi che spinsero i russi a questo passo? Per Sazonov, il fattore decisivo fu senza dubbio la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia del 28 luglio, alla quale egli reagì quasi immediatamente inviando un telegramma alle ambasciate a Londra, Parigi, Vienna, Berlino e Roma con cui comunicava che il giorno seguente la Russia avrebbe annunciato la mobilitazione parziale dei distretti militari confinanti con l’Austria70 (si tratta del telegramma che venne discusso dal Consiglio dei ministri francese il 29 luglio). A questo punto, per Sazonov era ancora importante che i tedeschi fossero rassicurati della «mancanza da parte della Russia di qualsiasi intento aggressivo nei confronti della Germania»: di questa linea politica faceva parte la scelta di una mobilitazione parziale invece che generale71. Per quale ragione, allora, Sazonov passò rapidamente dalla prima alla seconda opzione? Vengono in mente quattro possibili motivi. Abbiamo già preso in considerazione il primo, e cioè l’impossibilità tecnica di abbinare una mobilitazione parziale (per la quale non esisteva un piano adeguato) all’opzione di una successiva mobilitazione generale.

Un ulteriore fattore fu la convinzione di Sazonov – nutrita fin dall’inizio della crisi, ma sempre più indignata e dominante – che l’intransigenza austriaca fosse in realtà un aspetto della politica tedesca. Si trattava di un’idea profondamente radicata nella politica balcanica della Russia, che da qualche tempo aveva smesso di prendere sul serio l’Austria-Ungheria quale elemento in grado di operare autonomamente negli affari europei – ne è testimonianza l’ingiunzione che Sazonov aveva rivolto a Bethmann Hollweg a Paldiski, nell’estate del 1912, di non incoraggiare scelte avventuristiche dell’Austria. E tali convinzioni erano rafforzate dai rapporti che ipotizzavano (a ragione) che la Germania stesse continuando a sostenere la posizione austriaca, invece di far pressioni su di essa perché retrocedesse dai suoi intenti. Nelle sue memorie, Sazonov scrisse che il 28 luglio, il giorno della dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, ricevette un telegramma da Londra in cui l’ambasciatore Benckendorff affermava che una conversazione con il conte Lichnowsky (ambasciatore tedesco nella stessa città) gli aveva «confermato la sua convinzione» che la Germania stesse «appoggiando l’ostinazione dell’Austria». Era un’idea di grande importanza, poiché permetteva ai russi di vedere in Berlino il centro morale della crisi e l’agente su cui si basavano tutte le speranze di pace. Come disse sinteticamente Benckendorff: «La chiave della situazione va chiaramente ricercata a Berlino»72.

Lo stesso Sazonov espresse questa opinione in un breve telegramma inviato il 28 luglio alle ambasciate di Parigi e di Londra, nel quale dichiarava che da una conversazione avuta con l’ambasciatore tedesco a San Pietroburgo, il conte Pourtalès, deduceva che «la Germania sost[eneva] l’atteggiamento implacabile dell’Austria»73. La posizione del ministro degli Esteri russo si irrigidì notevolmente il giorno seguente, quando nel pomeriggio Pourtalès lo chiamò per leggere un messaggio del cancelliere tedesco in cui si affermava che se la Russia avesse proceduto nei suoi preparativi militari, la Germania si sarebbe trovata costretta essa stessa a mobilitare. A ciò, Sazonov, che vedeva nell’avvertimento del cancelliere un ultimatum, rispose seccamente, in francese: «Ora non ho più dubbi sulle vere cause dell’intransigenza austriaca», tanto che Pourtalès si alzò in piedi ed esclamò: «Protesto con tutta la mia forza, signor ministro, contro questa offensiva affermazione»74. La riunione si chiuse freddamente. Il problema, dal punto di vista dei russi, era che la Germania, nonostante la sua apparente inattività, era in realtà la forza portante che stava dietro la politica austriaca, e quindi una mobilitazione parziale non aveva senso, data la solidità del blocco austro-tedesco; perché allora non riconoscere la vera natura della minaccia e quindi mobilitare con tutte le forze contro entrambe le potenze? Infine, l’appoggio di Sazonov alla prospettiva della mobilitazione generale fu reso ancor più convinto dall’assicurazione data il 28 luglio da Maurice Paléologue, «su istruzioni del suo governo», secondo cui «in caso di necessità» i russi potevano contare sulla «completa disponibilità della Francia ad adempiere ai suoi obblighi di alleata»75. È possibile che in questi primi momenti i russi si sentissero perfino sicuri dell’aiuto britannico. Il 30 luglio l’addetto militare belga Bernard de l’Escaille scrisse: «Oggi a San Pietroburgo sono fermamente convinti, e infatti ne hanno ricevuta assicurazione», che «l’Inghilterra sosterrà la Francia. Questo sostegno ha un peso enorme, e ha dato un non piccolo contributo ad avvantaggiare il partito della guerra»76. A quale «assicurazione», ammesso che ve ne fosse una, si riferisse de l’Escaille, e quando esattamente essa divenne nota non è chiaro, ma egli aveva quasi certamente ragione nel sostenere che i governanti russi si mantenevano fiduciosi in un intervento britannico, almeno sul lungo termine.

Tuttavia, non appena fu presa e accettata dallo zar, la decisione della mobilitazione generale venne annullata a favore dell’opzione ufficialmente concordata ma inattuabile di una mobilitazione parziale contro l’Austria. La ragione di ciò va vista fondamentalmente nel fatto che lo zar temeva e aborriva la guerra, ora che si trovava di fronte al compito di farne una realtà. Praticamente tutti coloro che lo conoscevano e hanno lasciato osservazioni scritte sulla sua personalità concordano nel dire che in lui erano presenti due caratteristiche contrastanti. La prima era una paura assai comprensibile di fronte alla prospettiva della guerra e allo sconvolgimento che essa avrebbe provocato per il suo paese; l’altra il fatto che era sensibile ai toni accesi e alla retorica dei politici nazionalisti e aveva una predilezione per gli uomini e i provvedimenti che riuscivano a suscitare emozioni patriottiche. Quel che il 29 luglio indusse lo zar alla cautela fu l’arrivo alle 21.20, proprio quando l’ordine di mobilitazione generale stava per essere inviato dall’ufficio telegrafico centrale, di un telegramma del Kaiser Guglielmo II, nel quale il cugino tedesco dello zar dichiarava che il suo governo sperava ancora di promuovere un «accordo diretto» con Vienna e San Pietroburgo e che si concludeva con queste parole:

Naturalmente, misure militari da parte della Russia che fossero considerate minacciose per l’Austria potrebbero far precipitare una calamità che entrambi desideriamo evitare, e pregiudicare la mia posizione di mediatore che ho prontamente accettato in seguito al tuo appello alla mia amicizia e al mio aiuto77.

Dicendo «Non voglio assumere la responsabilità di un mostruoso macello», lo zar insisté perché l’ordine venisse annullato. Januškevič prese il telefono per fermare Dobrorol’skij, e mandò il messaggero all’ufficio telegrafico per comunicare che doveva invece essere diramato l’ordine di mobilitazione parziale.

Vale la pena di soffermarsi un attimo per riflettere sul fatto che l’effetto di un telegramma inviato dal biscugino berlinese dell’imperatore fu sufficiente a rinviare un ordine di mobilitazione generale per quasi ventiquattr’ore. Dopo la rivoluzione di febbraio del 1917, al rivoluzionario russo Vladimir Burčev, che nella sua attività di giornalista aveva duramente attaccato lo zarismo, venne affidata la cura dei documenti privati dello zar; vi scoprì una serie di telegrammi personali che lo zar si era scambiato con l’imperatore tedesco, che erano stati occultati. Firmandosi «Willy» e «Nicky», i due sovrani comunicavano in inglese, con un tono informale e talvolta perfino intimo. La scoperta di questi documenti suscitò sensazione. Nel settembre del 1917, il giornalista Herman Bernstein, che stava facendo la cronaca degli eventi rivoluzionari, li pubblicò sul «New York Herald», e quattro mesi dopo li ristampò in volume (con una prefazione di Theodore Roosevelt)78.

I «telegrammi Willy-Nicky», come vennero chiamati, hanno esercitato a lungo un notevole fascino, in parte perché, nel leggerli, sembra di ascoltare di nascosto una conversazione fra due imperatori di un’Europa che non esiste più, in parte perché trasmettono il senso di un mondo in cui i destini delle nazioni erano ancora affidati alle mani di singole persone estremamente potenti. In realtà, entrambe le impressioni sono fuorvianti, almeno per quanto concerne i famosi telegrammi del 1914. Quelli del periodo della Crisi di luglio non erano né segreti – poiché la loro esistenza era ampiamente nota e discussa79 – né privati. Di fatto erano cablogrammi diplomatici camuffati da corrispondenza personale. Da entrambe le parti, il loro contenuto era attentamente vagliato dal personale del rispettivo ministero degli Esteri. Si tratta di un esempio di quelle curiose comunicazioni da sovrano a sovrano che rimasero una caratteristica del sistema europeo fino allo scoppio della guerra, sebbene in questo caso i due imperatori fossero gli strumenti di trasmissione, più che gli autori, dei segnali che i due paesi si scambiavano. L’esistenza di questi documenti va ricondotta alla struttura monarchica degli esecutivi europei, non al potere dei sovrani di determinare la politica. Il telegramma del 29 luglio è eccezionale: arrivò in un momento molto speciale, quando, per una volta, tutto dipendeva dalla decisione dello zar, non perché egli fosse l’attore dominante nel processo politico, ma perché per emanare l’ordine di mobilitazione generale era necessario avere il suo assenso (e la sua firma). E questo non era un problema di influenza politica, ma un residuo di assolutismo militare del sistema autocratico. In un momento in cui lo zar era tormentato per la difficile scelta a cui si trovava di fronte – comprensibilmente, vista la posta in gioco – il telegramma che arrivò da «Willy» fu sufficiente a farlo retrocedere dall’ordine di mobilitazione generale. Ma l’effetto durò meno di un giorno, poiché entrambi i sovrani stavano semplicemente esprimendo le posizioni fondamentalmente opposte dei loro rispettivi esecutivi. La mattina del 30 luglio, quando arrivò il telegramma di Guglielmo II in cui si replicava l’avvertimento dell’ambasciatore Pourtalès del giorno prima, lo zar abbandonò ogni speranza che un accordo con il Kaiser potesse salvare la pace, e si risolse a decretare la mobilitazione generale80.

Un’ultima considerazione sulla decisione russa di mobilitare: quando il pomeriggio del 30 luglio Sazonov vide lo zar, lo trovò preoccupato per la minaccia che la mobilitazione austriaca rappresentava per la Russia. «[I tedeschi] non vogliono riconoscere che l’Austria ha mobilitato prima di noi. Ora chiedono che la nostra mobilitazione venga interrotta, senza menzionare quella degli austriaci. [...] In questo momento, se accettassi le richieste tedesche, saremmo disarmati nei confronti dell’Austria»81. Tuttavia sappiamo che a questo punto i preparativi austriaci erano interamente concentrati sull’obiettivo di assicurarsi la vittoria sulla Serbia, indipendentemente dalla crescente minaccia di una reazione russa. L’ansia dello zar non era espressione di un’ossessione personale; rifletteva semmai le tendenze più ampie nelle analisi elaborate dagli esperti russi sulle minacce militari da parte delle altre potenze. I servizi segreti militari russi sopravvalutarono costantemente la capacità militare dell’Austria e, soprattutto, le attribuirono una formidabile capacità di procedere segretamente ai preparativi militari, una convinzione rafforzata dalla crisi balcanica del 1912-1913, quando gli austriaci erano riusciti a radunare truppe in Galizia senza che in una prima fase i russi se ne accorgessero82. Queste tendenze furono rafforzate, paradossalmente, dalla conoscenza assai precisa che i russi avevano (grazie al defunto colonnello Redl e ad altre fonti sicure) dei piani di schieramento austriaci. Non era un problema nuovo: già nel 1910 Suchomlinov, da poco nominato ministro della Guerra, si vantava di aver visionato gli specifici piani di schieramento dell’esercito e della marina austriaci per la «conquista della Macedonia». Ciò, affermava, rivelava l’immensa portata della minaccia che l’espansionismo austro-ungarico nella penisola balcanica rappresentava per gli interessi russi, e rendeva inutili tutte le assicurazioni fornite a livello diplomatico. L’idea che questi documenti – in realtà vecchi e superati – potessero essere piani d’emergenza piuttosto che espressioni di una precisa politica austriaca, non sembra venisse considerata da Suchomlinov, il quale presumibilmente intendeva utilizzarli come argomenti per ottenere un aumento degli stanziamenti militari83. Una tendenza un po’ paranoide a sopravvalutare i documenti di pianificazione militare di cui entrava in possesso continuò ad assillare la politica di sicurezza della Russia fino al 1914. Proprio perché erano così abituati ai piani di mobilitazione austriaci, i russi tendevano da una parte a interpretare le singole misure come elementi di un coerente piano generale, dall’altra a considerare qualsiasi variazione rispetto alle sequenze previste come potenzialmente minacciosa.

Nel 1913, ad esempio, i russi avevano appreso dalle loro fonti spionistiche che gli austriaci avevano destinato ben sette corpi d’armata all’eventualità di una guerra con la Serbia. Ma nel luglio del 1914, le relazioni (la cui esattezza è dubbia) che arrivavano dall’ambasciatore Šebeko e dall’addetto militare russo Vineken indicavano che il numero dei corpi militari attualmente in preparazione potessero essere otto o nove. I servizi segreti russi interpretarono questa discrepanza come un’indicazione che Conrad fosse passato dal piano B, centrato sulla Serbia, al piano R, rivolto verso la Russia, e che in altre parole l’Austria stesse segretamente preparando «una mobilitazione completa o quasi completa»84. A posteriori, noi sappiamo che nelle valutazioni austriache il livello della forza militare serba risultava aumentato, e ciò comportava un corrispondente incremento delle forze che essi ritenevano necessario schierare per sottomettere l’esercito nemico. E l’andamento del primo anno di guerra avrebbe dimostrato che perfino le stime austriache riviste non erano sufficienti ad assicurare una vittoria decisiva contro i serbi, che veramente si batterono «come leoni», come lo zar aveva previsto. Si trattava di un classico esempio degli equivoci che possono sorgere quando le modalità con cui determinate informazioni vengono trasmesse dai servizi segreti inducono chi le riceve ad inserirle forzatamente in uno schema avulso dal contesto e che può non essere aggiornato. In un ambiente ossessionato dalla sicurezza, una sobria valutazione dei reali livelli di pericolo era praticamente impossibile. Ma quel che più conta in queste interpretazioni dei provvedimenti adottati dagli austriaci è che esse venivano prese sul serio dallo zar, che era un avido lettore dei rapporti stilati quotidianamente dallo stato maggiore. E questo a sua volta spiega la tendenza, altrimenti incomprensibile, dei russi a ritenere la loro mobilitazione generale equivalente alle misure austriache, e da esse giustificata. Come quasi chiunque altro nel contesto della crisi, i russi potevano affermare di essere stati messi con le spalle al muro.

Il salto nel buio

Nel corso delle settimane centrali del luglio 1914, i responsabili della politica tedesca rimasero ostinatamente attaccati alla loro linea mirante a circoscrivere il conflitto. Nei primi giorni era ancora facile immaginare una soluzione della crisi in tempi molto rapidi. Il 6 luglio Guglielmo II disse all’imperatore Francesco Giuseppe che «la situazione si sarebbe chiarita entro una settimana, perché la Serbia avrebbe ceduto [...]», anche se era possibile, come fece notare al ministro della Guerra Erich von Falkenhayn, che il «periodo di tensione» potesse durare un po’ più a lungo, forze anche «tre settimane»85. Ma perfino nella terza settimana di luglio, quando la speranza di una rapida soluzione non appariva più realistica, i responsabili della politica tedesca continuarono a puntare ad una localizzazione del conflitto. Il 17 luglio l’incaricato d’affari presso la legazione sassone a Berlino venne a sapere che «ci si attende una localizzazione del conflitto, poiché l’Inghilterra è su posizioni assolutamente pacifiche, e la Francia, e come lei la Russia, non sono inclini alla guerra»86. In una circolare del 21 luglio agli ambasciatori tedeschi a Roma, Londra e San Pietroburgo, Bethmann Hollweg scriveva: «Vogliamo urgentemente una localizzazione del conflitto; un intervento di qualsiasi altra potenza, tenuto conto dei divergenti impegni delle alleanze, porterebbe a conseguenze incalcolabili»87.

Una condizione per riuscire a contenere il conflitto era che i tedeschi stessi evitassero qualsiasi azione che potesse innescare un’escalation. Fu in parte avendo in mente questo obiettivo, e in parte per assicurarsi l’autonomia e la concentrazione di cui aveva bisogno per gestire la crisi, che Bethmann Hollweg incoraggiò il Kaiser a lasciare Berlino per la progettata crociera sul Baltico. Per la stessa ragione, i più alti comandanti militari furono invitati ad andare o a rimanere in vacanza. Il capo di stato maggiore supremo Helmuth von Moltke, il capo dell’Ufficio navale imperiale ammiraglio Alfred von Tirpitz e il capo di stato maggiore dell’Ammiragliato Hugo von Pohl erano già in vacanza, il quartiermastro generale conte Alfred von Waldersee lasciò Berlino per prendersi qualche settimana di riposo nelle proprietà di suo cognato a Meclemburgo, e anche il ministro della Guerra Erich von Falkenhayn partì per un breve giro d’ispezione, prima delle sue ferie annuali.

Sarebbe un errore attribuire eccessiva importanza a queste partenze. Le persone coinvolte erano consapevoli della gravità della crisi, e sicure del grado di preparazione dell’apparato militare tedesco; sapevano anche che era improbabile che vi fosse un’ulteriore escalation prima che gli austriaci passassero in qualche modo all’azione nei confronti di Belgrado88. D’altra parte, non si può neppure affermare che queste mosse fossero un’elaborata messa in scena per distrarre l’attenzione del mondo dai preparativi per una guerra continentale che era stata decisa e pianificata in anticipo. I memoranda e la corrispondenza interni di questi giorni indicano che sia i dirigenti politici sia i comandi dell’esercito e della marina erano fiduciosi che la strategia del contenimento del conflitto su scala locale avrebbe dato i suoi frutti. Non ci furono discussioni al vertice fra i principali comandanti tedeschi, e Helmuth von Moltke rimase a passare le acque a Carlsbad (oggi Karlovy Vary), in Boemia, fino al 25 luglio. Il 13 scrisse all’addetto militare tedesco a Vienna, affermando che l’Austria avrebbe fatto bene a «battere i serbi e quindi fare rapidamente la pace, chiedendo come unica condizione un’alleanza austro-serba, come fece la Prussia con l’Austria nel 1866» – a questo punto apparentemente egli credeva ancora possibile che l’Austria lanciasse il suo attacco alla Serbia e lo portasse a termine senza provocare un intervento russo89.

Particolarmente degna di nota è la mancanza di attività da parte dei servizi segreti militari. Il maggiore Walter Nicolai, capo del dipartimento IIIb dello stato maggiore, responsabile dello spionaggio e del controspionaggio, era in vacanza con la famiglia sui monti Harz e non venne richiamato. Le basi dei servizi situate sulla frontiera orientale non ricevettero speciali istruzioni dopo le riunioni di Potsdam, e non sembra che prendessero alcuna speciale precauzione. Solo il 16 luglio a qualcuno del dipartimento operativo venne in mente che sarebbe stato «auspicabile osservare gli sviluppi in Russia più da vicino di quanto si faccia in tempi di completa calma politica», ma anche la circolare che conteneva questa considerazione precisò che non occorrevano «misure speciali di alcun tipo»90. In diversi dei distretti confinanti con il territorio russo, si consentì agli ufficiali dei servizi segreti locali di rimanere in ferie, come Moltke, fino al 25 luglio91.

Per non compromettere il piano mirante al contenimento del conflitto, Bethmann Hollweg e il ministero degli Esteri tedesco sollecitarono ripetutamente gli austriaci a sbrigarsi e a realizzare il loro tanto ansiosamente atteso fait accompli. Ma i responsabili politici di Vienna non furono in grado o non vollero passare all’azione. Il farraginoso meccanismo dello Stato asburgico non si prestava a misure rapide e risolute. Già l’11 luglio Bethmann Hollweg cominciò a dare segni di agitazione per la straziante lentezza dei preparativi austriaci. In un’annotazione del suo diario, scritta quando si trovava nella tenuta di Bethmann Hollweg, Kurt Riezler riassunse così la questione: «A quanto sembra [gli austriaci] hanno bisogno di un tempo terribilmente lungo per mobilitare. 16 giorni, dice Hötzendorff. Ciò è molto pericoloso. Un rapido fait accompli e poi [un atteggiamento] amichevole con l’Intesa – così lo shock può essere retto»92. Ancora il 17 luglio, il segretario all’ambasciata tedesca di Vienna, Stolberg, notificò a Bethmann Hollweg che erano ancora in corso «negoziati» fra Berchtold e Tisza93. Fu per venire incontro all’esigenza di accelerare e di minimizzare la probabilità di complicazioni internazionali che Berchtold pose un termine di sole quarantotto ore alla risposta alla nota austriaca. Per la stessa ragione, Jagow spinse gli austriaci ad anticipare la data prevista per la loro dichiarazione di guerra alla Serbia dal 29 al 28 luglio.

Se la lentezza della risposta austriaca rimosse una delle precondizioni del successo della politica di localizzazione del conflitto, per quale motivo i tedeschi mantennero così ostinatamente quella linea? Una ragione va vista nel fatto che essi continuavano a credere che ad ostacolare un intervento armato vi fossero fattori strutturali più profondi – come l’incompletezza del programma di riarmo russo. Le intenzioni del governo francese erano difficili da capire, tanto più che nella terza e nella quarta settimana di luglio il presidente Poincaré, il primo ministro e il capo del dipartimento politico del Quai d’Orsay erano in Russia o in viaggio per mare. Ma la fiducia dei tedeschi nell’improbabilità di un’azione da parte dell’Intesa fu rafforzata dal rapporto di Humbert sulla preparazione militare della Francia.

In realtà i tedeschi accolsero le sensazionali rivelazioni di Humbert sulla presunta inadeguatezza dei preparativi militari francesi con scetticismo, vedendo nell’intemperante linguaggio del suo rapporto essenzialmente un attacco politico al ministro della Guerra Adolphe Messimy e ai suoi collaboratori. Gli esperti militari tedeschi precisarono subito che i più piccoli cannoni da campagna francesi erano in realtà di qualità superiore rispetto alle corrispondenti armi tedesche. Poiché l’esercito francese aveva abbandonato il suo precedente approccio difensivo in favore di una strategia offensiva, il relativo declino delle fortificazioni di confine era in realtà fuorviante94. In un memorandum segreto successivo alle rivelazioni di Humbert, tuttavia, Moltke arrivò alla conclusione che i preparativi militari francesi sulla frontiera orientale erano effettivamente manchevoli, soprattutto per quanto riguardava l’artiglieria pesante, i mortai e l’immagazzinamento di munizioni in strutture a prova di bomba95. Se non altro, il rapporto Humbert indicava che i governanti francesi, e in particolare i comandi militari, non avevano intenzione di spingere l’Alleanza franco-russa a una guerra per la Serbia; e sicuramente anche i russi sarebbero stati scoraggiati a procedere in tal senso96.

Un’ulteriore ragione del perseguimento di una linea mirante alla localizzazione del conflitto fu la scarsa consistenza – agli occhi dei tedeschi – delle opzioni alternative. Un abbandono dell’alleato asburgico non era neppure pensabile, e non solo per ragioni di correttezza e di Realpolitik, ma anche perché i responsabili della politica tedesca concordavano sulla legittimità delle rivendicazioni austriache nei confronti della Serbia. Se l’equilibrio in termini di capacità militare offensiva si stava modificando a sfavore della Germania, la situazione sarebbe stata incomparabilmente peggiore, qualora ai tedeschi fosse venuto a mancare l’appoggio dell’unica grande potenza loro alleata. Gli strateghi tedeschi avevano infatti già deciso che l’Italia era troppo inaffidabile per poterci contare come su una risorsa fondamentale97. L’ambivalenza italiana rendeva anche meno plausibile la proposta, sostenuta da Grey, che fosse un concerto delle quattro potenze meno direttamente coinvolte ad intervenire per risolvere la disputa: se l’Italia, come sembrava assai probabile, data la sua politica antiaustriaca nella regione balcanica, si fosse schierata con le due potenze dell’Entente, quale possibilità ci sarebbe stata di assicurarsi un esito positivo per l’Austria-Ungheria? I tedeschi erano disposti a passare i suggerimenti britannici a Vienna, ma il parere di Bethmann Hollweg era che la Germania dovesse appoggiare un intervento multilaterale solo se riguardava i rapporti fra Russia e Austria, e non quelli fra Austria e Serbia98.

Alla base della strategia del contenimento del conflitto – e come elemento in grado di impedire la possibilità che si affermassero alternative – c’era ancora la convinzione, tanto importante per Bethmann Hollweg, che se i russi avessero deciso, nonostante tutto, di intervenire a favore del loro protetto, la guerra che ne sarebbe scaturita sarebbe stata qualcosa che andava oltre il controllo della Germania, una sorta di destino inflitto alle potenze centrali da una Russia aggressiva e dai suoi alleati dell’Entente. Un esempio di questo modo di considerare la questione è la lettera che il 12 luglio il segretario agli Esteri Jagow scrisse all’ambasciatore a Londra Lichnowsky:

Dobbiamo occuparci di contenere a livello locale il conflitto fra Austria e Serbia. Tale possibilità dipenderà in primo luogo dalla Russia, e in secondo luogo dall’influenza dei membri dell’Intesa. [...] Non desidero una guerra preventiva, ma se si presenta lo scontro, non ci tiriamo indietro99.

Anche in questo caso emerge quella tendenza che possiamo ritrovare nel modo di ragionare di tanti protagonisti della crisi, vale a dire la sensazione di essere costretti ad agire da inarrestabili fattori esterni, addossando l’intera responsabilità della scelta fra pace e guerra all’avversario.

Con il loro sostegno all’Austria-Ungheria e la loro fiducia nella possibilità di contenere il conflitto, i responsabili della politica tedesca dettero il loro contributo alla crisi. E tuttavia, nella loro reazione agli eventi dell’estate del 1914 non vi è niente che faccia pensare che essi considerassero la crisi come una gradita opportunità per dare avvio a un piano definito da tempo per scatenare una guerra preventiva contro i propri vicini. Al contrario, Zimmermann, Jagow e Bethmann Hollweg furono alquanto lenti nel cogliere la portata del disastro che si stava preparando intorno a loro. Il 13 luglio, Zimmermann era ancora fiducioso che non ci sarebbe stato un «grande conflitto europeo». Ancora il 26 luglio, il parere dei funzionari di livello superiore del ministero degli Esteri era che sia la Francia sia l’Inghilterra sarebbero rimaste fuori da qualsiasi conflitto balcanico. Lungi dall’essere padroni della situazione, i governanti tedeschi sembravano far fatica a tenersi aggiornati sugli sviluppi in corso. Nei giorni decisivi della crisi, Jagow trovò i suoi colleghi di rango elevato «nervosi, indecisi, timorosi», e in definitiva «inadeguati alle responsabilità del [loro] incarico», mentre Bethmann Hollweg sembrò a Tirpitz «un uomo che stava affogando»100.

In quelle calde settimane di luglio, il Kaiser era in crociera in Scandinavia. I lunghi viaggi in barca, soprattutto nel Baltico, erano da molto tempo un punto fermo nel calendario estivo di Guglielmo II. Gli consentivano di sottrarsi alla tensione, alla sensazione d’impotenza di fronte alla complessità dei problemi che lo tormentavano a Berlino. A bordo dello yacht imperiale Hohenzollern, attorniato da quei gradevoli leccapiedi che era sempre possibile reclutare in occasione delle attività ricreative imperiali, il Kaiser poteva essere padrone di tutto quel che avveniva e dava libero sfogo agli impetuosi moti della sua personalità. Dopo alcune piacevoli giornate dedicate alla regata di Kiel, durante le quali poté giovialmente fraternizzare con gli ufficiali della Royal Navy, Guglielmo II fece rotta per Balholm, sulla costa norvegese, dove gettò l’ancora fino al 25 luglio. Fu da lì che il 14 luglio inviò una prima risposta personale al messaggio con cui l’imperatore asburgico Francesco Giuseppe chiedeva aiuto alla Germania. La lettera confermò la precedente assicurazione di sostegno, denunciando i «pazzi fanatici» che con la loro «agitazione panslavista» minacciavano la duplice monarchia, ma, significativamente, non faceva riferimento alla guerra. Guglielmo II affermava che sebbene egli dovesse «astenersi dall’assumere una posizione sulla questione delle attuali relazioni fra Vienna e Belgrado», riteneva fosse un «dovere morale di tutti gli Stati civili» contrastare la «propaganda dell’atto» di stampo antimonarchico con «tutti gli strumenti di cui il potere dispone». Ma il resto della lettera faceva riferimento esclusivamente a iniziative diplomatiche nella regione balcanica, per impedire la formazione di una «Lega balcanica sotto patrocinio russo», e si concludeva formulando all’imperatore asburgico i migliori auguri per una pronta ripresa dal suo lutto101.

I commenti che il Kaiser appose sui documenti ufficiali che gli arrivarono mentre si trovava a bordo del suo yacht rivelano che, come molte delle principali figure politiche e militari a Berlino, egli attendeva con impazienza una decisione da parte di Vienna102. Sembra che la sua preoccupazione principale fosse che un eccessivo attendismo potesse sprecare i vantaggi derivanti dall’indignazione internazionale per gli omicidi di Sarajevo, o che gli austriaci potessero del tutto perdersi d’animo. Fu lieto di apprendere, attorno al 15 luglio, che era imminente «un’energica decisione». Il suo unico rammarico era che ci sarebbe stato un ulteriore rinvio prima che le richieste austriache venissero presentate a Belgrado103.

Il 19 luglio, però, l’imperatore cadde in uno stato di «grande ansia» a causa di un telegramma inviato alla Hohenzollern dal segretario di Stato agli Esteri, Jagow. La comunicazione non conteneva novità sostanziali, ma il suo richiamo al fatto che la data individuata per un ultimatum fosse ora il 23 luglio, e che dovevano essere adottate misure per fare in modo che il Kaiser potesse essere raggiunto «nel caso in cui circostanze impreviste rendessero necessarie decisioni importanti» (vale a dire una mobilitazione), fece comprendere all’imperatore la potenziale portata della crisi ormai incombente104. Egli emanò immediatamente un ordine disponendo l’annullamento della visita in Scandinavia della flotta di alto bordo, che sarebbe invece rimasta in stato di allerta per essere in grado di partire immediatamente. L’ansia del Kaiser era comprensibile, poiché in quel momento la marina britannica stava per l’appunto effettuando una prova di mobilitazione, e il suo livello di preparazione per un eventuale conflitto era quindi molto elevato. Ma Bethmann Hollweg e Jagow ritennero giustamente che ciò avrebbe semplicemente suscitato sospetti ed esacerbato la crisi, scoraggiando una smobilitazione britannica; il 22 luglio ebbero la meglio sull’imperatore e ordinarono che il soggiorno in Norvegia proseguisse secondo il programma. Le esigenze diplomatiche erano ancora prioritarie rispetto alle considerazioni strategiche105.

Nonostante la crescente tensione, Guglielmo II rimase fiducioso sulla possibilità di evitare una crisi più generale. Quando gli venne mostrata una copia del testo dell’ultimatum a Belgrado, commentò: «Bene, che sorpresa; dopo tutto è una nota decisa»; l’imperatore aveva evidentemente abbracciato l’opinione ampiamente diffusa nel suo entourage, secondo cui alla fine gli austriaci avrebbero rinunciato a uno scontro diretto con la Serbia. Quando l’ammiraglio Müller disse che l’ultimatum significava che la guerra era imminente, il Kaiser lo contraddisse energicamente. I serbi, sostenne, non rischierebbero mai una guerra contro l’Austria. Müller interpretò queste parole – a ragione, come poi si vide – come un segno che l’imperatore era psicologicamente del tutto impreparato ad affrontare le complicazioni militari, e che sarebbe crollato non appena si fosse reso conto che la guerra era una possibilità concreta106.

Guglielmo ritornò a Potsdam il pomeriggio del 27 luglio. Il mattino dopo, molto presto, lesse per la prima volta il testo della risposta serba all’ultimatum presentato da Vienna cinque giorni prima. La sua reazione fu a dir poco inattesa. Sulla propria copia della risposta serba scrisse le parole: «È un risultato eccellente per [un termine di] sole quarantott’ore! È più di quello che ci si poteva attendere [...] Ma ciò fa scomparire ogni motivo di guerra». Fu sorpreso di sapere che gli austriaci avevano già diramato un ordine di mobilitazione parziale. «Io non avrei mai ordinato una mobilitazione su questa base»107. Quel mattino, alle dieci, il Kaiser scrisse una lettera a Jagow nella quale dichiarava che poiché la Serbia aveva offerto «una capitolazione nella forma più umiliante», «ora è stato eliminato ogni motivo di guerra». Invece di invadere interamente il paese, gli austriaci potevano prendere in considerazione un’occupazione temporanea della città di Belgrado, che era stata evacuata, in modo da avere una garanzia che la Serbia rispettasse le condizioni. Ma soprattutto, l’imperatore ordinava a Jagow di informare gli austriaci che quello era il suo desiderio, che «ogni motivo di guerra [era] scomparso», e che l’imperatore era «pronto a far da mediatore della pace con l’Austria». «Ciò farò come meglio crederò, salvaguardando per quanto possibile il sentimento nazionale dell’Austria e l’onore delle sue armi»108. L’imperatore scrisse anche a Moltke che se la Serbia avesse rispettato i suoi impegni nei confronti dell’Austria-Ungheria, non vi sarebbero più state ragioni per la guerra. Nel corso di quella giornata, secondo il ministro della Guerra, fece «discorsi confusi che danno la chiara impressione che non vuole più la guerra ed è deciso a [evitarla], anche se ciò significasse lasciare l’Austria-Ungheria nelle peste»109.

Gli storici hanno visto in questo improvviso scrupolo di circospezione la prova di un cedimento nervoso. Il 6 luglio, quando il Kaiser aveva incontrato l’industriale Gustav Krupp a Kiel, gli aveva più volte assicurato: «Questa volta, non ci ritrarremo per la paura»; Krupp rimase colpito dal pathos di questi poco convincenti tentativi di provare il suo coraggio110. Come scrisse efficacemente Luigi Albertini, «Guglielmo amava far la voce grossa quando il pericolo era lontano, e diventava cauto e prudente se vedeva la guerra avvicinarsi sul serio»111. In ciò vi è del vero: la disponibilità dell’imperatore ad impegnarsi per la difesa degli interessi austriaci era sempre stata inversamente proporzionale alla sua valutazione del rischio di conflitto. E il 28 luglio i rischi sembravano davvero molto seri. Gli ultimi telegrammi di Lichnowsky da Londra parlavano del parere di Grey che la Serbia avesse soddisfatto le richieste a un punto «che egli non avrebbe mai creduto possibile» e che se l’Austria non avesse moderato la sua posizione si profilava un conflitto di grandi proporzioni112. Ipersensibile com’era al punto di vista britannico, Guglielmo II dovette prendere questi avvertimenti sul serio – di fatto essi possono anche spiegare la sua interpretazione della risposta serba, che fu così diversa dal parere del cancelliere e del ministero degli Esteri. Per certi aspetti, comunque, la nota dell’imperatore del 28 luglio era meno in contrasto con i suoi precedenti interventi di quanto potrebbe far pensare l’idea di un cedimento nervoso; i suoi commenti durante la crisi indicano che, diversamente da coloro che a Vienna e a Berlino vedevano nell’ultimatum un mero pretesto per un’azione militare, egli lo considerava un autentico strumento diplomatico che poteva svolgere un ruolo per risolvere la crisi, e rimase fedele all’idea di una soluzione politica del problema balcanico.

Nella struttura decisionale tedesca si era prodotta una spaccatura. La posizione del sovrano contrastava con quella della maggior parte dei più importanti responsabili politici. Ma il divario ben presto si ricompose. L’aspetto che più va sottolineato della lettera a Jagow del 28 luglio è che le sue indicazioni non vennero messe in atto. Se l’imperatore Guglielmo avesse goduto della pienezza dei poteri che talvolta gli è stata attribuita, questo suo intervento avrebbe potuto cambiare il corso della crisi, e forse della storia mondiale. Ma egli non era al corrente degli sviluppi in corso a Vienna, dove i dirigenti politici erano a quel punto impazienti di procedere fino a colpire la Serbia. E quel che è più importante, essendo stato per mare quasi tre settimane, non era neppure al corrente degli sviluppi della situazione a Berlino. Le sue istruzioni a Jagow non influenzarono le richieste che Berlino sottopose a Vienna. Bethmann Hollweg non informò gli austriaci della posizione di Guglielmo II in tempo utile per evitare che essi il 28 luglio proclamassero la dichiarazione di guerra. E il telegramma urgente del cancelliere a Tschirschky, inviato solo un quarto d’ora dopo la lettera del Kaiser a Jagow, conteneva alcune delle proposte dell’imperatore, ma ometteva la cruciale affermazione che a quel punto non poteva più esserci alcun motivo di guerra. Bethmann Hollweg invece si attenne alla linea precedente (ormai abbandonata dall’imperatore), secondo la quale bisognava «evitare con molta attenzione di dare l’impressione che desideriamo trattenere gli austriaci»113.

Per quale motivo Bethmann Hollweg agì in questo modo è difficile stabilirlo. L’idea che egli avesse già orientato la sua diplomazia verso una politica di guerra preventiva non è suffragata dai documenti. È più probabile semplicemente che egli fosse già impegnato in una strategia alternativa che puntava su un’opera da svolgere a fianco di Vienna per convincere la Russia a non reagire in modo eccessivo alle misure austriache. La sera del 28 luglio, Bethmann Hollweg convinse il Kaiser ad inviare un telegramma a Nicola II per assicurargli che il governo tedesco stava facendo del suo meglio per giungere ad un accordo soddisfacente fra Vienna e San Pietroburgo; solo ventiquattr’ore prima, Guglielmo II aveva respinto tale iniziativa come prematura114. Il risultato fu la nota che abbiamo citato precedentemente, diretta a Nicky per pregarlo di non compromettere il ruolo di Willy come intermediario. Bethmann Hollweg pensava a circoscrivere il conflitto, non ad impedirlo, ed era deciso a proteggere questa sua politica dagli interventi dall’alto.

Dal 25 luglio in poi, vi furono sempre più prove che in Russia erano in atto misure militari. L’ufficiale dei servizi segreti a Königsberg riferì che stata intercettata una serie «insolitamente lunga» di trasmissioni in codice fra la Torre Eiffel e la stazione radio russa di Bobrujsk115. La mattina di domenica 26 luglio, il luogotenente generale Chelius, plenipotenziario militare tedesco presso la corte di Nicola II, comunicò che ogni cosa faceva pensare che le autorità del paese avessero dato avvio «a tutti i preparativi per una mobilitazione contro l’Austria»116. Per poter disporre di un quadro più completo di quanto stava avvenendo al di là del confine, il maggiore Nicolai del dipartimento IIIb interruppe le ferie per rientrare a Berlino, ed emanò l’ordine di mobilitazione degli Spannungreisende (i «viaggiatori della tensione»); si trattava di volontari di varia origine, che avevano il compito, al primo profilarsi di tensioni internazionali, di entrare in Russia e in Francia fingendo di recarvisi per turismo o per motivi commerciali, in modo da poter capire se in quei paesi «fossero in atto preparativi militari»117. Alcuni di essi compirono ripetutamente brevi viaggi oltre confine e riferirono personalmente le proprie opinioni, come l’infaticabile signor Henoumont, che riuscì a visitare Varsavia due volte nello spazio di tre giorni e rimase per un po’ di tempo bloccato nella Polonia russa quando furono chiuse le frontiere. Altri si spinsero in località più lontane, inviando cablogrammi in semplice codice tramite il servizio telegrafico pubblico. Ancora non si percepiva la sensazione di dover correre contro il tempo: il 25 luglio gli ufficiali dei servizi che si occupavano dei viaggiatori furono informati che il periodo di tensione avrebbe potuto protrarsi. Se, d’altra parte, la tensione scemava, quei viaggiatori i cui congedi erano stati annullati avrebbero potuto tornare in vacanza118.

Gli Spannungreisende e gli altri agenti che operavano fuori dalle sedi dei servizi segreti sulla frontiera orientale cominciarono in breve tempo a comporre un quadro complessivo dei preparativi militari della Russia. Dalla sede di Königsberg arrivavano rapporti che descrivevano treni merci in partenza verso est, movimenti di truppe nei pressi di Kovno e informavano che le unità di guardie di frontiera erano in stato di allerta. Alle 22 del 26 luglio, lo Spannungreisende Ventsky comunicò da Vilna, tramite il servizio di telegrammi commerciali, che in quella città i preparativi militari erano già pienamente in atto. Il 27 e il 28, il Consiglio per la valutazione delle informazioni segrete che era stato appena istituito presso lo stato maggiore ricevette un flusso continuo di notizie da parte degli Spannungreisende e di altri agenti. Il pomeriggio del 28 l’organismo produsse una sintesi delle ultime informazioni pervenute:

Russia apparentemente in mobilitazione parziale. Portata ancora non discernibile con certezza; distretti militari Odessa e Kiev abbastanza certi. Mosca ancora incerta. Rapporti isolati riferiti a mobilitazione del distretto militare di Varsavia non ancora verificati. In altri distretti, in particolare Vilna, mobilitazione ancora non decretata. Ciò nonostante, è certo che la Russia sta prendendo alcune altre misure militari anche sul confine tedesco che devono essere considerate come preparazione per una guerra. Probabilmente proclamazione del suo «Periodo preparatorio della guerra», proclamato per tutto l’impero. Guardia di frontiera ovunque equipaggiata per combattimento e pronta a marciare119.

Questo rapido peggioramento della situazione, ulteriormente aggravato il 29 luglio dalla notizia della mobilitazione parziale, introdusse un elemento di panico nella diplomazia tedesca: preoccupato dai messaggi di Londra e dal continuo affluire di dati sui preparativi militari dei russi, Bethmann Hollweg cambiò improvvisamente tattica. Dopo aver ostacolato il 28 luglio i tentativi di Guglielmo II di contenere Vienna, ora tentò lui stesso di muoversi in quella direzione, inviando il giorno seguente una serie di telegrammi urgenti all’ambasciatore Tschirschky120. Ma i suoi sforzi furono vanificati a loro volta dalla velocità con cui procedevano i preparativi russi, che minacciava di costringere i tedeschi a prendere contromisure prima ancora che l’opera di mediazione potesse cominciare ad avere effetto.

Dopo la notizia della mobilitazione russa del 30 luglio, una risposta militare di Berlino era solo una questione di tempo. Due giorni prima, il ministro della Guerra Falkenhayn era riuscito, dopo uno scontro con il cancelliere, a far richiamare nelle loro basi le truppe che si trovavano in aree di addestramento. Le prime misure preparatorie ordinate in questo frangente – l’acquisto di grano nella zona d’attacco occidentale, la dislocazione di guardie lungo le ferrovie e l’ordine alle truppe di rientrare nelle guarnigioni – potevano ancora essere tenute segrete, e quindi, in teoria, procedere parallelamente ai tentativi diplomatici volti a contenere il conflitto. Ma non era possibile fare lo stesso con il Kriegsgefahrzustand, l’ultimo stadio preparatorio prima della mobilitazione vera e propria. La questione relativa alla scelta di adottare o meno, e quando, questa misura, che in Russia era in corso dal 26 luglio, fu uno dei principali motivi di discussione all’interno del gruppo dirigente tedesco negli ultimi giorni di pace.

In una riunione del 29 luglio, giorno della mobilitazione parziale della Russia, fra i capi militari c’era ancora disaccordo: Falkenhayn, il ministro della Guerra, era a favore della dichiarazione del Kriegsgefahrzustand, mentre il capo di stato maggiore Moltke e il cancelliere Bethmann Hollweg pensavano semplicemente di rafforzare i servizi di guardia sulle principali strutture di trasporto. Quanto al Kaiser, sembra che oscillasse fra le due opzioni. A Berlino, come a San Pietroburgo, la sempre maggiore concentrazione della dirigenza politica su gravi e controverse decisioni rientranti nelle prerogative sovrane consentì alla figura del capo dello Stato di riaffermarsi come elemento centrale del processo politico. Il telegramma che Guglielmo II aveva ricevuto quel mattino stesso dallo zar, in cui si minacciavano «misure estreme [da parte della Russia] che porterebbero alla guerra» lo dispose in un primo momento a sostenere il ministro della Guerra. Ma sotto la pressione del cancelliere, cambiò parere, e si decise così di non dichiarare il Kriegsgefahrzustand. Falkenhayn si rammaricò di un simile esito, ma nel suo diario scrisse che poteva comprenderne le motivazioni, «perché chiunque creda, o almeno speri nel mantenimento della pace, difficilmente può appoggiare la dichiarazione di ‘pericolo di guerra’»121.

Il 31 luglio, dopo ulteriori tentennamenti riguardo alle misure militari da prendere, giunse notizia dall’ambasciatore Pourtalès a Mosca che i russi avevano ordinato la mobilitazione totale per la mezzanotte della sera precedente. Il Kaiser a questo punto ordinò via telefono che venisse dichiarato il Kriegsgefahrzustand, e Falkenhayn diramò l’ordine alle forze armate alle 13 del 31 luglio. La responsabilità di aver mobilitato per primi ricadeva ora pienamente sui russi, e questo era un punto di una certa importanza per i governanti di Berlino, i quali erano preoccupati, in presenza delle dimostrazioni pacifiste in corso in alcune città tedesche, che non ci fosse alcun dubbio sul carattere difensivo dell’ingresso in guerra della Germania. Una particolare apprensione riguardava la dirigenza dei socialdemocratici (la Spd), che avevano ottenuto oltre un terzo dei voti nelle ultime elezioni per il Reichstag. Il 28 luglio Bethmann Hollweg aveva incontrato il leader della destra del partito Albert Südekum, il quale aveva promesso che la Spd non avrebbe fatto opposizione ad un governo costretto a difendersi da un attacco russo (nella Spd il sentimento antirusso era altrettanto forte che nel movimento liberale britannico). Il 30 luglio, il cancelliere poté quindi rassicurare i suoi colleghi di governo che in caso di guerra non c’era da temere un’azione sovversiva da parte della classe operaia organizzata122.

Tenendo conto degli sviluppi in corso in Russia, difficilmente il Kaiser poteva continuare a bloccare la dichiarazione del Kriegsgefahrzustand, ma è interessante notare che, secondo la testimonianza del plenipotenziario militare bavarese Weininger, la decisione dovette essergli «estorta» da Falkenhayn. Il pomeriggio, il sovrano aveva riacquistato il suo sangue freddo, soprattutto perché si era convinto che ora stava agendo costretto da fattori esterni, un aspetto che fu di grande importanza per quasi tutti gli attori della Crisi di luglio. Nel corso di una riunione alla quale fu presente il ministro della Guerra Falkenhayn, Guglielmo II espose animatamente la situazione del momento, attribuendo l’intera responsabilità dell’imminente conflitto alla Russia. «Il suo contegno e il suo linguaggio», annotò Falkenhayn nel suo diario, «sono stati degni di un Imperatore tedesco, degni di un re prussiano»: parole sorprendenti per un militare che era stato in prima linea tra i falchi che avevano duramente criticato il sovrano a causa del suo amore per la pace e del suo timore della guerra123. Al rifiuto del governo russo di ritirare l’ordine di mobilitazione, il 1° agosto 1914 la Germania dichiarò guerra alla Russia.

«Dev’esserci un malinteso»

Negli ultimi giorni di luglio, l’attenzione del Kaiser tedesco rimase concentrata sulla Gran Bretagna. Ciò avvenne in parte perché, come molti tedeschi, egli vedeva nella potenza britannica il fulcro del sistema continentale, da cui dipendeva la possibilità di evitare una guerra generale. Guglielmo II condivideva la più generale tendenza a sopravvalutare il peso della Gran Bretagna nell’ambito della diplomazia continentale e nel contempo a sottovalutare il fatto che i suoi dirigenti più influenti si erano già impegnati (in particolare Grey) a sostenere una specifica linea. Ebbe comunque un certo ruolo anche un fattore psicologico: l’Inghilterra era infatti il luogo in cui Guglielmo aveva disperatamente cercato – ma solo in parte ottenuto – consensi, riconoscimento e affetto. Rappresentava molto di ciò che egli ammirava – una marina equipaggiata con i migliori cannoni e la migliore attrezzatura che la scienza moderna potesse fornire, ricchezza, raffinatezza, mondanità e (almeno negli ambienti che frequentava in occasione delle sue visite) un tipo di comportamento aristocratico e posato che ammirava ma che gli era impossibile emulare. Era stata la patria di sua nonna, di colei che, come avrebbe affermato in seguito, se fosse stata viva, non avrebbe mai permesso che Nicky e George si coalizzassero in quel modo contro di lui. Era il regno del suo invidiato e detestato zio, Edoardo VII, che era riuscito (diversamente da lui stesso) a migliorare la posizione internazionale del paese su cui regnava. E naturalmente era il luogo di nascita di sua madre, ormai deceduta da tredici anni, con la quale aveva avuto un rapporto assai tormentato e mai risolto. Quando Guglielmo tentava di interpretare la politica britannica, questo groviglio di emozioni e di associazioni mentali entrava sempre in gioco.

Egli si sentì enormemente incoraggiato dal messaggio del 28 luglio di suo fratello, il principe Enrico di Prussia, nel quale si ventilava che Giorgio V intendesse tenere la Gran Bretagna fuori della guerra. La mattina presto del 26 luglio, Enrico, che era stato in barca a Cowes, corse a Buckingham Palace per congedarsi dal re britannico prima di far ritorno in Germania. Secondo Enrico, nel corso della conversazione che ebbe con lui, Giorgio V aveva affermato: «Cercheremo di fare tutto il possibile per rimanere fuori, e rimarremo neutrali»124. Queste parole furono trasmesse telegraficamente al Kaiser non appena il 28 luglio il principe giunse nel porto di Kiel. Guglielmo ritenne che questa affermazione equivalesse a un’assicurazione ufficiale della neutralità britannica. Quando Tirpitz contestò questa sua interpretazione, il Kaiser rispose, con una caratteristica miscela di pomposità e ingenuità: «Ho la parola di un re, per me basta questa». Non è chiaro però che cosa avesse effettivamente detto il re britannico. Il suo diario è, prevedibilmente, di scarso aiuto al riguardo; vi si legge soltanto: «Enrico di Prussia è venuto a trovarmi presto; ritorna subito in Germania»125. Ma un altro resoconto dell’incontro, composto probabilmente dal sovrano su richiesta di Grey, fornisce maggiori particolari. Secondo questa fonte, quando Enrico di Prussia chiese a Giorgio V cosa avrebbe fatto l’Inghilterra nell’eventualità di una guerra europea, il sovrano britannico rispose:

Non so cosa faremo, non abbiamo litigato con nessuno, e spero che rimarremo neutrali. Ma se la Germania dichiarasse guerra alla Russia, e la Francia si unisse alla Russia, allora temo che vi saremmo trascinati. Ma può star certo che io e il mio governo faremo tutto il possibile per impedire una guerra europea!126

Nel modo in cui Enrico riferì lo scambio di idee c’era quindi una buona dose di aspettative illusorie, anche se non possiamo assolutamente escludere la possibilità che Giorgio V adattasse il proprio resoconto del colloquio alle aspettative del segretario agli Esteri, nel qual caso la verità può non coincidere con nessuna delle due versioni. Comunque sia, il telegramma di Enrico fu sufficiente a ristabilire la fiducia del Kaiser nel fatto che la Gran Bretagna sarebbe rimasta fuori, e il suo ottimismo sembrò avvalorato dalla riluttanza del governo britannico, e in modo particolare di Grey, a rendere note le proprie intenzioni.

Guglielmo II rimase quindi scioccato quando, la mattina del 30 luglio, seppe di una conversazione fra Grey e l’ambasciatore tedesco conte Lichnowsky, nel quale il primo aveva avvertito che mentre la Gran Bretagna sarebbe rimasta fuori dal conflitto se esso fosse rimasto limitato all’Austria, alla Serbia e alla Russia (concetto piuttosto bizzarro), sarebbe invece intervenuta a fianco dell’Intesa se fossero state coinvolte la Germania e la Francia. Il sovrano tedesco annotò una serie di infuriati commenti sul dispaccio dell’ambasciatore: gli inglesi erano dei «farabutti», dei «meschini bottegai» che volevano costringere la Germania a lasciare l’Austria «nei guai» e osavano minacciare la Germania di terribili conseguenze rifiutandosi nello stesso tempo di tirar fuori dalla mischia i loro alleati continentali127. Quando arrivò la notizia della mobilitazione generale russa del giorno seguente, il pensiero del Kaiser andò ancora una volta alla Gran Bretagna. Vista insieme agli avvertimenti di Grey, la mobilitazione russa «provò» agli occhi di Guglielmo che ora l’Inghilterra aveva in mente di sfruttare il «pretesto» fornito dall’estendersi del conflitto in modo da poter «giocare la carta di tutte le nazioni europee a favore dell’Inghilterra contro di noi!»128.

Quindi, poco dopo le cinque del pomeriggio di sabato 1° agosto, arrivò la notizia sensazionale. Pochi minuti dopo che Berlino aveva diramato l’ordine di mobilitazione generale, giunse un telegramma di Lichnowsky da Londra, che riferiva di una riunione avuta quel mattino con il ministro degli Esteri britannico. Sembrava che Grey proponesse non solo di rimanere fuori dalla guerra se la Germania avesse rinunciato ad attaccare la Francia, ma di garantire anche per la neutralità francese. Il testo del cablogramma era il seguente:

Sir Edward Grey mi ha appena mandato a dire tramite Sir W. Tyrrell che spera di essere in grado questo pomeriggio, a seguito di un Consiglio dei ministri che è al momento in corso [Lichnowsky inviò il telegramma alle 11.14 del mattino], di rilasciarmi una dichiarazione che può risultare d’aiuto ad impedire la grande catastrofe. A giudicare da un rilievo di Sir W. Tyrrell ciò sembra voler dire che qualora noi non attaccassimo la Francia, anche l’Inghilterra rimarrebbe neutrale e garantirebbe la passività della Francia. Apprenderò i particolari oggi pomeriggio. Sir Edward Grey mi ha appena chiamato al telefono e mi ha chiesto se io pensavo di poter dare un’assicurazione che qualora la Francia rimanesse neutrale in una guerra tra la Russia e la Germania noi non attaccheremmo i francesi. Gli ho assicurato che potrei assumermi la responsabilità di una tale garanzia, ed egli userà questa assicurazione nell’odierna riunione del gabinetto. Aggiunta: Sir W. Tyrrell mi ha urgentemente pregato di utilizzare la mia influenza per impedire che le nostre truppe violino la frontiera francese. Tutto dipenderebbe da questo. Ha detto che nel caso in cui le truppe tedesche avessero già attraversato la frontiera, le truppe francesi si sarebbero ritirate129.

Storditi da questa offerta inaspettata, i governanti di Berlino si misero al lavoro per redigere una risposta calorosamente positiva alla nota. Ma la bozza del documento era ancora incompleta quando attorno alle otto di sera arrivò un ulteriore telegramma da Londra: «Come seguito [al mio precedente telegramma], Sir W. Tyrrell mi ha appena fatto visita e mi ha detto che questo pomeriggio Sir Edward Grey vuole presentare delle proposte per la neutralità dell’Inghilterra, perfino nel caso in cui noi fossimo in guerra con la Francia e con la Russia. Vedrò Sir Edward Grey alle 3.30 e riferirò immediatamente»130.

I messaggi da Londra costituirono il motivo di una violenta disputa fra l’imperatore e il capo di stato maggiore. La mobilitazione tedesca era già in corso, e ciò significava che si era messo in moto il grandioso meccanismo del piano Schlieffen. Dopo aver visto il primo telegramma di Lichnowsky, Guglielmo II ritenne che sebbene l’ordine di mobilitazione non potesse per il momento essere revocato, egli sarebbe stato disposto a bloccare qualsiasi mossa nei confronti della Francia in cambio della promessa di una neutralità anglo-francese. Sostenuto da Bethmann Hollweg, Tirpitz e Jagow, ordinò che non avrebbero dovuto esserci ulteriori movimenti di truppe fino all’arrivo di un successivo messaggio da Londra che chiarisse la natura della proposta britannica. Ma mentre il Kaiser e Bethmann Hollweg volevano cogliere l’opportunità di evitare la guerra in occidente, Moltke era del parere che, una volta messa in moto, la mobilitazione generale non potesse essere arrestata. «Ciò dette avvio a una discussione estremamente vivace e drammatica», avrebbe ricordato uno dei presenti. «Moltke, molto agitato, con le labbra che gli tremavano, insisté nel sostenere la sua posizione. Il Kaiser, il cancelliere e tutti gli altri lo implorarono invano»131. Sarebbe un suicidio, sostenne Moltke, lasciare le spalle della Germania esposte ad una Francia che stava mobilitando; in ogni caso, le prime pattuglie erano già entrate nel territorio del Lussemburgo, e la 16a Divisione partita da Treviri seguiva a poca distanza. Guglielmo II non si fece impressionare, e fece inviare a Treviri l’ordine che la 16a Divisione venisse fatta fermare prima del confine con il Lussemburgo. Quando Moltke scongiurò il Kaiser di non ostacolare l’occupazione del Lussemburgo, sostenendo che ciò avrebbe pregiudicato il controllo da parte della Germania della sua linea ferroviaria, l’imperatore replicò: «Usate altre linee!». La discussione giunse a un punto morto. Nel frattempo, Moltke era diventato quasi isterico. Rivolgendosi al ministro della Guerra Falkenhayn, il capo di stato maggiore confidò, quasi in lacrime, «che era un uomo totalmente distrutto, perché quella decisione del Kaiser gli dimostrava che egli sperava ancora nella pace»132.

Perfino dopo l’arrivo dell’ultimo telegramma, Moltke continuò a sostenere che il piano di mobilitazione non poteva in quella fase avanzata essere modificato per escludere la Francia, ma il Kaiser non volle prestargli ascolto: «Il vostro illustre zio non mi avrebbe dato una risposta del genere. Se lo ordino, dev’essere possibile»133. Guglielmo fece portare dello champagne, mentre Moltke corse via stizzito, dicendo a sua moglie che era perfettamente preparato a combattere contro il nemico, ma non con «un imperatore come questo». Lo stress di questo scontro fu tale, secondo la moglie di Moltke, da provocare al capo di stato maggiore un lieve colpo134.

Mentre si stappava lo champagne, Bethmann Hollweg e Jagow stavano ancora scrivendo la loro risposta al primo telegramma arrivato da Londra. La Germania avrebbe accettato la proposta, dicevano, «se l’Inghilterra avesse potuto garantire con tutta la sua forza armata la neutralità incondizionata della Francia in un conflitto russo-tedesco». La mobilitazione sarebbe continuata, ma nessun soldato tedesco avrebbe attraversato la frontiera francese fino alle 7 del mattino del 3 agosto, in attesa di una finalizzazione dell’accordo. Il Kaiser ribadì il messaggio in un suo cordiale telegramma al re Giorgio V, nel quale accettava la proposta di una «neutralità francese sotto garanzia della Gran Bretagna», ed esprimeva la speranza che la Francia non diventasse «nervosa». «Le truppe sulla mia frontiera stanno per essere fermate, tramite telegrafo e telefono, dal passare in Francia»135. Anche Jagow inviò un telegramma chiedendo a Lichnowsky di ringraziare Grey per la sua iniziativa136.

Poco dopo, arrivò un nuovo dispaccio di Lichnowsky. Nel frattempo il tanto atteso incontro delle 15.30 con Grey aveva avuto luogo, ma con gran sorpresa dell’ambasciatore tedesco, il ministro degli Esteri non propose la neutralità della Gran Bretagna o della Francia, né sembra che avesse sollevato la questione con i suoi colleghi nella seduta del governo. Egli accennò semplicemente all’ipotesi che gli eserciti tedesco e francese potessero, «nel caso di una guerra russa, rimanere l’uno di fronte all’altro senza attaccare», e quindi si concentrò su quelle azioni tedesche che avrebbero potuto innescare un intervento britannico. In particolare, avvertì Grey, «sarebbe molto difficile contenere l’impressione» che «una qualsiasi violazione della neutralità belga» da parte della Germania o della Francia produrrebbe in Inghilterra. Lichnowsky reagì con una domanda che cambiò le carte in tavola a sfavore del ministro degli Esteri: Grey sarebbe stato pronto a dargli l’assicurazione della neutralità britannica se la Germania si fosse impegnata a non violare il territorio belga? Piuttosto stranamente, questa apertura colse Grey di sorpresa – tanto che fu costretto a dire che non era in grado di dare una simile assicurazione, poiché l’Inghilterra doveva mantenere le mani libere. In altre parole, Grey sembrò retrocedere dalla sua prima proposta. Allo stesso tempo rivelò – forse inavvertitamente – di averla fatta senza prima consultare i francesi. Nel suo resoconto su questo colloquio sostanzialmente inconcludente, Lichnowsky riferiva semplicemente che i britannici non sembravano pronti a prendere nessun impegno che potesse limitare la loro libertà d’azione, ma che Grey aveva accettato di indagare la possibilità di uno stallo armato franco-tedesco137. A Berlino, questo dispaccio, che arrivò la sera presto, produsse una generale confusione, e non ottenne risposta.

Nel frattempo, tuttavia, il telegramma del Kaiser a re Giorgio V, con cui accettava entusiasticamente la proposta del governo britannico di una neutralità francese, era giunto a destinazione, suscitando costernazione a Londra. Nessuno, sembra, era al corrente del modo tortuoso con cui Grey quel giorno aveva proceduto, e il segretario agli Esteri venne convocato urgentemente a Buckingham Palace per fornire una spiegazione e preparare una risposta. Alle 21 circa, scrisse il testo che divenne la risposta di Giorgio V alla richiesta contenuta nel telegramma di Guglielmo II:

Dev’esserci un malinteso riguardo all’ipotesi formulata in un’amichevole conversazione di questo pomeriggio fra il principe Lichnowsky e Sir Edward Grey, mentre discutevano in che modo potrebbe essere evitato un vero e proprio combattimento fra gli eserciti tedesco e francese, essendovi ancora la possibilità di un qualche accordo fra l’Austria e la Russia. Sir Edward Grey fisserà un incontro domani presto con il principe Lichnowsky per accertare se c’è un malinteso da parte sua138.

Qualsiasi residua ambiguità venne fugata da un ulteriore telegramma del principe Lichnowsky, che aveva ricevuto da Jagow l’«accettazione» della «proposta» britannica più o meno nello stesso momento in cui a re Giorgio V era arrivato l’esuberante telegramma di suo cugino. Con compassata ironia, Lichnowsky scrisse: «Poiché non esiste alcuna proposta britannica, il vostro telegramma è inoperante. Quindi non ho fatto ulteriori passi»139.

A questo punto erano le 23 passate, e a Berlino Moltke, che si trovava al quartier generale dello stato maggiore a piangere lacrime di disperazione per l’ordine del Kaiser di bloccare la 16a Divisione, avrebbe potuto tirare un respiro di sollievo. Poco prima di mezzanotte, a Moltke venne ordinato di tornare al palazzo per essere informato sulle notizie contenute nell’ultimo dispaccio. Al suo arrivo, il Kaiser gli mostrò un ulteriore telegramma che aveva ricevuto, in cui veniva esposta la posizione (corretta) della Gran Bretagna, e disse: «Ora può fare quel che vuole»140.

Quali furono le responsabilità di Grey? Le comunicazioni che ebbe il 1° agosto con Lichnowsky, Cambon e vari colleghi britannici sono così complesse da dipanare che il tentativo di darne una spiegazione ha prodotto uno specifico dibattito nella letteratura sulle origini della guerra mondiale. Il 29 luglio, Grey aveva avvertito Lichnowsky che la Gran Bretagna avrebbe potuto essere obbligata a passare rapidamente all’azione se la Germania e la Francia fossero state trascinate nella guerra – fu questo episodio a suscitare i furiosi commenti scritti del Kaiser facendolo inveire contro i «farabutti» e i «meschini bottegai»141. Tuttavia, il 31 luglio egli avvertì anche il suo ambasciatore a Parigi, Bertie, che non ci si poteva aspettare che in patria l’opinione pubblica sostenesse l’intervento della Gran Bretagna in una questione così lontana dagli interessi del paese142. Forse Grey presentò davvero a Lichnowsky la prospettiva di una neutralità britannica; ciò significherebbe che in realtà non vi furono malintesi da parte di Lichnowsky su quelle che sostanzialmente erano le sue intenzioni143. In questa prospettiva, il «malinteso» diventa il modo con cui Grey poté districarsi dal ginepraio in cui era entrato. O forse era condizionato dal suo timore di non avere l’appoggio del governo britannico per la sua politica di sostegno alla Francia: se così fosse stato, a quel punto la proposta di neutralità avrebbe almeno offerto alla Gran Bretagna uno strumento per ottenere dalla Germania diverse assicurazioni (ad esempio l’impegno a non sferrare un attacco preventivo contro la Francia)144. Oppure può darsi che a Grey non interessasse affatto la neutralità, ma che subisse per un momento la pressione del suo alleato imperialista liberale, il Lord cancelliere Haldane, per trovare un modo d’impedire o di ritardare l’apertura delle ostilità tra la Francia e la Germania, così da avere tempo per preparare e addestrare meglio la forza di spedizione britannica. Anche l’ansia per la crescente fragilità dei mercati finanziari internazionali nell’ultima settimana di luglio può averlo fatto esitare145.

Quale che sia la valutazione del suo comportamento – e lo stesso disaccordo degli storici al riguardo è significativo –, è chiaro che le ambiguità di Grey arrivarono quasi al punto di diventare aperte contraddizioni. Offrire la neutralità britannica perfino nel caso di una guerra continentale che coinvolgesse la Francia sarebbe equivalso ad un clamoroso rovesciamento delle posizioni che il ministro degli Esteri aveva assunto in precedenza – tanto che è difficile pensare che fosse veramente questa la sua intenzione. D’altra parte, la proposta che la Francia e la Germania si mantenessero in una posizione di stallo armata è senza ombra di dubbio riscontrabile nei documenti. In un telegramma inviato a Bertie alle 5.25 del pomeriggio del 1° agosto, lo stesso Grey riferiva di aver detto all’ambasciatore tedesco che «dopo la mobilitazione sulla frontiera occidentale gli eserciti francese e tedesco dovrebbero fermarsi, senza varcare il confine finché l’altro non lo avesse fatto. Non saprei dire se ciò sarebbe conforme agli obblighi che i francesi hanno nel contesto della loro alleanza». Ma anche questa ipotesi era bizzarra, poiché si basava sul presupposto che la Francia potesse essere disposta ad abbandonare un’alleanza con la Russia per rafforzare la quale Poincaré e i suoi colleghi avevano fatto così tanto in anni recenti. Essa indica, nel migliore dei casi, una comprensione assai scarsa della reale situazione politica e militare generale146. In ogni caso, Grey venne presto richiamato all’ordine da Bertie, che sfogò la sua delusione per le speculazioni del segretario agli Esteri con una risposta assai impertinente:

Non riesco ad immaginare che nel caso in cui la Russia entri in guerra con l’Austria e venga attaccata dalla Germania, la Francia possa restare inattiva senza contraddire ai suoi obblighi verso la Russia. Se così avvenisse, i tedeschi dapprima attaccherebbero i russi e, qualora li sconfiggessero, si rivolgerebbero poi ai francesi. Devo chiedere informazioni precise su quali sono gli obblighi dei francesi nell’ambito dell’Alleanza franco-russa?147

Come sappiamo, questa curiosa opzione politica non ebbe seguito; lo stesso Grey la lasciò cadere ancor prima che l’acida nota di Bertie giungesse sul suo tavolo. Una cosa è certa: nel corso di quei tre giorni, Grey era sottoposto ad una fortissima pressione. Dormiva pochissimo, e non aveva modo di sapere se o quando il governo avrebbe appoggiato la sua politica a favore dell’intervento, e veniva spinto in direzioni contrastanti da vari colleghi, fra i quali gli anti-interventisti all’interno del suo stesso governo (i quali erano ancora in maggioranza) e gli interventisti dell’opposizione conservatrice.

Un’ulteriore fonte di pressione che può contribuire a spiegare le tergiversazioni del 1° agosto fu l’ordine di mobilitazione russa del 30 luglio. Il 31 luglio, a notte fonda, l’ambasciata tedesca informò Londra che in risposta all’ordine russo Berlino aveva dichiarato il Kriegsgefahrzustand, e annunciato che se la Russia non revocava immediatamente il suo ordine di mobilitazione generale, la Germania sarebbe stata costretta a mobilitare le proprie forze, il che a sua volta avrebbe «significato la guerra»148. Questa notizia fece suonare l’allarme a Londra. All’1.30 di notte, il primo ministro Herbert Asquith e il segretario privato di Grey, Sir William Tyrrell, si precipitarono a Buckingham Palace in taxi per svegliare il re in modo che potesse inviare un telegramma allo zar per arrestare la mobilitazione della Russia. Asquith avrebbe poi così descritto la scena:

Il povero sovrano è stato tirato giù dal letto, e devo dire che una delle mie più strane esperienze (e come sai ne ho avute un bel po’) è stata mettermi a sedere con lui – aveva una fasciatura marrone sopra la camicia da notte e copiosi segni indicavano che era stato svegliato dal suo sonno ristoratore – per leggergli il messaggio e l’ipotesi di risposta. Tutto quel che ha fatto è suggerire che il testo fosse reso più personale e diretto, inserendo l’espressione «Mio caro Nicky» e aggiungendo alla fine la firma «Georgie»!149

A partire da quel mattino all’alba, l’attività diplomatica si intensificò.

Potremmo considerare l’impatto della notizia arrivata da San Pietroburgo alla luce di quel che sappiamo riguardo all’ambivalenza dell’atteggiamento del Foreign Office sulla Russia negli ultimi mesi prima dello scoppio della Crisi di luglio. Come abbiamo visto, per un certo periodo Grey e Tyrrell avevano avuto dei ripensamenti sui rapporti con la Russia. Alla luce della persistente pressione operata dalla Russia sulla Persia e su altri territori imperiali periferici, era stata presa in esame l’ipotesi di abbandonare la Convenzione anglo-russa a favore di una politica più flessibile che non escludesse necessariamente un avvicinamento di qualche tipo con la Germania. Questa non diventò mai la linea del ministero degli Esteri, ma la notizia che la mobilitazione russa aveva già innescato le contromisure tedesche poneva almeno temporaneamente in primo piano l’aspetto russo della crisi che stava montando. I governanti britannici non avevano particolare interesse né simpatia per la Serbia. Era una guerra che riguardava l’Est, scaturita da problemi lontani dal pensiero ufficiale di Whitehall. Fu questo che indusse Grey a fraintendere le dinamiche in atto nello scenario balcanico?

La mattina del 29 luglio, Grey ricordò a Cambon (con suo grande orrore) che la Francia stava accettando di «essere tirata dentro una lite che non è sua, ma nella quale, in virtù della sua alleanza, il suo onore e il suo interesse la obbligherebbero a impegnarsi»; la Gran Bretagna, al contrario, era «libera da impegni e avrebbe deciso che cosa gli interessi britannici avrebbero richiesto che il governo facesse». «La nostra idea», aggiunse, «è sempre stata di evitare di essere trascinati in una guerra per la questione balcanica»150. Due giorni dopo, in seguito alla notizia della dichiarazione del Kriegsgefahrzustand a Berlino, riprese lo stesso argomento, sostenendo, contrariamente alle affermazioni di Cambon, che non c’era confronto fra la crisi in corso e quella di Agadir del 1911, quando la Gran Bretagna era andata in aiuto della Francia, perché «in questo caso la Francia è trascinata in una lite che non è sua»151. Quando Cambon espresse il suo grande disappunto per queste considerazioni, e chiese se la Gran Bretagna sarebbe stata pronta ad aiutare la Francia qualora fosse stata attaccata dalla Germania, Grey ribadì in modo ancor più netto le sue argomentazioni: «L’ultima notizia era che la Russia aveva ordinato una mobilitazione completa della flotta e dell’esercito. Questo, mi è sembrato, avrebbe provocato una crisi, facendo apparire che la Germania mobilitava perché costretta dalla Russia»152. Solo alla luce di questa prospettiva poteva sembrare ragionevole proporre uno stallo fra la Germania e la Francia, mentre la Russia, abbandonata dal suo alleato, fronteggiava da sola la Germania e l’Austria ad est. «Se la Francia non ha potuto avvantaggiarsi» dell’offerta, disse Grey a Cambon il pomeriggio del 1° agosto, «è stato perché era vincolata da un’alleanza della quale noi non facciamo parte, e della quale non conosciamo i termini»153. Nello scrivere queste parole, Grey non stava semplicemente tentando di raffreddare la temperatura negando il suo sostegno, o di guadagnare tempo per i preparativi militari; stava lottando con l’automatismo di uno specifico modo di concepire la Triplice Intesa – che lui stesso aveva in vari momenti condiviso ed espresso. Chiaramente lo inquietava, almeno in questo particolare frangente, che si potesse accettare che una remota disputa nell’Europa sud-orientale innescasse una guerra continentale, anche se nessuna delle tre potenze dell’Intesa era stata attaccata direttamente o era minacciata di esserlo. Alla fine Grey rimase coerente alla linea di fedeltà all’Entente che aveva seguito fin dal 1912, ma queste tergiversazioni ci richiamano alla mente uno dei fattori che resero ancor più complicata la Crisi di luglio, e cioè che le dolorose scelte fra opzioni contrapposte provocarono scissioni non solo nei partiti e nei governi, ma anche nelle menti dei principali responsabili delle scelte politiche.

Le tribolazioni di Paul Cambon

Per Paul Cambon questi furono i peggiori giorni della sua vita. Dal momento in cui seppe della nota inviata dagli austriaci a Belgrado, fu convinto che una guerra europea fosse imminente. Sebbene talvolta avesse criticato Poincaré perché incoraggiava i russi ad impegnarsi maggiormente nei Balcani, ora pensava che l’Alleanza franco-russa dovesse opporsi fermamente alla minaccia austriaca alla Serbia. Il pomeriggio del 25 luglio lasciò Londra per recarsi a indottrinare l’inesperto Bienvenu-Martin, che in quel momento faceva le funzioni di ministro degli Esteri; fu probabilmente in conseguenza di queste sollecitazioni che Bienvenu-Martin indirizzò all’ambasciatore tedesco quella decisa risposta che tanto piacque a Poincaré quando il 28 luglio ne venne informato, mentre era ancora in viaggio in mare154.

Per Cambon, come per Guglielmo II, tutto dipendeva dalla Gran Bretagna. «Se il governo britannico entrasse con decisione nell’intera questione oggi, la pace potrebbe essere salvata», disse al giornalista André Géraud il 24 luglio155. In una riunione con Grey la mattina del 28 luglio, sostenne lo stesso argomento: «Una volta che si desse per certo che la Gran Bretagna resterebbe fuori da una guerra europea, la possibilità di preservare la pace sarebbe estremamente a rischio»156. Anche in questo caso operava quel meccanismo che portava a dirottare sugli altri le responsabilità, facendo ricadere sulle loro spalle l’onere di decidere fra la pace e la guerra. In questa prospettiva, era la Gran Bretagna che ora aveva la responsabilità di preservare la pace facendo ricorso alla sua immensa potenza navale e commerciale per controbilanciare Berlino e dissuaderla dal sostenere il suo alleato. Per anni Cambon aveva detto ai suoi capi politici che potevano avere assoluta fiducia nel sostegno britannico.

La sua non era una situazione invidiabile. Dopo tutto non si trattava, a rigore, di una guerra difensiva, ma di uno scontro nel quale la Francia era stata chiamata ad appoggiare l’intervento russo in un conflitto balcanico – un obbligo in merito al quale egli stesso in precedenza aveva espresso preoccupazione. Il governo francese fece tutto il possibile per compensare questo svantaggio evitando scrupolosamente qualsiasi misura aggressiva contro la Germania: la mattina del 30 luglio, a Parigi, il Consiglio dei ministri decise che le truppe di copertura francesi avrebbero preso posizione lungo una linea che andava dai Vosgi al Lussemburgo, mantenendosi però ad almeno dieci chilometri dal confine. L’idea era di evitare qualsiasi possibilità che si verificassero schermaglie alla frontiera con le pattuglie tedesche, e convincere Londra della natura pacifica della politica francese. Si pensava che l’effetto morale e il valore propagandistico della zona di rispetto avessero maggior peso in confronto ai rischi militari. Londra venne immediatamente messa al corrente della nuova linea da Cambon157. Ma rimaneva il fatto, continuamente ribadito da Grey, che la Gran Bretagna non faceva parte dell’alleanza che presumibilmente obbligava la Francia ad intervenire, né era stata ufficialmente informata dei termini dell’alleanza stessa. Né la Russia né la Francia erano state attaccate o sottoposte a minacce dirette di attacco. Di fronte a Grey, Cambon poteva pure sostenere che la Francia era «obbligata ad aiutare la Russia nel caso che essa fosse attaccata», ma per il momento non c’erano segni che l’Austria e la Germania intendessero attaccare la Russia158. Né sembrava molto probabile che se i britannici avessero dichiarato la loro intenzione di intervenire ciò avrebbe fatto retrocedere le potenze centrali da una politica che avevano intrapreso senza consultare la Gran Bretagna.

Alla base di queste difficoltà c’era una diversità di prospettive che dipendeva dalla storia stessa dell’Entente anglo-francese. Cambon aveva sempre fiduciosamente dato per scontato che la Gran Bretagna, come la Francia, vedesse nell’Entente uno strumento utile a controbilanciare e contenere la Germania. Non si accorse che per i responsabili della politica britannica essa era funzionale al raggiungimento di obiettivi più complessi. Fra le altre cose, era un mezzo per scongiurare la minaccia che per i dispersi territori dell’Impero britannico proveniva dalla potenza che era nella posizione migliore per colpirli, cioè la Russia. Una probabile ragione dell’equivoco in cui incorse Cambon fu che egli dipendeva troppo dalle assicurazioni e dal parere del sottosegretario permanente Sir Arthur Nicolson, che si sentiva profondamente impegnato dai vincoli con la Russia e la Francia e si stava dando da fare per trasformare i rapporti con entrambe le potenze in vere e proprie alleanze. Ma Nicolson, per quanto influente, non era l’arbitro della politica londinese, e le sue opinioni erano sempre meno in sintonia con quelle della cerchia di Grey, che stava maturando diffidenza nei confronti della Russia ed era sempre più aperta ad una linea filotedesca (o al limite meno antitedesca)159. Si tratta di un classico esempio di quanto fosse difficile all’epoca interpretare le intenzioni sia degli alleati sia dei nemici, anche per chi era meglio informato.

Le divergenze in merito alla prospettiva geopolitica erano rese più nette dalla forte avversione dell’establishment politico britannico verso qualsiasi forma di impegno vincolante, a cui si aggiungeva una profonda ostilità nei confronti della Russia, soprattutto fra i principali liberali di orientamento radicale. L’Entente Cordiale finì quindi per rappresentare qualcosa di alquanto diverso agli occhi dei due alleati160. Per tutto il periodo in cui l’alleanza fu in vigore, il Foreign Office «cercò di minimizzare la portata dell’Entente, mentre il Quai d’Orsay s’impegnò per ricavarne il massimo»161. E tutte queste dissonanze vennero amplificate dai due uomini che a Londra incarnavano l’alleanza, Grey e Cambon: il primo, cauto ed evasivo, non teneva in alcun conto la Francia e l’Europa; il secondo, in tutto e per tutto francese, era completamente dedito all’Entente, che era e rimase la più alta realizzazione non solo della sua carriera politica, ma anche della sua vita di patriota.

Anche Grey agiva dovendo tener conto di forti condizionamenti. Il 27 luglio non riuscì ad ottenere l’appoggio del governo all’intervento, e fallì nell’intento anche due giorni dopo, quando la sua idea di indirizzare una formale proposta di assistenza alla Francia venne sostenuta soltanto da quattro dei suoi colleghi (Asquith, Haldane, Churchill e Crewe). Fu in quella stessa seduta che il governo respinse la tesi secondo cui il fatto che la Gran Bretagna fosse firmataria del trattato di neutralità belga del 1839 la obbligasse ad opporsi con la forza ad una violazione della neutralità da parte della Germania. I radicali sostennero che l’obbligo di far rispettare il trattato non ricadeva in modo specifico sulla Gran Bretagna, bensì sul complesso delle potenze firmatarie. Il governo stabilì che, qualora la questione si fosse presentata, si sarebbe trattato di «una decisione politica piuttosto che di un obbligo giuridico»162. Sia i francesi sia i russi sostenevano che solo una chiara dichiarazione di fedeltà della Gran Bretagna all’alleanza anglo-francese avrebbe convinto la Germania e l’Austria «ad abbassare la cresta»163. Da parte sua, Grey era sottoposto alle forti pressioni degli uomini a lui più vicini, come Nicolson e Eyre Crowe, che insistettero molto perché formulasse una dichiarazione di solidarietà con gli Stati dell’Intesa. In un memorandum del 31 luglio, Crowe gli fornì gli elementi da utilizzare contro i suoi oppositori all’interno del gabinetto. Potevano non esserci obblighi formali nei confronti della Francia – scriveva –, ma non si poteva certo negare che la Gran Bretagna avesse un obbligo «morale» nei confronti della sua «amica» al di là della Manica:

L’argomento secondo cui non esiste un vincolo scritto che ci leghi alla Francia è formalmente corretto. Non c’è un obbligo contrattuale. Ma l’Entente è stata fatta, rafforzata, messa alla prova e celebrata in modo tale da giustificare la convinzione che con essa veniva stretto un vincolo morale. L’intera politica dell’Entente potrebbe risultare priva di significato, se non comportasse che in una giusta disputa l’Inghilterra debba sostenere i suoi amici. È stata suscitata questa giusta aspettativa. Non possiamo ripudiarla senza esporre il nostro buon nome a gravi critiche164.

Nicolson, invece, concentrò la sua attenzione sul Belgio e sull’obbligo da parte della Gran Bretagna di difenderne la neutralità. Ma le condizioni nelle quali il gruppo di Grey aveva in passato elaborato la sua politica non sussistevano più. Il fulcro del processo decisionale si era spostato dal Foreign Office al gabinetto dei ministri, dove Grey non poteva contare su numerosi sostenitori di una politica di più stretta osservanza dell’Entente165.

Dopo una riunione del gabinetto, la mattina del 1° agosto, Grey spiegò a Cambon, che ne fu molto turbato, che il governo britannico era semplicemente contrario a qualsiasi intervento. Cambon disse che si rifiutava di trasmettere un simile messaggio a Parigi; avrebbe semplicemente comunicato che non era stata raggiunta alcuna decisione. Ma una decisione c’era stata, ribatté Grey: il governo aveva stabilito che il coinvolgimento degli interessi britannici non era tale da giustificare l’invio di una forza di spedizione sul continente. Preso dalla disperazione, l’ambasciatore francese spostò la discussione su un altro punto, ricordando a Grey che in base ai termini della Convenzione navale del 1912 la Francia aveva lasciato senza difese i suoi porti settentrionali, affidando di fatto la sicurezza delle sue coste alla Royal Navy. Anche in assenza di una formale alleanza, chiedeva, «la Gran Bretagna non ha forse un obbligo morale di aiutarci, o almeno di concederci il sostegno della vostra flotta, visto che è in base al vostro consiglio che abbiamo mandato via la nostra?». È sorprendente che Grey dovesse farselo ricordare da Cambon, ma l’argomento produsse il suo effetto. Il segretario agli Esteri riconobbe che un attacco tedesco alle coste francesi o una violazione tedesca della neutralità belga avrebbero potuto modificare l’orientamento dell’opinione pubblica britannica; ma soprattutto, s’impegnò a porre la questione delle coste francesi nella riunione del governo del giorno seguente. Cambon lasciò l’incontro bianco come un cencio, e quasi in lacrime. Quando entrò barcollando nella stanza degli ambasciatori, accanto all’ufficio di Grey, Nicolson lo accompagnò a sedersi, mentre biascicava: «Ci stanno per abbandonare. Ci stanno per abbandonare».

La Gran Bretagna interviene

In realtà, la situazione era meno grave di quanto Cambon supponesse. Nella situazione di crisi dei primi giorni di agosto, l’emozione giocava brutti scherzi. La paura di Cambon di essere abbandonato, e quella di Grey di essere messo in una situazione incontrollabile prima di aver avuto il tempo di assicurarsi l’appoggio alla sua politica, generarono dichiarazioni così nette e contrapposte da poterci indurre a interpretare in modo distorto quale fosse la situazione reale. Le circostanze stavano già orientandosi impercettibilmente a favore di un intervento della Gran Bretagna. Il 29 luglio, il suo governo aveva approvato la proposta di Churchill, Primo Lord dell’Ammiragliato, di procedere ad una mobilitazione della flotta a fini precauzionali. Quella sera stessa, Asquith fece in modo di comunicare a Churchill, con uno «sguardo severo» e una «specie di grugnito», il suo tacito consenso ad uno schieramento della flotta nelle basi di guerra. Il 1° agosto, senza la formale approvazione del governo (ma con l’implicito assenso del primo ministro), Churchill dette avvio alla mobilitazione della flotta.

Allo stesso tempo, l’opposizione conservatrice cominciò a darsi da fare sul serio a favore dell’intervento. La stampa tory aveva già cominciato a manifestare il proprio favore a una linea interventista. Mentre il «Manchester Guardian», il «Daily News» e lo «Standard», tutti di parte liberale, si attennero a una linea neutralista, il «Times» si pose alla guida dei fogli conservatori nel chiedere una posizione ferma contro l’Austria e la Germania e la partecipazione all’imminente guerra continentale. E dietro le quinte, il direttore delle operazioni militari, Henry Wilson, fiero sostenitore dell’intervento che in quei giorni venne spesso visto fare la spola fra l’ambasciata francese e il Foreign Office, avvertì i dirigenti conservatori che c’era il rischio che la Gran Bretagna abbandonasse la Francia.

Il 1° agosto, poco dopo il colloquio fra Cambon e Grey, il deputato conservatore George Lloyd si recò a far visita all’ambasciatore francese. Cambon era ancora sconvolto: che fine avevano fatto, chiese, gli accordi navali anglo-francesi, o le consultazioni fra gli stati maggiori, che presupponevano entrambi una politica di sicurezza congiunta? E cosa ne era delle numerose assicurazioni di aiuto ricevute dai britannici negli ultimi anni? «Tutti i nostri piani sono stati formulati in comune», esclamò. «I nostri stati maggiori si sono consultati. Avete visto tutti i nostri progetti e i nostri preparativi»166. Riuscendo a controllare le proprie emozioni, Cambon riuscì a trattare abilmente con il suo interlocutore. Il Foreign Office, disse, aveva di fatto attribuito la responsabilità della sua inazione all’opposizione conservatrice, lasciando intendere che non si poteva confidare che i tories appoggiassero alcuna iniziativa che potesse condurre alla guerra. Lloyd negò energicamente che ciò fosse vero, e lasciò l’incontro deciso a mobilitare un gruppo di conservatori favorevoli all’intervento. Quella notte si tenne una riunione a casa di Austen Chamberlain, e alle dieci del mattino seguente (2 agosto) un gruppo di eminenti esponenti conservatori, fra i quali Lansdowne e Bonar Law, capi dei conservatori nei due rami del parlamento, era stato conquistato alla causa. Venne inviata una lettera ad Asquith, nella quale si affermava che l’opposizione avrebbe appoggiato l’intervento e si sottolineava che la neutralità britannica avrebbe non soltanto danneggiato la reputazione del paese, ma anche messo a rischio la sua sicurezza167.

Era comunque all’interno del governo che sarebbe stata combattuta la battaglia decisiva. La maggioranza dei ministri era ancora decisamente contraria all’intervento. Molti di loro consideravano con sospetto l’Entente con la Francia ed erano profondamente ostili alla Convenzione con la Russia168. «Tutti desiderano star fuori», scrisse il 31 luglio Asquith a Venetia Stanley169. Almeno tre quarti dei ministri, ricordò in seguito Churchill, erano decisi a non essere trascinati in una «lite europea», a meno che la Gran Bretagna non venisse direttamente attaccata, «cosa che sembrava improbabile»170. E gli anti-interventisti potevano affermare, con qualche ragione, di avere il sostegno degli ambienti creditizi e commerciali di Londra: il 31 luglio, una delegazione di finanzieri della City fece visita ad Asquith per sollecitarlo a impedire che la Gran Bretagna si facesse coinvolgere in un conflitto europeo.

La riunione del gabinetto che si tenne la mattina del 1° agosto portò ad una polarizzazione e ad un chiarimento delle posizioni. Morley e Simon guidarono il gruppo contrario all’intervento, chiedendo che venisse approvata «ora e subito» una dichiarazione in cui si affermasse che «in nessuna circostanza» il governo britannico sarebbe entrato in campo. Churchill, invece, ebbe un atteggiamento «molto bellicoso», e chiese una «mobilitazione immediata». Grey sembrava orientato a dimettersi se il governo si impegnava per la neutralità. Haldane fu «indiretto» e «vago»171. Il governo si dichiarò contrario a un immediato schieramento della forza di spedizione britannica nel continente – decisione a cui non si opposero né Grey né gli altri imperialisti liberali (fu questa decisione a far piombare Cambon nella disperazione). John Morley era talmente sicuro del non intervento che sbandierò la vittoria del «partito della pace» dicendo a Churchill: «Alla fine vi abbiamo battuti»172.

Tuttavia, verso la fine del giorno seguente – domenica 2 agosto – il governo britannico aveva già compiuto dei passi cruciali in direzione dell’intervento. Durante la prima delle riunioni di governo di quel giorno, che si tenne dalle undici del mattino fino alle due del pomeriggio, Grey fu autorizzato ad informare l’ambasciatore francese che se la flotta tedesca avesse attraversato il Mare del Nord o fosse entrata nelle acque della Manica per disturbare le navi francesi o per attaccare la costa francese, la flotta britannica avrebbe garantito la sua piena protezione. Sir Walter Runciman, presidente del Consiglio per l’agricoltura e la pesca, disse in seguito che fu allora che il governo «decise che la guerra con la Germania era inevitabile»173. Nella successiva seduta del governo, che si tenne dalle 18.30 alle 20, si stabilì che una «sostanziale violazione» della neutralità belga avrebbe «costretto» la Gran Bretagna ad «entrare in azione»174. Si capì che quest’ultimo impegno avrebbe inevitabilmente comportato un intervento, poiché i tedeschi avevano chiarito al governo britannico che intendevano avanzare contro la Francia attraversando appunto il Belgio. Rendendosi conto che la sconfitta dei non interventisti era ormai segnata, dopo la prima riunione il presidente del Consiglio per il commercio John Burns annunciò le proprie dimissioni; alla fine della seconda, anche il visconte John Morley informò che avrebbe di lì a poco fatto lo stesso: «il partito della pace» era allo sbando.

Come fu possibile un così repentino rovesciamento degli equilibri? Per rispondere a questa domanda, è opportuno in primo luogo rilevare l’abilità con cui il gruppo degli interventisti stabilì i termini del dibattito. Il ministro Herbert Samuel contribuì ad incanalare la discussione stilando prima delle sedute del governo due formulazioni che indicavano come circostanze che potevano innescare una risposta armata britannica in primo luogo un bombardamento della costa francese da parte dei tedeschi e in secondo luogo una «sostanziale violazione» della neutralità belga. Parte dell’attrattiva di queste due proposte stava nel fatto che erano concepite per garantire che fosse «un’azione della Germania, e non nostra» ad impedire ogni altra ipotesi175. Nella seduta che si tenne la mattina del 2 agosto, Grey affermò con grande emozione che la Gran Bretagna aveva un obbligo morale di sostenere la Francia nel conflitto che si stava per aprire, aggiungendo: «Abbiamo portato la Francia a fare affidamento su di noi, e se non la sosteniamo nel suo tormento, non potrei continuare al Foreign Office [...]»176. E mentre gli interventisti si riunirono intorno a Grey e al primo ministro, il «partito della pace» non riuscì a raccogliere un consenso trasversale ai partiti o al di fuori del parlamento, e non produsse un leader in grado di contrapporsi efficacemente agli imperialisti e ai loro alleati conservatori.

Quanto furono importanti gli argomenti formulati dagli imperialisti liberali? Poiché la dichiarazione di guerra della Gran Bretagna contro la Germania del 4 agosto fece effettivamente seguito all’invasione tedesca del Belgio, e l’Entente si trasformò rapidamente in una vera e propria alleanza, la cui storia sarebbe stata in seguito riscritta come segnata da una duratura amicizia anglo-francese, si è di solito sostenuto che furono le questioni del Belgio e della Francia a trascinare il governo, il parlamento e il popolo britannico in guerra. Non è certo un’idea sbagliata: sarebbe impossibile negare l’importanza di questi due fattori nel legittimare la politica che venne adottata e nel saldare appunto quella union sacrée fra il governo, il parlamento e l’opinione pubblica che costituì un tratto così essenziale del mondo britannico all’inizio della guerra177. Nell’abile discorso che pronunciò davanti alla Camera dei comuni il 3 agosto, Grey fece dell’Entente anglo-francese un elemento integrante del consenso alla guerra che si stava affermando. Gli obblighi che la Gran Bretagna si era assunta nei confronti della Francia, disse, non avevano mai contemplato «un impegno a cooperare in guerra». Ma il fatto stesso dell’esistenza di una cooperazione navale fra i due paesi comportava un obbligo morale:

La flotta francese si trova adesso nel Mediterraneo, e le coste settentrionali e occidentali della Francia sono del tutto indifese. Essendo la flotta francese concentrata nel Mediterraneo, la situazione è assai diversa da com’era solitamente, poiché l’amicizia che si è sviluppata fra i due paesi ha conferito la certezza che non abbiano niente da temere da parte nostra. Le coste francesi sono del tutto indifese. La flotta francese si trova nel Mediterraneo, e da qualche anno è là concentrata in conseguenza del sentimento di fiducia e di amicizia che è esistito fra i due paesi178.

E a queste considerazioni morali Grey aggiungeva un motivo d’interesse, ricordando che se la Francia avesse ritirato la sua flotta dal Mediterraneo orientale, l’Italia avrebbe potuto cogliere l’opportunità di abbandonare la sua neutralità e la Gran Bretagna avrebbe potuto trovarsi costretta ad entrare in guerra per difendere le rotte commerciali mediterranee che erano d’importanza «vitale per questo paese». Fu, a giudizio di tutti, il discorso più riuscito della carriera politica di Grey; chiunque lo legga oggi non può evitare di rimanere impressionato da come, con lo stile signorile e l’accattivante pacatezza che lo caratterizzavano, egli indicasse le credenziali morali della posizione imperialista. Uno dei più significativi riconoscimenti gli arrivò dal liberale Christopher Addison, che era stato su posizioni anti-interventiste: «[il discorso di Grey] convinse, penso, tutta la Camera, forse con due o tre eccezioni, che eravamo costretti a partecipare»179. E una volta che la decisione fu presa, la nazione si allineò ad essa con stupefacente rapidità, dando vita ad una union sacrée britannica che andava dagli unionisti di ogni corrente al Partito laburista e perfino ai nazionalisti irlandesi180. La fiducia di Cambon nel segretario di Stato britannico si rivelò quindi fondata. C’erano stati effettivamente alcuni momenti difficili, ma da ultimo l’ambasciatore francese aveva avuto ragione, e in definitiva la vicenda era durata solo qualche giorno.

Ciò nonostante, il fatto che negli ultimi giorni di luglio né il Belgio né la Francia avessero rappresentato argomenti di grande peso nel governo britannico ci indica la necessità di valutare la questione in modo più sfumato e di distinguere fra le ragioni che portarono alle decisioni e gli argomenti scelti per sostenerle in pubblico e giustificarle. Dovettero esserci altri fattori in grado di determinare il passaggio dalla neutralità all’intervento, soprattutto se pensiamo ai ministri più indecisi, il cui sostegno era essenziale per l’approvazione di una risoluzione governativa. All’interno di questo contesto più circoscritto, le inquietudini dei partiti politici su come il governo liberale avrebbe potuto sopravvivere alle dimissioni di Grey e di Asquith ebbero sicuramente un’importanza cruciale. Dato il sostegno all’intervento da parte dell’opposizione conservatrice (a sua volta generato in parte dal suo atteggiamento sulla questione irlandese, in base al presupposto che l’intervento avrebbe comportato un rinvio a tempi indefiniti dell’applicazione dello Home Rule), c’era il rischio che la caduta del governo liberale provocasse semplicemente un breve rinvio dell’adozione della politica di Grey. Per coloro che rimasero indifferenti al problema della neutralità belga e degli accordi navali anglo-francesi, questo fu un argomento di notevole peso per impedire che il governo venisse spaccato dal dibattito sull’intervento181.

Alla base di questi calcoli vi era una preoccupazione più profonda riguardo al rischio che l’imminente conflitto comportava per la sicurezza britannica. Fin dal 1900 circa, la necessità di tener lontane le minacce russe aveva costituito un tema centrale della politica britannica. Nel 1902, la Gran Bretagna aveva utilizzato l’Alleanza anglo-giapponese per controbilanciare la presenza russa in Estremo Oriente. L’Entente anglo-francese del 1904 aveva ulteriormente indebolito la Russia, almeno nel suo ruolo di avversaria della Gran Bretagna, e la Convenzione del 1907 con la Russia aveva fornito, perlomeno in teoria, uno strumento per governare le tensioni in una periferia imperiale che la Gran Bretagna non poteva più permettersi di presidiare efficacemente con le sue guarnigioni. Nel 1914 la minaccia russa non era scomparsa, e di fatto riemerse nel corso dell’ultimo anno prima della guerra. A quell’epoca, il comportamento estremamente dispotico e provocatorio dei russi in Persia e in Asia centrale indusse alcuni responsabili politici di Londra a credere che la Convenzione anglo-russa potesse essere giunta al termine, e altri a spingere ancora di più per sottoscrivere un’alleanza con San Pietroburgo. Come scrisse nell’aprile del 1914 Buchanan a Nicolson, «la Russia sta rapidamente diventando così potente che dobbiamo mantenere la sua amicizia quasi ad ogni costo, perché se si convince che siamo un amico inaffidabile e inservibile, un giorno può stringere un accordo con la Germania e riprendere la propria libertà di azione in Turchia come in Persia»182. Oppure, come scrisse in modo più esplicito Nicolson nel 1912:

sarebbe molto più sfavorevole avere una Francia e una Russia ostili che una Germania ostile. [La Germania] ci può dare molto fastidio, ma non può minacciare realmente nessuno dei nostri più importanti interessi, mentre soprattutto la Russia potrebbe provocarci un estremo disagio e, di fatto, pericolo in Medio Oriente e sulla nostra frontiera indiana, e sarebbe assai spiacevole se dovessimo ritornare alla situazione che esisteva prima del 1904 e del 1907183.

Tuttavia fu per contenere la Germania, e non la Russia, che nel 1914 la Gran Bretagna entrò in guerra. Fra gli storici ci sono state discussioni riguardo all’impatto di quelli che appaiono due diversi paradigmi nelle politiche di sicurezza: mentre gli studi più vecchi (e anche alcuni successivi) sottolineano la centralità, nel pensiero e nell’indirizzo politico della Gran Bretagna, del concetto di equilibrio dei poteri su scala continentale, la recente storiografia di taglio revisionista ha ampliato il campo di osservazione a livello globale, sostenendo che fu la vulnerabilità della Gran Bretagna nel suo ruolo di potenza mondiale a costringerla a concentrarsi sulla Russia come principale minaccia alla propria sicurezza. È vero che la prospettiva continentale acquisì un peso maggiore dopo le crisi del 1905 e del 1911184, ma è fuorviante sopravvalutare la tensione fra le due prospettive, che spesso si presentavano congiuntamente nelle argomentazioni formulate dai responsabili politici. Ne è un esempio la nota apposta il 25 luglio 1914 da Eyre Crowe a un telegramma inviato da Buchanan, ambasciatore britannico a San Pietroburgo. Crowe continuava, come aveva sempre fatto, a sostenere una politica di equilibrio dei poteri a livello continentale, imperniata sul contenimento della Germania. Tuttavia faceva anche un esplicito richiamo alla sicurezza imperiale della Gran Bretagna:

Se la guerra dovesse arrivare, e l’Inghilterra rimanesse in disparte, una delle due seguenti cose dovrebbe accadere: a) O la Germania e l’Austria vincono, sconfiggono la Francia, e umiliano la Russia. Quale sarà la posizione di un’Inghilterra senza più amici? b) Oppure vincono la Francia e la Russia. Quale sarebbe allora il loro atteggiamento verso l’Inghilterra? Cosa succederebbe in India e nel Mediterraneo?185

In breve, nel 1914 i principali responsabili della politica britannica non furono costretti a scegliere fra un’opzione continentale e una imperialista. Che la minaccia principale venisse individuata nella Russia o nella Germania, il risultato era lo stesso, poiché l’intervento britannico a fianco dell’Intesa costituiva sia un modo per placare e vincolare a sé la Russia sia di opporsi e di contenere la Germania. Nella situazione del 1914, le logiche della sicurezza globale e di quella continentale confluirono entrambe nella decisione britannica di sostenere le potenze dell’Intesa contro la Germania e l’Austria.

Il Belgio

La politica francese associò un atteggiamento offensivo nel teatro russo a un approccio difensivo nella propria zona. La Germania fece il contrario. La necessità di combattere su due fronti costrinse gli strateghi tedeschi a ricercare una vittoria decisiva prima su un fronte, poi sull’altro. Venne data priorità all’attacco ad ovest, poiché era lì che i tedeschi prevedevano di incontrare la resistenza più decisa ed efficace. Sul fronte orientale, nel frattempo, a fronteggiare l’avanzata russa veniva lasciata una semplice forza di contenimento. L’equilibrio fra i contingenti orientali e quelli occidentali venne modificato negli ultimi anni prima della guerra, in quanto Moltke s’impegnò per affrontare la minaccia rappresentata dall’espansione militare e dagli sviluppi delle infrastrutture della Russia, ma la logica che stava alla base del piano rimase la stessa: la Germania avrebbe colpito per prima e più duramente ad ovest e distrutto il suo nemico occidentale prima di rivolgersi a quello orientale. Fin dal 1905 gli strateghi tedeschi avevano adottato l’assunto che il successo ad occidente sarebbe stato possibile solo se l’attacco alla Francia fosse avvenuto attraverso il Lussemburgo e il Belgio neutrali. L’attacco avrebbe attraversato due corridoi su entrambi i lati della foresta delle Ardenne, uno che portava in Lussemburgo, l’altro che si infilava intorno alla fascia di territorio olandese nota come il saliente di Maastricht per attraversare il Belgio meridionale. Un ampio attacco concentrico su cinque colonne contro la Francia settentrionale avrebbe aggirato le piazzeforti intorno a Verdun, Nancy, Epinal e Belfort, consentendo agli eserciti tedeschi di minacciare Parigi da nord-est e di ottenere quindi una rapida soluzione del conflitto sul fronte occidentale.

Moltke e i suoi subordinati nello stato maggiore consideravano questo piano di schieramento come la pura espressione di un’indiscutibile necessità militare. Non vennero formulati piani alternativi che potessero offrire ai governanti civili una possibilità di scelta fra opzioni diverse. L’unico scenario di schieramento alternativo, il Piano di campagna orientale, che prevedeva una mobilitazione contro la sola Russia, venne archiviato nel 1913. I comandanti militari si preoccupavano assai poco dell’impatto politico che la violazione della neutralità belga avrebbe potuto avere sulla libertà di manovra diplomatica nel corso della crisi cruciale che avrebbe deciso le sorti della pace. Gli storici hanno giustamente criticato la rigidità della pianificazione militare tedesca, vedendovi i frutti di un sistema politico nel quale l’esercito perseguiva i propri sogni di «distruzione assoluta», libero dal controllo o dalla supervisione da parte dei civili186. Ma alla base della limitazione delle opzioni strategiche ci fu anche un’attenta riflessione: la sempre maggiore interdipendenza degli accordi difensivi interni all’Alleanza franco-russa rendeva praticamente inconcepibile la prospettiva di una guerra su un unico fronte, e questo spiega l’abbandono del Piano di campagna orientale. E i militari tedeschi (diversamente dai loro colleghi francesi e dai dirigenti politici del loro stesso paese) non attribuivano grande importanza alla questione di un intervento britannico, che molti dei pianificatori consideravano militarmente irrilevante, un ulteriore esempio della mancanza di immaginazione politica e strategica.

Il 1° agosto, mentre si avvicinava il momento della mobilitazione tedesca, i governanti di Berlino commisero altri due madornali errori. L’esecuzione del piano di schieramento occidentale richiedeva una rapida e immediata invasione del Belgio. Per Moltke, non si poteva neppure prendere in considerazione la possibilità di rinviare la violazione della sua neutralità, perché il completamento delle misure di difesa nella città fortificata di Liegi e nella zona circostante avrebbe consentito al Belgio di arrestare l’avanzata tedesca e provocato enormi perdite. Questa insistenza sulla necessità di un’azione immediata era dal punto di vista politico problematica. Se la Germania avesse rimandato l’attraversamento della frontiera belga al momento in cui il concentramento delle sue forze fosse stato completo e le truppe fossero pronte all’attacco, gli eserciti belga e francese avrebbero avuto il tempo di rafforzare i loro preparativi difensivi. D’altra parte, per Grey e i suoi colleghi sarebbe stato molto più difficile (anche se probabilmente non impossibile) sostenere una linea interventista. Gli oppositori di Grey avrebbero potuto sostenere che era stata la Russia (e per estensione la Francia), e non la Germania, ad accelerare il passo; agli interventisti britannici sarebbe venuto a mancare uno dei loro più efficaci argomenti. Consapevole di ciò, l’ammiraglio Tirpitz, un navalista che comprendeva quanto fosse importante il ruolo della Gran Bretagna, formulò in seguito il seguente interrogativo: «Perché non attendemmo?»187.

La presentazione di un ultimatum al governo belga, il 2 agosto, fu un altro errore disastroso. Data la decisione di violare la neutralità belga e l’urgenza di procedere rapidamente, avrebbe potuto essere preferibile (dal punto di vista tedesco) penetrare subito nel territorio belga, presentare in un modo o nell’altro le proprie scuse e in seguito affrontare la questione come un fatto compiuto proponendo un indennizzo. È esattamente questo che il governo britannico si aspettava che i tedeschi facessero. E i ministri del governo Asquith, compreso Churchill, avevano ripetutamente espresso l’opinione che la Gran Bretagna non avrebbe necessariamente considerato un attraversamento del Belgio da parte della Germania come un casus belli, se i tedeschi rimanevano a sud della linea Sambre-Mosa, lasciando quindi libera la regione di delicata importanza strategica intorno ad Anversa e all’estuario della Schelda.

I dirigenti politici tedeschi, d’altra parte, ritenevano che non esistessero alternative ad un ultimatum, perché questo sembrava loro l’unico modo possibile per strappare un accordo di qualche tipo con Bruxelles e tenere quindi fuori dal conflitto la Gran Bretagna. L‘ultimatum, redatto da Moltke il 26 luglio e successivamente rivisto dal ministero degli Esteri a Berlino, era formulato in modo da sollecitare il Belgio ad una ragionevole valutazione del suo interesse nazionale, alla luce dell’enorme squilibrio delle forze in campo. Il testo si apriva affermando che i tedeschi ritenevano imminente un attacco francese attraverso il territorio belga, e che il governo tedesco avrebbe provato «profondo rammarico se il Belgio [avesse] considera[to] come un atto di ostilità il fatto che le misure dei suoi avversari costring[evano] la Germania a penetrare, per la propria difesa, nel territorio belga». Seguiva quindi una serie di punti: la Germania avrebbe (punto 1) garantito tutto il territorio del regno belga, (punto 2) evacuato il territorio belga a conclusione della pace e (punto 3) proceduto a rimborsare in contanti i costi sostenuti dal Belgio e i danni provocati dalle truppe tedesche. Se il Belgio si fosse opposto alle truppe tedesche, tuttavia (punto 4), «la Germania, suo malgrado, si vedrebbe costretta a trattarlo come un nemico». Ma se ciò fosse stato evitato, «gli amichevoli rapporti che uniscono i due Stati» si sarebbero «accresciuti e fortificati in modo durevole»188.

All’ultimo momento erano state apportate due significative modifiche alla nota. Innanzi tutto, il termine indicato per la risposta belga venne ridotto da ventiquattro a dodici ore su richiesta di Moltke, a cui premeva entrare in azione prima possibile. Poi venne cancellata una clausola in cui si lasciava aperta la possibilità che il Belgio, qualora avesse mantenuto un atteggiamento amichevole, ottenesse compensi territoriali «a spese della Francia»; ciò perché il ministero degli Esteri si accorse improvvisamente che essa avrebbe potuto irritare i britannici ancor più della stessa violazione del territorio belga. Il fatto che in un primo momento Bethmann Hollweg non si fosse reso conto di questo problema non getta certo una luce favorevole sulle sue capacità di analisi politica nel momento culminante della crisi189.

Dal momento in cui il ministro tedesco Claus von Below-Saleske consegnò la nota al ministro degli Esteri belga Julien Davignon, per la Germania tutto cominciò ad andare per il peggio. Se Moltke si fosse limitato ad attraversare la parte meridionale del Belgio, sarebbe stato possibile contenere la portata della violazione della neutralità nei termini di una pura opportunità militare. Ma la nota costrinse il governo belga a formulare una posizione di principio prima dell’azione che veniva annunciata. Tale compito spettò al re e al capo del governo, il conte Charles de Broqueville. Questi portò con sé una traduzione francese del testo quando alle otto di sera si recò al Palazzo reale per incontrare il sovrano. Sul tenore della loro risposta non potevano esserci dubbi. Il re belga era famoso per la sua rettitudine e la sua determinazione, e Broqueville era un distinto patriota belga, un uomo dei tempi andati. Essi considerarono la nota come un affronto all’onore belga, ed è difficile immaginare che avrebbero potuto fare altrimenti. Un’ora dopo, alle 21, l’ultimatum tedesco venne discusso dal Consiglio dei ministri e quindi dal Consiglio della corona, al quale, oltre ai ministri in carica, parteciparono numerosi illustri uomini di Stato, titolari di cariche ministeriali onorarie. Non ci fu alcun dibattito: fin dall’inizio era chiaro che il Belgio avrebbe opposto resistenza. Durante la notte al ministero degli Esteri venne redatta una risposta improntata ad un tono di profonda dignità e chiarezza, che culminava in un nobile rifiuto delle richieste tedesche: «Il governo belga, accettando le proposte che gli sono notificate, sacrificherebbe l’onore della nazione e nello stesso tempo tradirebbe i suoi doveri di fronte all’Europa»190.

La mattina del 3 agosto i testi dell’ultimatum e della risposta belga vennero mostrati al ministro francese a Bruxelles, Antony Klobukowski, che passò immediatamente la notizia all’agenzia Havas. In Belgio e nei paesi dell’Intesa scoppiò una tempesta mediatica, suscitando ovunque indignazione. Il Belgio fu percorso da un’ondata di emozione patriottica. Nelle strade di Bruxelles e delle maggiori città del paese sventolavano le bandiere nazionali; tutti i partiti, dai liberali anticlericali e dai socialisti fino ai cattolici clericali, promisero che avrebbero difeso con determinazione la patria e l’onore nazionale contro l’invasore191. Alla Camera dei deputati, quando il 5 agosto re Alberto I parlò dell’esigenza di mantenere l’unione della nazione per difendere la patria chiedendo ai deputati «Siete determinati a conservare ad ogni costo la sacra eredità dei nostri avi?», ci furono acclamazioni deliranti192. L’ultimatum tedesco si rivelò così un «terribile errore dal punto di vista psicologico»193, e fu una presenza costante nella propaganda in tempo di guerra, mettendo in ombra le complessità del processo che aveva portato al conflitto e conferendo allo sforzo bellico dell’Intesa un incrollabile senso di superiorità morale.

Molti tedeschi rimasero scioccati dalla decisione belga di resistere a oltranza. «Poveri matti», esclamò un diplomatico della legazione tedesca a Bruxelles. «Poveri matti! Perché non si tolgono dalla strada del rullo compressore? Non li vogliamo ferire, ma se si mettono sulla nostra strada verranno schiacciati come la polvere. Poveri matti!»194. Fu forse perché si resero conto di ciò che i tedeschi rinnovarono ai belgi il loro appello alla ragione solo sei giorni dopo, l’8 agosto. La fortezza di Liegi, che Moltke riteneva tanto importante, era stata nel frattempo conquistata dopo aver opposto un’accanita difesa, con notevoli perdite. In una nota trasmessa a Brand Whitlock, rappresentante diplomatico americano a Bruxelles, il governo di Berlino espresse il proprio rammarico «per i sanguinosi scontri davanti a Liegi», per poi aggiungere:

Dopo che l’esercito belga ha difeso l’onore delle armi con la sua eroica resistenza a una forza assai superiore, il governo tedesco prega il re dei belgi e il governo belga di risparmiare al paese gli ulteriori orrori della guerra. [...] La Germania rinnova la solenne assicurazione di non avere l’intenzione di appropriarsi del Belgio e che tale intenzione è lontana dai suoi pensieri. La Germania è sempre pronta ad evacuarlo non appena la situazione della guerra glielo permetta195.

Ma anche questa proposta venne respinta.

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Con il susseguirsi di mobilitazioni generali, ultimatum e dichiarazioni di guerra, la storia che questo libro si è proposto di raccontare giunge al termine. Nel corso dell’ultima riunione con Sazonov a San Pietroburgo, sabato 1° agosto, l’ambasciatore Pourtalès biascicò «parole incomprensibili», scoppiò in lacrime, e balbettò: «È questo dunque il risultato della mia missione!», e si precipitò fuori dalla stanza196. Quando il 2 agosto il conte Lichnowsky chiamò Asquith, trovò il primo ministro «assai abbattuto», con le lacrime che «gli scorrevano giù dalle guance»197. A Bruxelles, i consiglieri della legazione tedesca, in procinto di partire, erano a sedere sul bordo delle sedie in una stanza con le persiane chiuse, fra scatole e documenti impacchettati; si asciugavano la fronte per il caldo e fumavano una sigaretta dopo l’altra per tenere a bada l’agitazione198.

Il tempo della diplomazia stava per concludersi, mentre cominciava il tempo dei soldati e dei marinai. Quando il plenipotenziario militare bavarese a Berlino si recò presso il ministero della Guerra tedesco dopo l’emanazione dell’ordine di mobilitazione, trovò «dappertutto volti raggianti, strette di mano nei corridoi; ci si congratulava per aver affrontato l’ostacolo»199. Il 30 luglio, a Parigi, il colonnello Ignat’ev assisté alla «gioia non dissimulata» dei suoi colleghi francesi «per avere la possibilità di utilizzare, come pensano i francesi, circostanze strategiche favorevoli»200. Il Primo Lord dell’Ammiragliato Winston Churchill si rallegrò al pensiero dello scontro imminente: «Tutto tende verso la catastrofe, il crollo», scrisse a sua moglie il 28 luglio; «mi coinvolge, sono pronto e contento»201. A San Pietroburgo, un gioviale Aleksandr Krivošein assicurò a una delegazione di deputati della Duma che in breve tempo la Germania sarebbe stata travolta, e che per la Russia la guerra era una benedizione: «Dipende da noi, signori, sarà tutto magnifico»202.

Mansell Merry, vicario di St. Michael a Oxford, era stato a San Pietroburgo a metà luglio per officiare nei mesi estivi come cappellano presso la chiesa inglese della città. Quando venne annunciato l’ordine di mobilitazione, cercò scampo imbarcandosi su una nave a vapore per Stoccolma, la Døbeln, che però venne bloccata in porto: tutti i fari lungo la baia di Finlandia erano stati spenti, e ai forti di Kronstadt era stato ordinato di aprire immediatamente il fuoco su qualsiasi imbarcazione che tentasse di varcare la zona minata. Il 31 luglio a San Pietroburgo era brutto tempo, il cielo era grigio e burrascoso, e Merry si trovò costretto a restare a bordo con tutti gli altri aspiranti viaggiatori, ad osservare schiere di soldati e di riservisti della marina che percorrevano la banchina Nikolaevskaja. Alcuni marciavano sui «motivi ritmati» di una banda di ottoni, ma la maggior parte «si trascinavano, col fagotto in spalla o in mano, in un cupo silenzio; le donne, molte delle quali piangevano come se si spaccasse loro il cuore, cercavano ansimanti di tenere il passo con i loro mariti, figli o innamorati, su entrambi i lati; intanto le compagnie sfilavano una dopo l’altra»203.

Nella notte fra il 1° e il 2 agosto, il boulevard du Palais, nel centro di Parigi, risuonava dello stesso rumore di uomini in marcia, che in lunghe colonne si dirigevano verso la Gare de l’Est e la Gare du Nord. Non si udivano musiche, né canti, né acclamazioni, solo lo scalpiccio degli scarponi, lo zoccolare di centinaia di cavalli, il rombo degli autocarri e lo scricchiolio delle ruote metalliche sull’acciottolato quando i pezzi di artiglieria passavano sotto le finestre buie delle case, i cui occupanti dovevano in molti casi essere rimasti svegli e guardavano assonnati il fosco spettacolo dalle loro finestre204.

Le reazioni della popolazione alla notizia della guerra smentivano l’affermazione, così spesso espressa dagli statisti, che i responsabili della decisione di aprire il conflitto vi fossero stati spinti dall’opinione pubblica. È senza dubbio vero che non vi furono azioni di resistenza contro la chiamata alle armi, e che quasi tutti gli uomini si presentarono più o meno di buon grado ai loro punti di raduno205. Alla base di questa disponibilità ad arruolarsi non c’era un entusiasmo per la guerra in quanto tale, ma un patriottismo difensivo, perché l’eziologia di questo conflitto fu talmente strana e complessa che in tutti gli Stati belligeranti i soldati e i civili poterono convincersi che la loro era una guerra di difesa, che i loro paesi erano stati attaccati e provocati da un nemico agguerrito, che i loro rispettivi governi avevano fatto ogni sforzo per salvaguardare la pace206. Nel momento in cui i grandi blocchi di alleanze si preparavano per la guerra, l’intricata catena di eventi che aveva innescato la conflagrazione sparì rapidamente dalla vista. «Nessuno sembra ricordare», annotò il 2 agosto nel suo diario un diplomatico americano a Bruxelles, «che pochi giorni fa la Serbia stava svolgendo un ruolo da protagonista in questa vicenda. Ora sembra che sia sparita dietro le quinte»207.

Vi furono isolate espressioni di entusiasmo sciovinista per la guerra che si apriva, ma si trattò di eccezioni. Il mito secondo cui gli uomini europei colsero volentieri l’opportunità di sconfiggere un nemico odiato è stato ampiamente smentito208. Per la maggior parte delle persone, quasi ovunque, la notizia della mobilitazione rappresentò un profondo choc, un fulmine a ciel sereno. E più ci si allontanava dai centri urbani, meno le notizie della mobilitazione sembravano essere comprese dalle persone che si apprestavano a combattere, a morire, a rimanere mutilate o a perdere un congiunto nella guerra che si stava aprendo. Nei villaggi della campagna russa regnava un «silenzio attonito», rotto soltanto dal suono di «uomini, donne e bambini che piangono»209. A Vatilieu, una piccola comunità nella regione delle Alpi del Rodano, nel Sud-est della Francia, i braccianti e i contadini vennero richiamati nella piazza del paese dalle campane che suonavano a stormo. Alcuni, accorsi direttamente dai campi, avevano ancora in mano i forconi.

«Cosa può significare? Cosa ci accadrà?», chiedevano le donne. Mogli, figli, mariti, tutti erano sopraffatti dall’emozione. Le mogli si aggrappavano alle braccia dei loro uomini. I bambini, vedendo le madri in lacrime, cominciavano anche loro a piangere. Intorno a noi, solo allarme e costernazione. Una scena inquietante210.

Un viaggiatore inglese avrebbe ricordato la reazione a cui assisté in un paesino cosacco nella regione degli Altaj (Semipalatinsk, oggi Semej, in Kazakistan) quando una «bandiera blu» tenuta alta da un cavaliere e alcuni squilli di tromba che suonavano l’allarme portarono la notizia della mobilitazione. Lo zar aveva parlato, e i cosacchi, forti della loro straordinaria vocazione e tradizione militare, «ardevano dal desiderio di combattere contro il nemico». Ma chi era il nemico? Non lo sapeva nessuno. Il telegramma che ordinava la mobilitazione non forniva alcun particolare. Le voci abbondavano. In un primo momento tutti immaginarono che la guerra fosse contro la Cina: «La Russia si è spinta troppo avanti in Mongolia, e la Cina ha dichiarato guerra». Poi, circolò un’altra voce: «È con l’Inghilterra, è con l’Inghilterra». Per un po’ di tempo, fu questa l’idea che prevalse.

Solo dopo quattro giorni la verità si fece strada, e nessuno ci credette211.

1 La trattazione classica è quella di Anthony T.Q. Stewart, The Ulster Crisis, London 1969.

2 Si veda Ian F.W. Beckett, The Army and the Curragh Incident 1914, London 1986; James Fergusson, The Curragh Incident, London 1964.

3 Zara S. Steiner, Britain and the Origins of the First World War, London 1977, p. 215; Keith Jeffery, Field Marshal Sir Henry Wilson. A Political Soldier, Oxford 2006, p. 126.

4 Asquith a Venetia Stanley, 30 giugno 1914 (in Herbert H. Asquith, Letters to Venetia Stanley, a cura di Michael Brock, Eleanor Brock, Oxford 1985, p. 93).

5 Asquith a Venetia Stanley, 24 luglio 1914 (ivi, p. 122).

6 Grey a Bertie, Londra, 8 luglio 1914 (in Julikrise und Kriegsausbruch 1914. Eine Dokumentensammlung, a cura di Imanuel Geiss, 2 voll., Hanover 1963-1964, vol. I, doc. 55, p. 133; BD, vol. XI, doc. 38, p. 30).

7 Grey a Buchanan, Londra, 8 luglio 1914 (in Julikrise und Kriegsausbruch 1914 cit., vol. I, doc. 56, pp. 133-135; BD, vol. XI, doc. 39, pp. 30-31).

8 Conversazioni riportate in Lichnowsky a Bethmann Hollweg, Londra, 9 luglio 1914 (in Julikrise und Kriegsausbruch 1914 cit., vol. I, doc. 60, pp. 136-137).

9 Mensdorff al ministero degli Esteri a Vienna, Londra, 17 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10337, pp. 480-481).

10 Mensdorff al ministero degli Esteri a Vienna, Londra, 24 luglio 1914 (ivi, vol. VIII, doc. 10660, p. 636).

11 Steiner, Britain and the Origins cit., p. 222.

12 Cit. in Harold D. Lasswell, Propaganda Technique in the World War, New York 1927, p. 49.

13 Adrian Gregory, A Clash of Cultures. The British Press and the Opening of the Great War, in A Call to Arms. Propaganda, Public Opinion and Newspapers in the Great War, a cura di Troy E. Paddock, Westport 2004, pp. 15-50, in particolare p. 20.

14 «John Bull», 11 luglio 1914, p. 6; Niall Ferguson, Pity of War, London 1998, p. 219; Gregory, A Clash of Cultures cit., pp. 20-21.

15 Bosković a Pašić, Londra, 12 luglio 1914 (AS, MID-PO, 412, c. 36; l’articolo offensivo è in «John Bull», 11 luglio 1914, p. 6).

16 Winston S. Churchill, The World Crisis, 2 voll., London 1968 (ristampa) [London 1923, p. 193], vol. I, p. 114 (trad. it. La crisi mondiale, Roma 1929, vol. I, 1911, p. 154).

17 Steiner, Britain and the Origins cit., pp. 224-225.

18 Estratti della presentazione di Wilson al Comitato per la difesa imperiale del 23 agosto 1911 sono riportati in BD, vol. VIII, doc. 314, pp. 381-382.

19 Cit. in Michael Brock, Britain Enters the War, in The Coming of the First World War, a cura di Robert J.W. Evans, Hartmuth Pogge von Strandmann, Oxford 1988, pp. 145-178, in particolare pp. 150-151.

20 Si veda The Political Diaries of C.P. Scott 1911-1928, a cura di Trevor Wilson, London 1970, pp. 96-97 e 104.

21 Brock, Britain Enters the War cit., pp. 153-154.

22 Grey a Rumbold, Londra, 20 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 68, p. 54).

23 Sull’incoerenza e l’impraticabilità della proposta di Grey di un «concerto», si veda Sidney Bradshaw Fay, The Origins of the First World War, 2 voll., New York 1928, vol. II, pp. 360-362.

24 Buchanan a Grey, San Pietroburgo, 26 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 155, p. 107).

25 Nicolson a Grey (in cui si riporta una comunicazione da parte dell’ambasciatore tedesco), 26 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 146, p. 155).

26 Il lungo resoconto di Benckendorff in merito alla conversazione con Grey dell’8 luglio conferma che il segretario agli Esteri britannico non contestava l’opinione russa in merito alla situazione della Serbia, ma guardava alla crisi esclusivamente nei termini dei rapporti fra i due gruppi di alleanze: Benckendorff a Sazonov, Londra, 9 luglio 1914 (IBZI, serie 3, vol. IV, doc. 146, pp. 141-144).

27 Buchanan a Grey, San Pietroburgo, 24 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 101, pp. 80-82).

28 Appunto di Crowe datato 25 luglio 1914 su una lettera di Buchanan a Grey, San Pietroburgo, 24 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 101, p. 81).

29 Lichnowsky a Jagow, Londra, 29 luglio 1914 (in Deutsche Dokumente zum Kriegsausbruch, a cura di Max Montgelas, Karl Schücking, Charlottenburg 1919, vol. I, doc. 368, pp. 86-89, in particolare p. 87).

30 Grey a Goschen, Londra, 30 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 303, pp. 193-194).

31 Sull’accettazione da parte di Grey delle accuse austriache alla Serbia, si veda Steiner, Britain and the Origins cit., pp. 220-223.

32 Dal diario di Poincaré, 25 luglio 1914 (Notes journalières, BNF 16027).

33 Ibid.

34 Ibid. (il corsivo è mio).

35 Jean-Jacques Becker, 1914. Comment les français sont entrés dans la guerre. Contribution à l’étude de l’opinion publique printemps-été 1914, Paris 1977, p. 140; sulla passività francese, si veda John Keiger, France and the Origins of the First World War, London 1983, pp. 166-167, e Id., France, in Decisions for War 1914, a cura di Keith M. Wilson, London 1995, pp. 121-149, in particolare pp. 122-123.

36 Sull’opinione pubblica svedese, che si diceva «vivesse nella paura della Russia», si veda Buisseret a Davignon, San Pietroburgo, 28 novembre 1913 (MAEB AD, Russie 3, 1906-1914).

37 La conversazione è riportata nel diario di Poincaré, 23 luglio 1914 (Notes journalières, BNF 16027).

38 Dal diario di Poincaré, 25 luglio 1914 (ibid.).

39 Ibid.

40 Dal diario di Poincaré, 27 luglio 1914 (ibid.). La France era già in rotta verso Copenaghen quando venne presa la decisione di tornare a Parigi.

41 Ibid.

42 Ibid.

43 Ibid.

44 Ibid.

45 Dal diario di Poincaré, 28 luglio 1914 (ibid.).

46 Keiger, France and the Origins cit., p. 123; Stefan Schmidt, Frankreichs Aussenpolitik in der Julikrise 1914. Ein Beitrag zur Geschichte des Ausbruchs des Ersten Weltkriegs, München 2009, p. 313.

47 Dal diario di Poincaré, 29 luglio 1914 (Notes journalières, BNF 16027).

48 Joseph Caillaux, Mes Mémoires, 3 voll., Paris 1942-1947, vol. III, Clair­voyance et force d’âme dans mes épreuves, 1912-1930, pp. 169-170.

49 Dal diario di Poincaré, 29 luglio 1914 (Notes journalières, BNF 16027).

50 Laguiche a Messimy, San Pietroburgo, 26 luglio 1914 (DDF, serie 3, vol. XI, doc. 89, pp. 77-78).

51 Nel manoscritto della Bibliothèque Nationale la relativa pagina è mancante: si veda il diario di Poincaré, 29 luglio 1914 (Notes journalières, BNF 16027, c. 124). Nell’ultimo paragrafo prima della pagina mancante si legge che i britannici avevano chiesto a Sazonov di esprimere un’opinione sull’idea di convocare una Conferenza degli ambasciatori delle Quattro potenze a Londra, per risolvere la questione austro-serba; la pagina si interrompe, lasciando aperti i dubbi, con le parole «Sazonov purtroppo ha».

52 Caillaux, Mes Mémoires cit., vol. III, pp. 170-171.

53 Sazonov a Izvol’skij, San Pietroburgo, 29 luglio 1914 (IBZI, serie 3, vol. V, doc. 221, pp. 159-160); si veda anche la Note de l’Ambassade de Russie. Communication d’un télégramme de M. Sazonoff, 30 luglio 1914 (DDF, serie 3, vol. XI, doc. 301, pp. 257-258).

54 Schmidt, Frankreichs Aussenpolitik cit., p. 321.

55 Estratti della risposta sono riportati nella lettera di Viviani a Paléologue e a Paul Cambon, Parigi, 30 luglio 1914 (DDF, serie 3, vol. XI, doc. 305, pp. 261-263); la mia interpretazione di questo documento segue quella di Schmidt, Frankreichs Aussenpolitik cit., pp. 317-320.

56 Si veda Keiger, France and the Origins cit., p. 147.

57 Gabriel Hanotaux, Carnets 1907-1925, a cura di Georges Dethan, Georges-Henri Soutou, Marie-Renée Mouton, Paris 1982, pp. 103-104.

58 Dal diario di Poincaré, 30 luglio 1914 (Notes journalières, BNF 16027); su questo collegamento si veda Schmidt, Frankreichs Aussenpolitik cit., p. 322.

59 Izvol’skij a Sazonov, Parigi, 30 luglio 1914 (IBZI, serie 3, vol. V, doc. 291, pp. 201-202; il corsivo è mio); si veda la relativa analisi in Keiger, France and the Origins cit., p. 127; Schmidt, Frankreichs Aussenpolitik cit., pp. 323-324.

60 Cit. in Schmidt, Frankreichs Aussenpolitik cit., p. 326; l’autore sostiene che probabilmente quel che Messimy intendeva quando faceva riferimento ad un’accelerazione senza «trasferimenti in massa di truppe» era una mobilitazione senza concentramento di truppe.

61 Dal diario di Poincaré, 30 luglio 1914 (Notes journalières, BNF 16027).

62 Dobrorol’skij, La mobilization de l’armée russe cit., p. 147; l’articolo Rossija chočet mira, no gotova vojne apparve su «Birževija Vedomosti» e venne ripubblicato il 13 luglio 1914 sull’organo nazionalista «Reč».

63 Dobrorol’skij, La mobilization de l’armée russe cit., p. 147.

64 Ivi, pp. 148-149.

65 How the War Began in 1914. Being the Diary of the Russian Foreign Office from the 3rd to the 20th (Old Style) of July, 1914, a cura di M.F. Schilling, London 1925, p. 62.

66 Sergeï Dmitrievich [Sergej Dmitrievič] Sazonov, Les années fatales, Paris 1927, p. 216.

67 Ivi, pp. 217-220; un’eccellente esposizione di questi eventi è quella di Fay, The Origins cit., vol. II, pp. 450-481.

68 Dobrorol’skij, La mobilization de l’armée russe cit., p. 151.

69 Queste discrepanze sono discusse in Bruce W. Menning, Russian Military Intelligence, July 1914. What San Pietroburgo Perceived and Why It Mattered, dattiloscritto inedito, p. 23; si veda anche Documents diplomatiques, 1914. La guerre européenne. Pièces relatives aux négotiations qui ont précédé la déclaration de guerre de l’Allemagne à la Russie at à la France, a cura del Ministère des Affaires étrangères, Paris 1914, doc. 118, p. 116; su altri brani omessi o soppressi, si veda anche Konrad G.W. Romberg, The Falsifications of the Russian Orange Book, London [1923].

70 Telegramma n. 1538 a Londra, Parigi, Vienna, Berlino e Roma, 28 luglio 1914 (cit. in How the War Began cit., p. 44).

71 Telegramma n. 1539 a Berlino, Parigi, Londra, Vienna e Roma, 28 luglio 1914 (cit. ibid.).

72 Telegramma di Benckendorff a Sazonov (cit. in Sazonov, Les années fatales cit., pp. 200-201).

73 Cit. in How the War Began cit., p. 43.

74 Sul parere di Sazonov riguardo all’avvertimento del cancelliere Bethmann Hollweg, si veda Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914, 3 voll., Milano 1942-1943, vol. II, La crisi del luglio 1914. Dall’attentato di Sarajevo alla mobilitazione generale dell’Austria-Ungheria, p. 550; Horst Linke, Das Zarische Russland und der Erste Weltkrieg. Diplomatie und. Kriegsziele 1914-1917, München 1982, p. 33; sullo scambio di battute con Pourtalès, si veda How the War Began cit., pp. 48-49 (16/29 July).

75 How the War Began cit., p. 43 (15/28 July).

76 De l’Escaille a Davignon, San Pietroburgo, 30 luglio 1914 (MAEB AD, Empire Russe 34, 1914); questo telegramma, che venne intercettato dai tedeschi e pubblicato durante la guerra, fu poi una presenza costante nel dibattito sulle colpe del conflitto che si sviluppò nel dopoguerra: si veda ad esempio Belgische Akten­stücke, 1905-1914, a cura del ministero degli Esteri tedesco, Berlin [1917]; Bethmann Hollweg, Betrachtungen zum Weltkrieg, 2 voll., Berlin 1919, vol. I, p. 124.

77 Telegramma del Kaiser Guglielmo II allo zar, Berlino, 29 luglio 1914 (cit. in How the War Began cit., p. 55).

78 Si veda, ad esempio, Herman Bernstein, Kaiser Unmasked as Cunning Trickster Who Plotted for War While He Prated of Peace. «Nicky» Telegrams Reveal Czar as No Better, Falling Readily into Snares that «Willy» Set, in «Washington Post», 18 settembre 1917 (ritagli di stampa in AMAE NS, Russie 45, Allemagne-Russie); Herman Bernstein, The Willy-Nicky Correspondence. Being the Secret and Intimate Telegrams Exchanged Between the Kaiser and the Tsar, New York 1918; Sidney Bradshaw Fay, The Kaiser’s Secret Negotiations with the Tsar, 1904-5, in «American Historical Review», XXIV, 1918, pp. 48-72; The Kaiser’s Letters to the Tsar. Copied from Government Archives in Petrograd and Brought from Russia by Isaac Don Levine, London 1920. Queste prime edizioni non comprendono la serie di cablogrammi che i due sovrani si scambiarono nel 1914, probabilmente perché non si trattava di comunicazioni personali, ma di cablogrammi diplomatici, e in quanto tali archiviati separatamente dalla corrispondenza personale del sovrano: devo questa considerazione a John Röhl, che ringrazio sentitamente.

79 Michael S. Neiberg, Dance of the Furies, Europe and the Outbreak of World War I, Cambridge (MA) 2011, p. 116.

80 Sazonov, Les années fatales cit., p. 218.

81 Ivi, pp. 218-219.

82 Menning, Russian Military Intelligence cit., pp. 13-18; Dominic C.B. Lieven, Russia and the Origins of the First World War, London 1983, pp. 148-149.

83 Tschirschky a Bethmann Hollweg, Vienna, 2 luglio 1910, in cui si riferisce di una conversazione fra Kulakovskij e Suchomlinov (PA-AA, R 10894).

84 Menning, Russian Military Intelligence cit., pp. 30-31.

85 Cit. in Volker R. Berghahn, Wilhelm Deist, Kaiserliche Marine und Kriegsausbruch 1914, in «Militärgeschichtliche Mitteilungen», I, 1970, pp. 37-58; dal diario di Albert Hopman (alto ufficiale nell’Ufficio navale imperiale), 6 e 7 luglio 1914, in Albert Hopman. Das ereignisreiche Leben eines «Wilhelminers». Tagebücher, Briefe, Aufzeichnungen, 1901 bis 1920, a cura di Michael Epkenhans, München 2004, pp. 383 e 385.

86 Biedermann (plenipotenziario sassone a Berlino) a Vitzthum (ministro degli Esteri sassone), Berlino, 17 luglio 1914 (in Julikrise und Kriegsausbruch 1914, vol. I, doc. 125, pp. 199-200).

87 Bethmann Hollweg agli ambasciatori a San Pietroburgo, Parigi e Londra, Berlino, 21 luglio 1914 (ivi, doc. 188, pp. 264-266, in particolare p. 265).

88 Annika Mombauer, Helmuth von Moltke and the Origins of the First World War, Cambridge 2001, pp. 190-193 e 196; in merito alla fiducia dei tedeschi nella propria preparazione militare, si veda Mark Hewitson, Germany and the Causes of the First World War, Oxford 2006, passim.

89 Cit. in L.C.F. Turner, Origins of the First World War, London 1973, p. 86.

90 Cit. in Ulrich Trumpener, War Premeditated? German Intelligence Operations in July 1914, in «Central European History», IX, 1976, pp. 58-85, in particolare p. 64.

91 Ibid.

92 Dal diario di Riezler, 11 luglio 1914 (Kurt Riezler. Tagebücher Aufsätze Dokumente, a cura di Karl Dietrich Erdmann, Göttingen 1972, p. 185).

93 Julikrise und Kriegsausbruch 1914 cit., vol. I, doc. 123, p. 198.

94 German View of French Disclosures, in «The Times», 17 luglio 1914, p. 7, col. C; Attitude of Germany, ivi, 25 luglio 1914, p. 10, col. C.

95 Mombauer, Helmuth von Moltke cit., pp. 194-195n.

96 Questa era la supposizione del conte Kageneck, addetto militare tedesco a Vienna (ivi, p. 194). Riguardo all’impatto prodotto dalle rivelazioni di Humbert sull’atteggiamento tedesco durante la crisi, si veda anche il diario di Theodor Wolff (direttore del «Berliner Tageblatt») alla data del 24 luglio 1914, in cui riporta lo scetticismo ufficiale riguardo all’effettiva preparazione della Francia (in Tagebücher 1914-1919: der Erste Weltkrieg und die Entstehung der Weimarer Republik in Tagebüchern, Leitartikeln und Briefen des Chefredakteurs am «Berliner Tageblatt» und Mitbegründers der «Deutschen Demokratischen Partei» Theodor Wolff, a cura di Bernd Sösemann, Boppard 1984, pp. 64-65), e il diario di Hopman, 14 luglio 1914 (Albert Hopman, Das ereignisreiche Leben cit., p. 389).

97 Risto Ropponen, Italien als Verbündeter. Die Einstellung der politischen und militärischen Führung Deutschlands und Österreich-Ungarns zu Italien on der Niederlage von Adua 1896 bis zum Ausbruch des Weltkrieges 1914, Helsinki 1986, pp. 139, 141-142 e 209-210.

98 Bethmann Hollweg a Schoen e lo stesso a Lichnowsky, entrambe Berlino, 27 luglio 1914 (in Julikrise und Kriegsausbruch 1914 cit., vol. II, docc. 491 e 492, p. 103).

99 Jagow a Lichnowsky (lettera privata), Berlino, 18 luglio 1914 (in Die deutschen Dokumente zu Kriegsausbruch, a cura di Karl Kautsky, 4 voll., Berlin 1927, vol. I, doc. 72, pp. 99-101, in particolare p. 100).

100 Sulla fiducia tedesca nella possibilità di un conflitto localizzato, si veda il diario di Hopman, 8, 13, 24 e 26 luglio 1914 (in Albert Hopman. Das ereignisreiche Leben cit., pp. 36, 388, 394-395 e 397-398); sulla preoccupazione di Jagow, ivi, 21 luglio 1914, pp. 391-392; su Bethmann Hollweg come «un uomo che stava affogando», si veda Alfred von Tirpitz, Erinnerungen, Leipzig 1920, p. 242; su questi aspetti della crisi, si veda anche Samuel R. Williamson, Ernest R. May, An Identity of Opinion. Historians and July 1914, in «Journal of Modern History», LXXIX, 2007, 2, pp. 335-387, in particolare p. 353.

101 Guglielmo II a Francesco Giuseppe, Balholm, 14 luglio 1914 (ÖUAP, vol. VIII, doc. 10262, pp. 422-423).

102 Si vedano in particolare le note di Guglielmo II alla lettera di Tschirschky a Jagow, Vienna, 10 luglio 1914 (in July 1914. The Outbreak of the First World War. Selected Documents, a cura di Imanuel Geiss, New York 1974, doc. 16, pp. 106-107).

103 Commenti di Guglielmo II alla lettera di Tschirschky a Bethmann Hollweg, Vienna, 14 luglio 1914 (ivi, doc. 21, pp. 114-115).

104 Lamar Cecil, Wilhelm II, 2 voll., Chapel Hill 1989-1996, vol. II, Emperor and Exile, 1900-1941, p. 202; Jagow a Wedel (un membro dell’entourage imperiale), Berlino, 18 luglio 1914, in July 1914. The Outbreak of the First World War cit., doc. 29, p. 121.

105 David Stevenson, Armaments and the Coming of War, Europe 1904-1914, Oxford 1996, p. 376.

106 Si veda Georg Alexander von Müller, Regierte der Kaiser? Aus den Kriegstagebüchern des Chefs des Marinekabinettes im Ersten Weltkrieg Admiral Georg Alexander von Müller, Göttingen 1959; Holger Afflerbach, Kaiser Wilhelm II. als Oberster Kriegsherr im Ersten Weltkrieg. Quellen aus der militärischen Umgebung des Kaisers 1914-1918, München 2005, p. 11.

107 Holger Afflerbach, Falkenhayn: Politisches Denken und Handeln im Kaiserreich, München 1994, p. 153.

108 Guglielmo II a Jagow, Neues Palais, 28 luglio 1914 (in July 1914. The Out­break of the First World War cit., doc. 112, p. 256); Afflerbach, Falkenhayn cit., p. 153.

109 Cit. in Afflerbach, Falkenhayn cit., p. 154.

110 Cit. in Volker Berghahn, Germany and the Approach of War in 1914, Bas­ing­stoke 1993, pp. 202-203.

111 Albertini, Le origini della guerra del 1914 cit., vol. II, p. 464; July 1914. The Outbreak of the First World War cit., p. 222.

112 Lichnowsky a Jagow, Londra, 27 luglio 1914 (in July 1914. The Outbreak of the First World War cit., doc. 97, pp. 238-239).

113 Bethmann Hollweg a Tschirschky, Berlino, ore 10.15 del 28 luglio 1914 (in July 1914. The Outbreak of the First World War cit., doc. 115, p. 259); Stevenson, Armaments and the Coming of War cit., pp. 401-402; riguardo alla divergenza di opinioni su quella giornata fra Bethmann Hollweg e Guglielmo II, si veda Julikrise und Kriegsausbruch 1914 cit., vol. II, pp. 164-165 (commento di Geiss).

114 Bethmann Hollweg a Guglielmo II, Berlino, ore 22.15 del 28 luglio 1914 (in July 1914. The Outbreak of the First World War cit., docc. 114 e 117, pp. 258 e 261).

115 Trumpener, War Premeditated? cit., pp. 66-67.

116 Chelius a Guglielmo II, San Pietroburgo, 26 luglio 1914 (in Julikrise und Kriegsausbruch 1914 cit., vol. II, doc. 441, pp. 47-49, in particolare p. 48).

117 Cit. in Trumpener, War Premeditated? cit., p. 66.

118 Ibid.

119 Stato maggiore, rapporto del Consiglio per la valutazione delle informazioni segrete, 28 luglio 1914 (cit. ivi, p. 72).

120 Si veda, ad esempio, Bethmann Hollweg a Tschirschky, Berlino, 29 luglio 1914 e 30 luglio 1914 (due telegrammi) (in Julikrise und Kriegsausbruch 1914 cit., vol. II, docc. 690, 695 e 696, pp. 287-290).

121 Dal diario di Falkenhayn, 29 luglio 1914 (cit. in Afflerbach, Falkenhayn cit., p. 155).

122 Berghahn, Germany and the Approach of War cit., p. 215.

123 Dal diario di Falkenhayn, 31 luglio 1914 (cit. in Afflerbach, Falkenhayn cit., p. 160).

124 Il principe Enrico di Prussia a Guglielmo II, 28 luglio 1914 (DD, vol. I, pp. 32-89).

125 Harold Nicolson, King George the Fifth, London 1952, p. 245; Berghahn, Germany and the Approach of War cit., p. 219.

126 Nicolson, King George the Fifth cit., p. 246.

127 Lichnowsky a Jagow, Londra, 29 luglio 1914 (in July 1914. The Outbreak of the First World War cit., doc. 130, pp. 288-290).

128 Annotazioni di Guglielmo II alla lettera di Pourtalès a Jagow, San Pietroburgo, 30 luglio 1914 (ivi, doc. 135, pp. 293-295).

129 Lichnowsky a Jagow, Londra, 1° agosto 1914 (DD, vol. III, doc. 562, p. 66).

130 Lichnowsky a Jagow, Londra, 1° agosto 1914 (ivi, doc. 570, p. 70).

131 Cit. in Afflerbach, Falkenhayn cit., p. 164.

132 Dal diario di Falkenhayn, 1° agosto 1914 (cit. ivi, pp. 165-166). La versione che Falkenhayn fornisce di questo episodio è ampiamente confermata da Moltke, ma può non essere del tutto affidabile. Secondo le memorie dell’aiutante di campo Max von Mutius, che assisté all’incontro, il Kaiser chiese a Moltke un consiglio per sapere se si potesse ancora fermare uno sfondamento dei confini a occidente – e in particolare l’ingresso della 16a Divisione in Lussemburgo. Moltke rispose che non lo sapeva, e fu un subordinato del dipartimento operativo dello stato maggiore, il tenente colonnello Tappen, a dare una risposta positiva. Secondo questa versione, il Kaiser non prese il sopravvento su Moltke, ma rimase nei consueti limiti della propria posizione. In ogni caso, i resoconti che ci rimangono concordano sull’effetto traumatico che questo episodio ebbe sul capo di stato maggiore, che vi sarebbe tornato sopra ossessivamente; si veda in proposito Afflerbach, Kaiser Wilhelm II als Oberster Kriegsherr im Ersten Weltkrieg. Quellen aus der militärischen Umgebung des Kaisers, 1914-1918, München 2005, p. 13.

133 Cecil, Wilhelm II cit., vol. II, p. 107.

134 Mombauer, Helmuth von Moltke cit., p. 222.

135 Guglielmo II a Giorgio V, Berlino, 1° agosto 1914 (DD, vol. III, doc. 575, p. 74).

136 Bethmann Hollweg a Lichnowsky, Berlino, 1° agosto 1914 (ivi, doc. 578, p. 76); Guglielmo II a Giorgio V, Berlino, 1° agosto 1914 (ivi, doc. 575, p. 74).

137 Lichnowsky a Jagow, Londra, 1° agosto 1914 (ivi, doc. 596, pp. 89-91).

138 Giorgio V a Guglielmo II, Londra, 1° agosto 1914 (ivi, doc. 612, pp. 103-104).

139 Lichnowsky a Jagow, Londra, 1° agosto 1914 (ivi, doc. 603, p. 95).

140 Cit. in Afflerbach, Falkenhayn cit., p. 167.

141 Lichnowsky a Jagow, Londra, 29 luglio 1914 (DD, vol. I, doc. 368, pp. 86-89).

142 Grey a Bertie, Londra, 31 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 352, p. 220).

143 Harry F. Young, The Misunderstanding of August 1, 1914, in «Journal of Modern History», XLVIII, 1976, 4, pp. 644-665.

144 Stephen J. Valone, «There Must Be Some Misunderstanding»: Sir Edward Grey’s Diplomacy of August 1, 1914, in «Journal of British Studies», XXVII, 1988, 4, pp. 405-424.

145 Keith M. Wilson, Understanding the «Misunderstanding» of 1 August 1914, in «Historical Journal», XXXVII, 1994, 4, pp. 885-889; sull’impatto dell’instabilità finanziaria internazionale sul pensiero britannico, si veda Nicholas A. Lambert, Planning Armageddon. British Economic Warfare and the First World War, Cambridge (MA) 2012, pp. 185-231; per una discussione della tesi di Lambert, si veda Samuel R. Williamson, July 1914: Revisited and Revised, pp. 17-18; sono grato a Sam Williamson per avermi segnalato questo aspetto delle considerazioni di Lambert.

146 Grey a Bertie, Londra, 1° agosto 1914 (BD, vol. XI, doc. 419, p. 250).

147 Bertie a Grey, Parigi, 2 agosto 1914 (ivi, doc. 453, p. 263); sull’«impertinenza» di questa risposta, si veda Wilson, Understanding the «Misunderstanding» cit., p. 888.

148 Comunicazione dell’ambasciata tedesca, Londra, 31 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 344, p. 217); l’avvertimento venne ripetuto il giorno seguente: si veda la comunicazione della stessa ambasciata del 1° agosto 1914 (ivi, doc. 397, p. 241).

149 Asquith a Venetia Stanley, Londra, 1° agosto 1913 (in Asquith, Letters to Venetia Stanley cit., p. 140).

150 Grey a Bertie, Londra, 29 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 283, p. 180).

151 Grey a Bertie, Londra, 31 luglio 1914 (ivi, doc. 352, p. 220).

152 Grey a Bertie, Londra, 31 luglio 1914 (ivi, doc. 367, pp. 226-227).

153 Grey a Bertie, Londra, ore 20.20 del 1° agosto 1914 (ivi, doc. 426, p. 426); si noti l’ora del dispaccio: si tratta di un telegramma successivo a quello dello stesso giorno già citato, che forniva all’ambasciatore ulteriori particolari sulla conversazione con Cambon.

154 Keith Eubank, Paul Cambon: Master Diplomatist, Norman 1960, pp. 170-171.

155 Conversazione con Cambon del 24 luglio 1914 (in André Géraud, The Old Diplomacy and the New, in «Foreign Affairs», XXIII, 1945, 2, pp. 256-270, in particolare p. 260).

156 Grey a Bertie, Londra, 28 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 238, p. 156).

157 Keiger, France and the Origins cit., p. 133.

158 Cambon a Viviani, Londra, 29 luglio 1914 (DDF, serie 3, vol. XI, doc. 281, pp. 228-229).

159 Steiner, Britain and the Origins cit., pp. 181-186.

160 Su questo particolare aspetto, si veda John Keiger, Why Allies? Necessity or Folly, manoscritto inedito dell’intervento al convegno Forgetful Allies: Truth, Myth and Memory in the Two World Wars and After, Cambridge, 26-27 settembre 2011. Ringrazio John Keiger per avermi consentito di leggere questo contributo prima della pubblicazione.

161 Géneviève Tabouis, Perfidious Albion-Entente Cordiale, London 1938, p. 109.

162 Cit. in Steiner, Britain and the Origins cit., p. 225.

163 Asquith a Venetia Stanley, Londra, 29 luglio 1914 (in Asquith, Letters to Venetia Stanley cit., p. 132).

164 Memorandum di Eyre Crowe, 31 luglio 1914 (BD, vol. XI, allegato al doc. 369, pp. 228-229).

165 Steiner, Britain and the Origins cit., p. 228. Cambon è citato in John Kieger, How the Entente Cordiale Began, in Cross Channel Currents. 100 Years of the Entente Cordiale, a cura di Richard Mayne, Douglas Johnson and Robert Tombs, London 2004, pp. 3-10, in particolare p. 10.

166 Austen Chamberlain, Down the Years, London [1935], p. 94.

167 Colin Forbes Adams, Life of Lord Lloyd, London 1948, pp. 59-60; Chamberlain, Down the Years cit., pp. 94-101; Ian Colvin, The Life of Lord Carson, 3 voll., London 1932-1936, vol. III, pp. 14-20 (in particolare sulla conversazione di Cambon con Lloyd, pp. 14-15); Leopold S. Amery, My Political Life, 3 voll., London [1953-1955], vol. II, pp. 17-19.

168 Keith M. Wilson, The Policy of the Entente. Essays on the Determinants of British Foreign Policy, 1904-1914, Cambridge 1985, p. 135.

169 Asquith a Venetia Stanley, Londra, 31 luglio 1914 (in Asquith, Letters to Venetia Stanley cit., p. 138).

170 Winston S. Churchill, The World Crisis, London 1931, p. 114 (trad. it. La crisi mondiale, Roma 1929, vol. I, 1911-1914, p. 154).

171 Asquith a Venetia Stanley, Londra, 1° agosto 1914 (in Asquith, Letters to Venetia Stanley cit., p. 140).

172 John Morley, Memorandum on Resignation, August 1914, London 1928, p. 5.

173 Cit. in Wilson, The Policy of the Entente cit., p. 137.

174 Comunicazioni di Lord Crowe a Giorgio V sulla riunione del gabinetto del 2 agosto 1914 (alle 18.30), in J.A. Spende, Cyril Asquith, Life of Herbert Henry Asquith, 2 voll., London 1932, vol. II, p. 82; Morley, Memorandum cit., p. 21.

175 Sul fatto che la formulazione dei testi si dovesse a Samuel, e su come egli riuscì ad ottenere su quelle proposte l’appoggio dei suoi colleghi, si veda Wilson, The Policy of the Entente cit., p. 142; inoltre, Herbert Samuel a sua moglie Beatrice, 2 agosto 1914, in Cedric J. Lowe, Michael L. Dockrill, The Mirage of Power, 3 voll., London 1972, vol. I, pp. 150-151; Cameron Hazlehurst, Politicians at War, July 1914 to May 1915: A Prologue to the Triumph of Lloyd George, London 1971, pp. 93-98.

176 Sulle parole di Grey e sulla sua «emozione», si veda George Allardice Riddell, Lord Riddell’s War Diary, 1914-1918, London 1933, p. 6 (l’autore era il proprietario di «News of the World»).

177 Sul tema del Belgio nell’opinione pubblica britannica interventista, si veda John Keiger, Britain’s «Union Sacrée» in 1914, in Les Sociétés européennes et la guerre de 1914-1918, a cura di Jean-Jacques Becker, Stéphane Audouin-Rouzeau, Paris 1990, pp. 39-52, in particolare pp. 48-49.

178 Cit. in Hermann Lutz, Lord Grey and the World War, London 1928, p. 101.

179 Christopher Addison, Four and Half Years, 2 voll., London 1934, vol. I, p. 32 (cit. in Brock, Britain Enters the War cit., p. 161).

180 Keiger, Britain’s «Union Sacrée» in 1914 cit., pp. 39-52; Samuel R. Williamson, The Politics of Grand Strategy. Britain and France Prepare for War, 1904-1914, Cambridge (MA) 1969, pp. 357-360.

181 È questa la tesi avanzata da Keith M. Wilson, The British Cabinet’s Decision for War, 2 August 1914, in «British Journal of International Studies», 1975, pp. 148-159 (ora in Id., The Policy of the Entente cit., cap. 8).

182 Buchanan a Nicolson, San Pietroburgo, 16 aprile 1914 (BD, vol. X/2, doc. 538, pp. 784-785).

183 Nicolson a Goschen, 15 aprile 1912 (ivi, vol. VI, doc. 575, p. 747); Steiner, Foreign Office cit., p. 131; si veda anche Wilson, The Policy of the Entente cit., p. 78; Zara S. Steiner, The Foreign Office under Sir Edward Grey, in British Foreign Policy under Sir Edward Grey, a cura di Francis Harry Hinsley, Cambridge 1977, pp. 22-69, in particolare p. 45.

184 Williamson, The Politics of Grand Strategy cit., pp. 108-114 e 167-204.

185 Nota di Eyre Crowe su un telegramma di Buchanan a Grey, San Pietroburgo, 24 luglio 1914 (BD, vol. XI, doc. 101, pp. 80-82, in particolare p. 82).

186 Isabel V. Hull, Absolute Destruction. Military Culture and the Practices of War in Imperial Germany, Ithaca 2005, pp. 160-181; Mombauer, Helmuth von Moltke cit., pp. 102, 105, 164-167 e 225.

187 Alfred von Tirpitz, Erinnerungen cit., pp. 241-242.

188 Nota presentata il 2 agosto 1914 alle 19 da Below-Saleske a Davignon, ministro degli Esteri belga (ritaglio dal Libro grigio belga) (TNA, FO 371/1910, 2 agosto 1914, consultato in http://www.nationalarchives.gov.uk/pathways/firstworldwar/first_world_war/p_ultimatum.htm).

189 Jean Stengers, Belgium, in Decisions for War cit., pp. 151-174.

190 Ibid.; risposta del governo belga all’ultimatum tedesco, 3 agosto 1914, ore 7 (in Hugh Gibson, A Journal from Our Legation in Belgium, New York 1917, p. 19).

191 Stengers, Belgium cit., pp. 161-162.

192 Gibson, A Journal cit., p. 15.

193 Stengers, Belgium cit., p. 163.

194 Gibson, A Journal cit., p. 22.

195 Cit. in Stengers, Belgium cit., p. 164.

196 Dal diario di Maurice Paléologue, 1° agosto 1914 (An Ambassador’s Memoirs 1914-1917, London 1973, pp. 38-39).

197 Prince Max von Lichnowsky, My Mission to London 1912-1914, London 1918, p. 28.

198 Gibson, A Journal cit., p. 21.

199 Bernd F. Schulte, Neue Dokumente zu Kriegsausbruch und Kriegsverlauf 1914, in «Militärgeschichtliche Mitteilungen», XXV, 1979, pp. 123-185, in particolare p. 140.

200 Rapporto del colonnello Ignat’ev, 30 luglio 1914 (RGVIA, Fond 15304 - Upravlenie Voennogo Agenta vo Francii, op. 2, del. 16, Rapporti e comunicazioni fatti con taccuini speciali, l. 38).

201 Cit. in Hew Strachan, The First World War, Oxford 2001, p. 103.

202 V.I. Gurko, Čerty i siluety prošlogo. Pravitel’stvo i obščestvennost’ v carstvovane Nikolaja II v izobraženii sovremennika, Moskva 2000, p. 651.

203 Walter Mansell Merry, Two Months in Russia: July-September 1914, Oxford 1916, pp. 76-77.

204 Così Richard Cobb sintetizza le impressioni riportate in Roger Martin du Gard, L’Été 1914, 4 voll., Paris 1936-1940, in Richard Cobb, France and the Coming of War, in The Coming of the First World War cit., pp. 125-144, in particolare p. 137.

205 Strachan, The First World War cit., pp. 103-162, in particolare p. 153; sugli episodi di rivolta contro l’arruolamento in Russia, si veda Joshua Sanborn, The Mobilization of 1914 and the Question of the Russian Nation, in «Slavic Review», LXIX, 2000, 2, pp. 267-289.

206 Neiberg, Dance of the Furies cit., p. 128.

207 Dal diario di Gibson, 2 agosto, in Gibson, A Journal cit., p. 8.

208 Si veda Adrian Gregory, The Last Great War. British Society and the First World War, Cambridge 2008, in particolare pp. 9-39; Id., British War Enthusiasm: A Reassessment, in Evidence, History and the Great War. Historians and the Impact of 1914-18, a cura di Gail Braybon, Oxford 2003, pp. 67-85; per un’analisi assai raffinata delle reazioni alla notizia della guerra nella provincia francese, si veda ­Becker, 1914: Comment les français cit., pp. 277-309; Id., L’année 14, Paris 2004, pp. 149-153; Stéphane Audoin-Rouzeau, Annette Becker, 1914-1918: Understanding the Great War, London 2002, p. 95; sullo «choc, la tristezza e la costernazione» con cui la maggior parte delle persone accolse la notizia della guerra, si veda Leonard V. Smith, Stéphane Audoin-Rouzeau, Annette Becker, France and the Great War, Cambridge 2003, pp. 27-29; P.J. Flood, France 1914-1918: Public Opinion and the War Effort, Basingstoke 1990, pp. 5-33; Jeffrey Verhey, The Spirit of 1914. Milita­rism, Myth and Mobilization in Germany, Cambridge 2000, pp. 231-236.

209 Sanborn, Mobilization of 1914 cit., p. 272.

210 La descrizione è dell’«instituteur» del villaggio (cit. in Flood, France 1914-1918 cit., p. 7).

211 Stephen Graham, Russia and the World, New York 1915, pp. 2-3 (cit. in Leonid Heretz, Russia on the Eve of Modernity. Popular Religion and Traditional Culture under the Last Tsars, Cambridge 2008, p. 195). Molte memorie russe parlano dell’incertezza sull’identità del nemico: si veda Bertram Wolfe, War Comes to Russia, in «Russian Review», XXII, 1963, 2, in particolare pp. 126-129.