«Non riuscirò mai a capire come sia potuto accadere», disse la scrittrice Rebecca West a suo marito nel 1936, mentre si trovavano sul balcone del municipio di Sarajevo. Non che mancassero elementi, aggiunse, il problema è che ce n’erano troppi1. La complessità della crisi è uno degli elementi centrali di questo volume. Alcune complicazioni derivavano da comportamenti che fanno ancora oggi parte della nostra scena politica. L’ultima sezione di questo libro è stata scritta nel momento culminante della crisi finanziaria dell’Eurozona, fra il 2011 e il 2012, un evento dei nostri giorni di sconcertante complessità. È singolare che gli attori della crisi dell’Eurozona, come quelli del 1914, fossero consapevoli che esisteva un possibile esito dalle conseguenze catastrofiche (la fine dell’euro). Tutti i principali protagonisti speravano che ciò non sarebbe accaduto, ma oltre a questo comune interesse, ne avevano anche altri particolari, fra loro contrastanti. E in un sistema in cui esistono molteplici interrelazioni, le conseguenze di qualsiasi azione di un elemento dipendono dalle reazioni degli altri, che sono difficili da valutare in anticipo, data la scarsa chiarezza dei processi decisionali. E nel corso di tutto il processo, i soggetti politici dell’Eurozona hanno sfruttato la possibilità di una catastrofe generale come uno strumento su cui far leva per assicurarsi i propri specifici benefici.
Da questo punto di vista, gli uomini del 1914 sono nostri contemporanei. Ma le differenze sono altrettanto significative delle analogie. I ministri dei governi a cui spetta la responsabilità di risolvere la crisi dell’Eurozona sono d’accordo, in linea generale, almeno nell’individuare quale sia il problema; nel 1914, invece, la profonda divisione delle prospettive etiche e politiche erose gli elementi di consenso e fece venir meno la fiducia reciproca. Nel 1914 non esistevano potenti istituzioni sovranazionali come quelle che oggi costituiscono il quadro in cui definire gli scopi dell’azione, mediare i conflitti e individuare rimedi. Inoltre, la complessità della crisi del 1914 non scaturì dalla diffusione dei poteri e delle responsabilità all’interno di un unico contesto politico-finanziario, ma da un succedersi di rapide interazioni fra centri di potere autonomi che si trovarono ad affrontare minacce diverse e rapidamente mutevoli, operando in condizioni di rischio elevato e di scarsa fiducia e trasparenza.
Un elemento cruciale per determinare la complessità degli eventi del 1914 furono i rapidi mutamenti nel sistema internazionale: l’improvvisa comparsa di uno Stato territoriale albanese, la corsa al riarmo navale russo-turca nel Mar Nero, il riorientamento della politica russa da Sofia a Belgrado non sono che alcuni esempi. Non si trattava di transizioni storiche a lungo termine, bensì di riallineamenti a breve raggio. Le loro conseguenze furono amplificate dalla fluidità dei rapporti di potere interni agli esecutivi europei: la lotta di Grey per contenere la minaccia rappresentata dai radicali liberali, il debole ascendente di Poincaré e della sua politica di alleanze, oppure la campagna condotta da Suchomlinov contro Kokovcov. Dopo la caduta di quest’ultimo nel gennaio del 1914, secondo la memoria inedita di un politico addetto ai lavori, lo zar Nicola II offrì il suo incarico dapprima a Pëtr Durnovo, un uomo di orientamento profondamente conservatore, energico e determinato, che si opponeva nettamente a qualsiasi coinvolgimento nei Balcani. Ma Durnovo rifiutò l’incarico, che venne affidato a Goremykin, la cui debolezza consentì a Krivošein e ai comandi militari di esercitare una sproporzionata influenza nei Consigli che si tennero nel luglio del 19142. Sarebbe un errore attribuire eccessiva importanza a questo particolare, ma esso ci ricorda il ruolo che anche i riallineamenti a breve termine, dovuti a motivi contingenti, ebbero nel determinare le condizioni nelle quali si svolse la Crisi di luglio del 1914.
Ciò a sua volta rendeva il sistema nel suo complesso più opaco e imprevedibile, alimentando un diffuso clima di sfiducia reciproca, anche all’interno delle singole alleanze, mettendo a rischio la pace. Nel 1914 il grado di fiducia esistente fra i governanti russi e quelli britannici era relativamente basso e andò ulteriormente diminuendo, ma questo non impedì al Foreign Office di accettare una guerra europea alle condizioni poste dalla Russia; al contrario, rafforzò gli argomenti a favore dell’intervento. Lo stesso si può dire per l’Alleanza franco-russa: i dubbi sul suo futuro ebbero per entrambe le parti l’effetto di accentuare, invece che indebolire, la disponibilità ad accettare i rischi del conflitto. Le fluttuazioni nei rapporti di potere interni ai singoli governi – a cui si sommò il rapido cambiamento delle condizioni oggettive – produssero a loro volta quelle oscillazioni di linea politica e quell’ambiguità nelle comunicazioni che furono un tratto caratteristico delle crisi prebelliche. Di fatto non si può neppure dire con certezza che il termine «politica» sia sempre appropriato in relazione al contesto pre-1914, dato il carattere approssimativo e ambiguo di molti degli obblighi in essere. È questione discutibile se negli anni dal 1912 al 1914 la Russia e la Germania avessero una vera politica balcanica: quella a cui assistiamo è infatti una molteplicità di iniziative, di scenari e di atteggiamenti in base ai quali risulta talvolta difficile scorgere un chiaro orientamento complessivo. All’interno dei rispettivi esecutivi statali, la variabilità dei rapporti di potere faceva anche sì che coloro i quali formulavano la linea politica operassero sotto una notevole pressione interna, proveniente non tanto dalla stampa, dall’opinione pubblica o da gruppi d’interesse industriale o finanziario, quanto dagli avversari interni alle loro stesse élites o ai governi. E anche questo rendeva più acuto il senso di urgenza che assillò i responsabili politici nell’estate del 1914.
Dobbiamo distinguere tra i fattori obiettivi che influenzarono i principali attori e le storie che essi raccontavano a se stessi e agli altri su quel che facevano e sul perché lo facessero. Tutti i protagonisti della nostra storia filtravano la realtà mediante narrazioni che erano il prodotto di frammenti di esperienza che si saldavano a paure, proiezioni psicologiche e interessi mascherati sotto forma di massime. In Austria, la storia di una nazione di giovani banditi e regicidi dediti a provocare e a stuzzicare in continuazione un nemico più anziano e paziente era di ostacolo ad una ponderata valutazione di come dovessero essere gestiti i rapporti con Belgrado. In Serbia, un effetto analogo era prodotto dalle fantasie con le quali si dipingeva la nazione come una vittima oppressa da un avido e potentissimo Impero asburgico. In Germania, le decisioni dell’estate del 1914 furono prese sotto l’assillo di una fosca visione che prospettava future invasioni e spartizioni territoriali. E la saga russa fatta di ripetute umiliazioni per mano delle potenze centrali ebbe un analogo impatto, distorcendo il passato e allo stesso tempo rendendo più chiaro il presente. L’elemento più importante di tutti era la narrazione ampiamente propagandata relativa al declino storicamente necessario dell’Austria-Ungheria, che, avendo gradualmente preso il posto di una più antica serie di convinzioni sul ruolo dell’Austria come perno della stabilità dell’Europa centrale e orientale, disinibì i nemici di Vienna, indebolendo l’idea che l’Austria-Ungheria, come ogni altra grande potenza, possedesse interessi che aveva il diritto di difendere energicamente.
Che lo scenario balcanico avesse un ruolo decisivo nello scoppio della guerra può sembrare scontato, dato il luogo in cui avvennero le uccisioni che scatenarono la crisi. Ma occorre sottolineare due punti in particolare. Il primo è che le guerre balcaniche avevano riequilibrato i rapporti fra potenze grandi e piccole in modo tale da generare rischi. Agli occhi dei responsabili russi come di quelli austriaci, lo scontro per controllare gli eventi in atto nella penisola balcanica acquisì un nuovo e più minaccioso aspetto, soprattutto durante la crisi dell’inverno 1912-1913. Una delle conseguenze di ciò fu la balcanizzazione dell’Alleanza franco-russa. La Francia e la Russia, con ritmi diversi e per diverse ragioni, costruirono un meccanismo geopolitico lungo la frontiera austro-serba. Lo scenario balcanico da cui scaturì il conflitto non fu il risultato di una politica né di un piano o di un complotto maturati costantemente nel corso del tempo, né vi fu alcuna relazione necessaria fra le posizioni adottate nel 1912 e nel 1913 e lo scoppio della guerra l’anno seguente. Lo scenario balcanico – che di fatto era uno scenario serbo – non spinse l’Europa verso la guerra che poi sarebbe effettivamente scoppiata nel 1914: esso piuttosto fornì il quadro concettuale all’interno del quale la crisi venne interpretata una volta che si aprì. La Russia e la Francia legarono quindi la sorte di due fra le maggiori potenze mondiali, in modo estremamente asimmetrico, al destino di uno Stato turbolento e a tratti violento.
Per l’Austria-Ungheria, i cui accordi regionali per la sicurezza furono travolti dalle guerre balcaniche, gli omicidi di Sarajevo non furono un pretesto per attuare una preesistente politica di invasione e di attacco militare. Furono un evento in grado di trasformare le condizioni esistenti, carico di minacce reali e simboliche. Dalla nostra prospettiva del ventunesimo secolo è facile dire che Vienna avrebbe dovuto risolvere le questioni emerse in conseguenza delle uccisioni di Sarajevo mediante tranquilli negoziati bilaterali con Belgrado, ma in presenza di un contesto come quello del 1914 questa non era un’opzione credibile. Né, per lo stesso motivo, lo era la proposta non molto convinta di Grey di una «mediazione delle quattro potenze», che si fondava su un’indifferenza di parte per le concrete problematiche politiche della situazione in cui si trovava l’Austria-Ungheria. Il problema derivava non soltanto dal fatto che le autorità serbe in parte non volevano e in parte erano incapaci di reprimere l’attività irredentista che aveva portato all’attentato, ma anche dalla circostanza che gli amici della Serbia non concessero a Vienna il diritto di inserire nelle sue richieste a Belgrado uno strumento per controllare e far rispettare l’adempimento degli obblighi previsti. Le richieste furono respinte in base alla considerazione che erano inconciliabili con la sovranità serba. In ciò vi sono dei parallelismi con il dibattito svoltosi nel Consiglio di sicurezza dell’Onu nell’ottobre del 2011 su una proposta – appoggiata dagli Stati membri della Nato – d’imporre sanzioni alla Siria di Assad per prevenire ulteriori massacri dei cittadini che si opponevano a quel regime. Contro questa proposta, il rappresentante della Russia sostenne che l’idea rispecchiava un inappropriato «approccio aggressivo» tipico delle potenze occidentali, mentre secondo il rappresentante cinese le sanzioni erano inaccettabili in quanto inconciliabili con la «sovranità» siriana.
Cosa ne è in questa prospettiva della questione della colpevolezza? Affermando che la Germania e i suoi alleati erano moralmente responsabili dello scoppio della guerra, l’articolo 231 del Trattato di pace di Versailles pose le condizioni perché la questione della colpa mantenesse un posto centrale o comunque assai rilevante nel dibattito sulle origini della guerra. E questo approccio non ha mai perso la sua attrattiva. L’espressione più influente di questa tradizione è la cosiddetta «tesi di Fischer», espressione con cui si indica un complesso di considerazioni elaborate negli anni Sessanta da Fritz Fischer, Imanuel Geiss e una schiera di più giovani loro colleghi tedeschi, i quali individuarono nella Germania la principale responsabile dello scoppio della guerra. Secondo questa prospettiva (senza entrare nelle numerose varianti interne alla scuola di Fischer), i tedeschi non si imbatterono casualmente né scivolarono senza accorgersene nella guerra: essi la scelsero; anzi, ancora peggio, la pianificarono in anticipo, nella speranza di rompere il loro isolamento europeo e di lanciare una sfida per la conquista del potere mondiale. Studi recenti sulla discussione storiografica che questa tesi ha suscitato hanno messo in luce quanto tale dibattito sia collegato al processo, carico di tensione, che portò gli intellettuali tedeschi ad ammettere l’esistenza di contaminazioni della cultura tedesca risalenti all’eredità del passato nazista, e le tesi di Fischer sono state sottoposte per molti aspetti a critiche3. Ciò nonostante, ancora oggi negli studi sul processo che portò la Germania alla guerra svolge un ruolo dominante una versione più attenuata della tesi di Fischer.
Ma è veramente necessario addurre prove contro un singolo Stato colpevole, o classificare gli Stati secondo la loro quota di responsabilità nel determinare lo scoppio della guerra? In un classico della storiografia sulle origini del conflitto, Paul Kennedy rilevò che non si può rinunciare a individuare un colpevole fra gli Stati belligeranti, dando la colpa a tutti o a nessuno4. Ciò implica che un approccio più rigoroso non dovrebbe astenersi dal puntare il dito su qualche specifico responsabile. Il problema degli approcci basati sul tema della colpa non è tanto il rischio che si finisca per incolpare i soggetti sbagliati, quanto semmai che essi si fondano su convinzioni precostituite e tendono, in primo luogo, a presupporre che in un contesto di interazioni conflittuali un attore debba in definitiva essere dalla parte del giusto, e l’altro colpevole. I serbi avevano torto a cercare di unificare la nazione serba? Gli austriaci avevano torto ad insistere per l’indipendenza dell’Albania? Uno aveva più ragione dell’altro? Una domanda del genere è priva di senso. Un ulteriore inconveniente delle narrazioni ispirate al tema della colpa è che esse restringono il campo visivo, concentrandosi sull’orientamento politico e sulle iniziative di un particolare Stato piuttosto che sui processi di interazione multilaterali. Sorge quindi il problema che la ricerca della colpa predispone chi indaga a interpretare a priori le decisioni dei responsabili politici come se fossero pianificate in anticipo e mosse da un intento coerente. Bisogna mostrare che chi ha causato la guerra aveva la consapevole volontà di farlo. Nella sua forma estrema, questo modo di procedere genera narrazioni influenzate dall’idea del complotto, nelle quali una ristretta cerchia di potenti individui, come i cattivi dei film di spionaggio, controlla gli eventi da dietro le quinte secondo un piano perverso. Si può capire la soddisfazione morale che tali ricostruzioni possono comportare, e ovviamente non è logicamente impossibile che nell’estate del 1914 la guerra sia scaturita da un processo del genere, ma in questo volume si è cercato di dimostrare che un’interpretazione del genere non è sostenuta da elementi di fatto.
Lo scoppio della guerra del 1914 non è un episodio di un dramma di Agatha Christie, alla fine del quale si scopre il colpevole con la pistola ancora fumante accanto a un cadavere. In questa storia non ci sono pistole fumanti, o piuttosto, ognuno dei personaggi principali ne ha in mano una. Se lo guardiamo da questa prospettiva, lo scoppio della guerra fu una tragedia, non un delitto con un colpevole5. Riconoscere ciò non significa minimizzare quelle ossessioni di stampo bellicoso e imperialistico dei politici austriaci e tedeschi che giustamente attrassero l’attenzione di Fritz Fischer e di chi ne ha condiviso l’impostazione storiografica. Ma i tedeschi non erano i soli imperialisti, e non erano gli unici ad essere in preda a ossessioni paranoiche. La crisi che portò alla guerra nel 1914 fu il frutto di una cultura politica condivisa, ma fu anche multipolare e con elementi realmente interattivi: è questo che ne fa l’evento più complesso dell’epoca contemporanea, ed è per questo che il dibattito sulle origini della Prima guerra mondiale continua ancora oggi, un secolo dopo i fatali colpi che Gavrilo Princip sparò sulla via Franz Josef.
Una cosa è comunque chiara: nessuno degli obiettivi per cui i politici del 1914 si scontrarono poteva giustificare il cataclisma che ne seguì. Non si può fare a meno di chiedersi se i protagonisti compresero quanto fosse alta la posta in gioco. Si è sempre pensato che gli europei sottoscrivessero l’illusoria convinzione che la prossima guerra continentale sarebbe stata un conflitto fra governi, breve e intenso come quelli settecenteschi; gli uomini sarebbero stati «a casa prima di Natale», si diceva. Più recentemente, questo prevalere della «illusione di una guerra breve» è stato messo in discussione6. Il piano Schlieffen della Germania implicava un massiccio, fulmineo attacco alla Francia, ma anche all’interno dello stato maggiore di Schlieffen alcune voci avvertivano che la prossima guerra non avrebbe portato rapide vittorie, qunato semmai un «noioso, sanguinoso e lento avanzamento graduale»7. Helmuth von Moltke sperava che una guerra europea, qualora fosse scoppiata, si sarebbe risolta in breve tempo, ma ammetteva anche la possibilità che si trascinasse per anni, provocando distruzioni di portata incalcolabile. Il primo ministro britannico Herbert Asquith scrisse nella quarta settimana di luglio dell’approssimarsi dell’Armageddon, la battaglia finale. I generali francesi e russi parlarono di una «guerra di sterminio» e dell’«estinzione della civiltà».
Lo sapevano, ma lo percepivano veramente? Questa è forse una delle differenze fra gli anni precedenti al 1914 e quelli successivi al 1945. Negli anni Cinquanta e Sessanta, gli uomini al potere e la stessa opinione pubblica coglievano in modo istintivo il significato di una guerra nucleare: le immagini del fungo atomico sopra Hiroshima e Nagasaki erano entrate a far parte anche degli incubi delle persone comuni. Di conseguenza, il più grande riarmo della storia umana non culminò mai in una guerra nucleare fra le superpotenze. Prima del 1914 la situazione invece era diversa. Sembra che nella mente di molti statisti la speranza di una guerra breve e la paura di un conflitto che si prolungasse per anni si annullassero a vicenda, impedendo una più profonda valutazione dei rischi. Nel marzo del 1913, un giornalista che scriveva per il «Figaro» riferì di una serie di conferenze tenute poco prima a Parigi dai luminari della medicina militare francese. Fra gli oratori c’era il professor Jacques-Ambroise Monprofit, il quale era appena rientrato da una missione speciale in cui aveva visitato gli ospedali militari della Grecia e della Serbia, dove aveva contribuito a introdurre standard più elevati nel campo della chirurgia militare. Monprofit osservò che «le ferite causate dai cannoni francesi [venduti agli Stati balcanici prima dello scoppio della Prima guerra balcanica] non erano soltanto le più numerose, ma anche terribilmente gravi, con fratture ossee, lacerazione di tessuti, casse toraciche e crani frantumati». Le sofferenze che ne derivavano erano talmente tremende che un esperto di primo piano di chirurgia militare, il professor Antoine Depage, propose un embargo internazionale sul futuro uso di quelle armi in combattimento. «Comprendiamo quale sia la generosa motivazione», fu il commento del giornalista, «ma se dobbiamo attenderci che un giorno saremo sovrastati numericamente sul campo di battaglia, allora è bene che i nostri nemici sappiano che abbiamo simili armi con cui difenderci, armi temibili [...]». L’articolo si concludeva affermando che la Francia si doveva congratulare con se stessa sia per la forza terrificante delle sue armi sia perché possedeva «un’organizzazione medica che possiamo sicuramente definire meravigliosa»8. Nell’Europa prebellica, è possibile trovare riflessioni così disinvolte pressoché ovunque. In questo senso, i protagonisti del 1914 erano dei sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere, tormentati dagli incubi ma ciechi di fronte alla realtà dell’orrore che stavano per portare nel mondo.
1 Rebecca West, Black Lamb and Grey Falcon. A Journey Through Yugoslavia, London 1955, p. 350 (trad. it. Viaggio in Iugoslavia. La Bosnia e l’Erzegovina, Torino 1994, p. 100).
2 La memoria a cui si fa riferimento è del principe Boris A. Vasil’čiko, ed è analizzata in Dominic C.B. Lieven, Bureaucratic Authoritarianism in Late Imperial Russia: The Personality, Career and Opinions of P.N. Durnovo, in «The Historical Journal», XXVI, 1983, 2, pp. 391-402.
3 Si veda, ad esempio, Mark Hewitson, Germany and the Causes of the First World War, Oxford 2006, pp. 3-4. Sulla tesi di Fischer come una forma di impegno personale per contrastare l’influenza dell’eredità del nazismo, si veda Klaus Grosse Kracht, Fritz Fischer und der deutsche Protestantismus, in «Zeitschrift für neuere Theologiegeschichte», X, 2003, 2, pp. 224-252; Rainer Nicolaysen, Rebell wider Willen? Fritz Fischer und die Geschichte eines nationalen Tabubruchs, in 100 Jahre Geschichtswissenschaft in Hamburg Hamburger Beiträge zur Wissenschaftsgeschichte, a cura di Rainer Nicolaysen, Axel Schildt, vol. XVIII, Berlin-Hamburg 2011, pp. 197-236.
4 Paul Kennedy, The Rise of the Anglo-German Antagonism, London 1980, p. 467 (trad. it. L’antagonismo anglo-tedesco, Milano 1993, p. 643).
5 Si veda Paul W. Schroeder, Embedded Counterfactuals and World War I as an Unavoidable War, in Systems, Stability, and Statecraft: Essays in International History by Paul W. Schroeder, a cura di David Wetzel, Robert Jervis, Jack S. Levy, New York 2004, p. 42; per una penetrante interpretazione della guerra come risultato non intenzionale degli errori commessi da un’élite politica che vedeva in una guerra generale una catastrofe, si veda Gian Enrico Rusconi, Rischio 1914. Come si decide una guerra, Bologna 1987.
6 Per la tesi secondo cui la guerra sarebbe stata breve, si veda Gerhard Ritter, Der Schlieffenplan. Kritik eines Mythos, München 1965; Lancelot Farrar, The Short War Illusion. German Policy, Strategy and Domestic Affairs, August-December 1914, Santa Barbara 1973; Stephen Van Evera, The Cult of the Offensive and the Origins of the First World War, in «International Security», IX, 1984, pp. 397-419; per una critica al riguardo: Stig Förster, Der deutsche Generalstab und die Illusion des kurzen Krieges, 1871-1914: Metakritik eines Mythos, in «Militärgeschichtliche Mitteilungen», LIV, 1995, pp. 61-95; un’eccellente rassegna sul dibattito è quella di Holger H. Herwig, Germany and the «Short-War» Illusion: Toward a New Interpretation?, in «Journal of Military History», LXVI, 2002, 3, pp. 681-693.
7 Cit. in Herwig, Germany and the «Short-War» Illusion cit., p. 686.
8 Horace Blanchon [pseud.], Académie de Médecine, in «Le Figaro», 5 marzo 1913 (ritaglio in NA, 2.05.03, doc. 648, Correspondentie over de Balkan-oorlog).