Quando il 28 giugno 1914, una domenica mattina, l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia Chotek arrivarono alla stazione ferroviaria di Sarajevo, l’Europa era in pace. Trentasette giorni dopo, era un continente in guerra. Il conflitto che si aprì quell’estate avrebbe portato alla mobilitazione di 65 milioni di soldati e alla fine di tre imperi, provocando 20 milioni di morti fra militari e civili e 21 milioni di feriti. Gli orrori cui l’Europa ha assistito nel ventesimo secolo derivano da questa catastrofe. Come ha scritto lo storico americano Fritz Stern, fu «la prima calamità del ventesimo secolo, la grande guerra, da cui discesero tutte le altre»1. Il dibattito sulle sue cause si aprì quando ancora non erano stati esplosi i primi colpi, e da allora non si è più interrotto, generando una letteratura storiografica senza precedenti per vastità, sottigliezza e tensione morale. Per i teorici delle relazioni internazionali, gli eventi del 1914 rimangono la crisi politica per eccellenza, tanto intricata da rendere plausibile qualsiasi ipotesi.
Lo storico che cerchi di comprendere la genesi della Prima guerra mondiale si trova a dover affrontare diversi problemi. Il primo, e più ovvio, è costituito dalla sovrabbondanza delle fonti. Ognuno degli Stati belligeranti produsse edizioni ufficiali in più volumi dei documenti diplomatici, vaste opere frutto di un lavoro d’archivio collettivo. Questo vero e proprio oceano di fonti è percorso da insidiose correnti. La maggior parte delle edizioni ufficiali di documenti prodotte nel periodo fra la due guerre ha un taglio apologetico. La pubblicazione tedesca intitolata Die Grosse Politik der europäischen Kabinette, un’opera in quaranta volumi comprendente 15.889 documenti organizzati in 300 aree tematiche, non venne redatta avendo in mente obiettivi puramente accademici; si sperava infatti che la rivelazione dei documenti prebellici sarebbe stata sufficiente a confutare la tesi di una «colpa della guerra» insita nelle clausole del Trattato di pace di Versailles2. Anche per il governo francese, la pubblicazione postbellica di documenti rappresentò un’impresa a «carattere essenzialmente politico», come disse il ministro degli Esteri Jean-Louis Barthou nel maggio del 1934. Aveva lo scopo di «controbilanciare la campagna lanciata dalla Germania dopo il Trattato di Versailles»3. A Vienna, come affermò nel 1926 Ludwig Bittner, condirettore della collana in otto volumi Österreich-Ungarns Aussenpolitik, l’intento fu di produrre un’autorevole edizione di fonti prima che qualche organismo internazionale (forse la Società delle Nazioni?) costringesse il governo austriaco a pubblicarle in circostanze meno favorevoli4. Le prime raccolte di documenti pubblicate dai sovietici furono in parte motivate dal desiderio di dimostrare che la guerra era stata avviata dallo zar e dal suo alleato Raymond Poincaré, sperando con ciò di delegittimare le richieste francesi di rimborso dei prestiti prebellici5. Perfino in Gran Bretagna, dove la pubblicazione della serie di volumi intitolata British Documents on the Origins of the War venne annunciata tra nobili appelli alla ricerca imparziale, la raccolta documentaria data alle stampe presentava tendenziose omissioni, tanto da offrire un quadro non del tutto equilibrato del ruolo che la Gran Bretagna aveva avuto negli eventi che precedettero lo scoppio della guerra6. In breve, le grandi edizioni europee di documenti, nonostante il loro innegabile valore per gli studiosi, furono usate come munizioni in «una guerra mondiale dei documenti», come rilevò nel suo studio critico del 1929 lo storico militare tedesco Bernhard Schwertfeger7.
Le memorie degli statisti, dei comandanti militari e di altri cruciali protagonisti della politica dei vari paesi, sebbene indispensabili per chiunque voglia comprendere cosa accadde lungo il percorso che portò alla guerra, presentano a loro volta rilevanti problematiche. Alcune risultano deludenti per la loro reticenza su questioni scottanti. Possiamo limitarci a richiamare alcuni esempi: le Betrachtungen zum Weltkriege [Considerazioni sulla guerra mondiale] pubblicate nel 1919 dal cancelliere tedesco Theobald von Bethmann Hollweg non dicono praticamente niente su quello che egli stesso o i suoi colleghi fecero durante la Crisi di luglio del 1914; le memorie politiche del ministro degli Esteri russo Sergej Sazonov, dal tono sicuro e borioso, sono in vari punti mendaci e del tutto prive di informazioni sul ruolo che l’autore ebbe negli eventi decisivi; i dieci volumi delle memorie pubblicate dal presidente francese Raymond Poincaré sugli anni in cui fu al potere sono attenti più alla propaganda che a rivelare informazioni sostanziali, e si riscontrano sorprendenti discrepanze fra i «ricordi» dell’ex presidente in merito agli eventi durante la crisi e le note che all’epoca egli scrisse nel suo diario inedito8. Le piacevoli memorie del segretario di Stato britannico agli Affari esteri Sir Edward Grey sono vaghe rispetto alla delicata questione degli impegni che egli aveva assunto con le potenze dell’Intesa prima dell’agosto 1914 e su come essi influenzarono il suo modo di operare durante la crisi9.
Quando alla fine degli anni Venti lo storico americano Bernadotte Everly Schmitt, dell’Università di Chicago, giunse in Europa munito di lettere di presentazione per intervistare le personalità politiche che avevano avuto un ruolo negli eventi, rimase colpito dal fatto che i suoi interlocutori fossero apparentemente del tutto immuni da dubbi sul proprio operato (l’unica eccezione fu Grey, il quale «rilevò spontaneamente» di aver commesso un errore tattico nel cercare di negoziare con Vienna tramite Berlino in occasione della Crisi di luglio, ma l’errore di valutazione a cui si riferiva era d’importanza secondaria, e il suo commento rifletteva una concessione all’autodenigrazione che rientrava nello stile tipico di chi in Inghilterra occupa posizioni di rilievo, piuttosto che una sincera ammissione di responsabilità)10. Anche la memoria poi giocava i suoi scherzi. Schmitt rintracciò Pëtr Bark, l’ex ministro delle Finanze russo, che all’epoca faceva il banchiere a Londra. Nel 1914, Bark aveva partecipato a riunioni nelle quali vennero assunte decisioni di enorme importanza. Tuttavia, quando Schmitt lo incontrò, si ostinò a dire di «avere pochi ricordi di quell’epoca»11. Per fortuna, gli appunti che lui stesso prese durante la crisi sono più prodighi di informazioni. Quando nell’autunno del 1937 lo studioso Luciano Magrini si recò a Belgrado per intervistare i sopravvissuti fra le persone collegate al complotto di Sarajevo, dovette constatare che alcuni testimoni riferivano di questioni delle quali non potevano avere conoscenza, altri tacevano o alteravano quello che sapevano e altri ancora aggiungevano «fronzoli ai loro racconti o si preoccupa[va]no di trovare giustificazioni a proprio vantaggio»12.
Vi sono inoltre lacune tuttora significative nelle nostre conoscenze. Molti contatti importanti fra i protagonisti decisivi erano verbali, e non hanno lasciato traccia: possono essere ricostruiti soltanto ricorrendo a fonti indirette o a testimonianze successive. Le organizzazioni serbe collegate con l’attentato di Sarajevo avevano un carattere rigorosamente segreto e non lasciarono quasi nessuna documentazione scritta. Dragutin Dimitrijević, capo dei servizi segreti militari serbi e figura chiave nel complotto per assassinare l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, aveva l’abitudine di bruciare le sue carte. Molto rimane da sapere sull’esatto contenuto delle prime discussioni fra Vienna e Berlino su come si sarebbe dovuto procedere per reagire alle uccisioni di Sarajevo. I verbali delle riunioni al vertice che si tennero dal 20 al 23 giugno a San Pietroburgo fra i dirigenti politici francesi e russi, documenti che potrebbero avere un’enorme importanza per comprendere l’ultima fase della crisi, non sono mai stati rinvenuti (i protocolli russi andarono probabilmente persi, mentre il gruppo di lavoro che fu incaricato di curare l’edizione dei Documents Diplomatiques Français non riuscì a rinvenire la versione francese). I bolscevichi pubblicarono molti fondamentali documenti diplomatici, con l’intento di screditare le macchinazioni imperialiste delle grandi potenze, ma i testi comparvero ad intervalli irregolari e senza un ordine rigoroso, e in genere si concentrarono su questioni specifiche, come le mire russe sul Bosforo. Alcuni documenti (il cui numero esatto non è ancora noto) andarono persi nel caotico periodo della guerra civile, e l’Unione Sovietica non pubblicò mai un’edizione di documenti sistematica tale da reggere il confronto con quelle relative alle fonti britanniche, francesi, tedesche e austriache13. La pubblicazione di fonti russe rimane a tutt’oggi lungi dall’essere completa.
Un altro elemento distintivo della crisi dell’estate del 1914 è l’eccezionale complessità della sua struttura. Un evento più recente come la crisi dei missili a Cuba del 1962 è altrettanto intricato, ma coinvolse solo due protagonisti principali (gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica), oltre a una serie di attori di contorno e di rilievo minore. La storia delle origini della guerra del 1914 deve invece dar conto delle interazioni multilaterali fra cinque autonomi protagonisti di pari importanza – Germania, Austria-Ungheria, Francia, Russia e Gran Bretagna –, o addirittura sei, se aggiungiamo l’Italia, oltre a vari altri Stati sovrani strategicamente rilevanti e altrettanto autonomi, come l’Impero ottomano e gli Stati della penisola balcanica, regione caratterizzata in quegli anni da elevati livelli di tensione politica e di instabilità.
Un ulteriore elemento di complicazione deriva dal fatto che le dinamiche politiche interne agli Stati coinvolti nella crisi erano spesso tutt’altro che trasparenti. Si potrebbe pensare agli eventi del luglio 1914 come ad una «crisi» internazionale, termine che suggerisce l’esistenza di una serie di Stati nazionali concepiti come entità coese, autonome e separate, che interagiscono come biglie su un biliardo. Ma le strutture istituzionali che generarono le politiche attuate durante la crisi erano profondamente disunite. Non era chiaro (e ancora oggi non lo è per gli storici) in quale punto esatto delle strutture esecutive fosse collocato il potere di determinare la politica di uno Stato, e gli impulsi decisivi – o quanto meno le iniziative di vario tipo che confluivano nelle scelte politiche – non provenivano necessariamente dal vertice del sistema; potevano emanare da elementi periferici dell’apparato diplomatico, dai comandanti militari, da funzionari ministeriali e perfino da ambasciatori, che spesso conducevano una loro autonoma politica.
Le fonti superstiti ci presentano così un caotico sovrapporsi di promesse, minacce, piani e previsioni, e ciò contribuisce a sua volta a spiegare per quale motivo lo scoppio di questa guerra si è prestato ad essere interpretato in una tale stupefacente varietà di modi. Non esiste praticamente alcun punto di vista sulle sue origini che non possa essere sostenuto da una parte delle fonti disponibili. E questo spiega anche per quale motivo la letteratura sulle cause della Prima guerra mondiale abbia assunto proporzioni talmente vaste che nessun singolo storico (neppure un’immaginaria figura di studioso in grado di padroneggiare tutte le lingue richieste) può sperare di poterla leggere per intero nell’arco della vita (vent’anni fa, una rassegna della letteratura corrente stimava in 25.000 il numero di volumi e saggi sul tema)14. Alcune trattazioni si sono concentrate sulla colpa da attribuire alla mela marcia del sistema (la Germania è stata in tal senso la più gettonata, ma nessuna delle grandi potenze è sfuggita all’accusa di essere la maggiore responsabile); altri hanno ripartito la colpa fra più soggetti, cercando di individuare i difetti del «sistema». Le complessità sono tali che la discussione non si è mai interrotta. E oltre ai dibattiti degli storici, che hanno avuto la tendenza a soffermarsi sulle questioni della colpa o dei rapporti fra la responsabilità delle scelte individuali e i vincoli imposti da elementi strutturali, è stata elaborata una notevole riflessione sulla dinamica delle relazioni internazionali, nella quale categorie come deterrenza, distensione e non intenzionalità, o termini riferiti a meccanismi potenzialmente applicabili a qualsiasi contesto, come la ricerca della compensazione, la trattativa e la volontà di salire sul carro dei vincitori, occupano un ruolo centrale. Sebbene il dibattito su questo tema sia ormai quasi secolare, non c’è ragione di credere che si sia esaurito15.
Ma se il dibattito è antico, il tema è ancora vivo, anzi più vivo e rilevante oggi di quanto non lo fosse venti o trent’anni fa. I cambiamenti avvenuti nel mondo hanno modificato la nostra prospettiva sugli eventi del 1914. Dagli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta, le vicende di quel periodo avevano assunto un certo fascino agli occhi dell’opinione pubblica. Era facile raffigurarsi il disastro dell’«ultima estate» dell’Europa quasi fosse un dramma fin de siècle in costume. I logori rituali e le uniformi sgargianti, gli aspetti «ornamentali» di un mondo ancora in gran parte organizzato attorno all’istituto della monarchia ereditaria avevano un effetto straniante sulla rievocazione a tanti anni di distanza. Tutto ciò sembrava indicare che i protagonisti fossero figure di un mondo ormai scomparso. Si insinuò furtivamente la convinzione che come i cappelli dei protagonisti erano adorni di vistose piume di struzzo verdi, probabilmente lo fossero anche i loro pensieri e le loro motivazioni16.
E tuttavia, quel che inevitabilmente colpisce il lettore del ventunesimo secolo quando si appresti a seguire il corso della crisi dell’estate del 1914 è la sua essenziale modernità. La crisi cominciò con l’azione di una squadra di dinamitardi suicidi e con una sfilata di automobili. Dietro l’attentato di Sarajevo c’era un’organizzazione dichiaratamente terroristica che coltivava il culto del sacrificio, della morte e della vendetta; ma questa organizzazione aveva una natura extra-territoriale, ed era priva di una chiara collocazione geografica o politica; era sparpagliata in cellule che avevano la loro base oltre confine, priva di un responsabile, i suoi collegamenti con i governi ufficiali erano obliqui, nascosti e sicuramente difficili da scorgere per chi non vi appartenesse. Di fatto, si potrebbe perfino affermare che il luglio del 1914 è meno distante da noi – meno illeggibile – di quanto non lo fosse negli anni Ottanta. Dopo la fine della Guerra fredda, un sistema globale di stabilità bipolare ha lasciato il posto ad una più complessa e imprevedibile varietà di forze, ivi compresi imperi in declino e potenze in ascesa, una situazione che invita al confronto con l’Europa del 1914. Accettare questa sfida non significa adottare un approccio banalmente attualizzante, che reinterpreti il passato per soddisfare le esigenze del presente, quanto piuttosto individuare in quel passato alcuni aspetti che il nostro mutato punto di vista ci consente ora di comprendere più chiaramente.
Fra questi vi è sicuramente il contesto balcanico da cui la guerra trasse inizio. La Serbia è uno dei punti deboli della storiografia sulla Crisi di luglio. L’assassinio di Sarajevo è trattato in molte ricostruzioni come un semplice pretesto, come un evento di scarso peso sulle forze reali la cui interazione condusse al conflitto. Gli autori di un recente ed eccellente studio sullo scoppio della guerra nel 1914 affermano che «in quanto tali, gli omicidii [di Sarajevo] non causarono niente. Fu l’uso che ne venne fatto che portò gli Stati alla guerra»17. L’idea che la dimensione serba, e quindi più in generale balcanica della vicenda, rappresentasse un fattore marginale si affacciò già durante la stessa Crisi di luglio, che si aprì come una reazione all’attentato di Sarajevo ma poi innescò altri meccanismi, entrando in una fase geopolitica in cui la Serbia e i suoi atti finirono per svolgere un ruolo subordinato.
Anche la nostra prospettiva morale ha subito un mutamento. Il fatto che una Jugoslavia sotto il predominio serbo emergesse tra gli Stati vincitori della guerra sembrò implicitamente scagionare l’atto dell’uomo che il 28 giugno premette il grilletto – fu senz’altro questo il punto di vista delle autorità jugoslave, che collocarono nel punto in cui l’attentatore agì delle impronte in bronzo e una targa con cui si celebravano i «primi passi della libertà jugoslava». In un’epoca in cui l’idea nazionale era ancora densa di promesse, si manifestò un’istintiva simpatia per il nazionalismo degli slavi del Sud, e un sentimento di segno opposto nei confronti del multinazionale Impero asburgico. Le guerre jugoslave degli anni Novanta ci hanno ricordato tutto il potenziale di pericolosità contenuto nei nazionalismi balcanici. Dopo eventi come quelli di Srebrenica e dell’assedio di Sarajevo, è diventato più difficile pensare alla Serbia come a una semplice pedina o vittima della politica delle grandi potenze, e più facile concepire il nazionalismo serbo come un’autonoma forza storica. Dall’odierna prospettiva dell’Unione Europea, siamo portati a guardare con maggiore simpatia – o almeno con minor disprezzo – di un tempo all’ormai scomparso mosaico imperiale dell’Austria-Ungheria asburgica.
Infine, oggi è forse più facile vedere che non è opportuno liquidare le due uccisioni di Sarajevo come un semplice incidente non in grado di condizionare veramente gli eventi. L’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 ha mostrato come un unico, simbolico evento – per quanto profondamente intrecciato a processi storici più vasti – possa modificare irrevocabilmente le dinamiche politiche, rendendo obsolete le vecchie opzioni e conferendo alle nuove un’imprevedibile urgenza. Rimettere Sarajevo e i Balcani al centro della vicenda non significa demonizzare i serbi né i loro statisti, e neppure sottrarsi all’obbligo di comprendere le forze che operarono su quei politici, ufficiali e attivisti serbi che con il loro comportamento e le loro decisioni contribuirono a determinare il tipo di conseguenze che gli spari di Sarajevo generarono.
Questo volume tenta quindi di comprendere la Crisi di luglio del 1914 come un evento della contemporaneità, il più complesso dell’epoca contemporanea, e forse di qualsiasi epoca. Più che del perché, si preoccupa di capire come si arrivò alla guerra. Si tratta ovviamente di due problemi logicamente non separabili, ma che ci conducono comunque in direzioni diverse. La questione del come ci invita a considerare da vicino le sequenze di interazioni che produssero certe conseguenze. La questione del perché ci induce invece ad andare alla ricerca di cause remote e ascrivibili a categorie precise: imperialismo, nazionalismo, armamenti, alleanze, alta finanza, senso di onore nazionale, dinamiche di mobilitazione. Chiedersi perché porta a una certa chiarezza analitica, ma genera anche un effetto distorcente, in quanto crea l’illusione dell’esistenza di meccanismi causali che operano una pressione costante e crescente; i fattori si accumulano l’uno sull’altro, spingendo in basso gli eventi, e gli attori politici diventano semplici esecutori di forze da tempo presenti e al di fuori del loro controllo.
La storia ricostruita in questo libro, invece, è densa di azioni. Coloro che ebbero la responsabilità delle principali decisioni – re, imperatori, ministri degli Esteri, ambasciatori, comandanti militari e una schiera di funzionari minori – camminarono verso il pericolo con passi guardinghi e calcolati. Lo scoppio della guerra fu il momento culminante di concatenazioni di decisioni assunte da attori politici che perseguivano consapevolmente degli obiettivi ed erano capaci di riflettere su quanto stavano facendo, e che individuarono una serie di azioni formulando le valutazioni più adeguate in base alle migliori informazioni di cui disponevano. Il nazionalismo, gli armamenti, le alleanze e la finanza furono tutti elementi che entrarono a far parte della storia, ma acquistano una valenza esplicativa solo quando si possa mostrare una loro effettiva influenza sulle decisioni che, congiuntamente, fecero scoppiare la guerra.
Uno storico bulgaro delle guerre balcaniche ha di recente osservato che «una volta posta la questione del ‘perché’, il punto decisivo diventa quello della colpa»18. Le questioni della colpa e della responsabilità sono entrate a far parte di questa storia ancor prima che la guerra avesse inizio. Tutte le fonti documentarie sono piene di attribuzioni di colpa (era un mondo in cui le intenzioni aggressive venivano sempre addebitate all’avversario, e quelle difensive attribuite a se stessi), e il giudizio enunciato dall’articolo 231 del Trattato di Versailles contribuì a far sì che la questione della «colpa della guerra» rimanesse in primo piano. Anche a questo riguardo, concentrarsi sul tema del come permette di adottare un approccio alternativo, ripercorrendo gli eventi non per il bisogno di redigere un capo d’accusa contro questo o quello Stato o contro particolari individui, ma con lo scopo di individuare le decisioni che produssero la guerra e di comprendere i ragionamenti o le emozioni che le sostennero. Ciò non significa escludere del tutto dalla discussione la questione della responsabilità, quanto semmai fare in modo che le risposte ai perché scaturiscano da quelle relative al come, e non l’inverso.
Questo volume narra la storia di come l’Europa continentale arrivò alla guerra. Le strade che condussero al conflitto vengono ripercorse sviluppando una narrazione a più livelli, che passa dai principali centri decisionali di Vienna, Berlino, San Pietroburgo, Parigi, Londra e Belgrado, con brevi escursioni a Roma, Costantinopoli e Sofia. La trattazione è divisa in tre parti. La prima si concentra sui due antagonisti, la Serbia e l’Austria-Ungheria, la cui contrapposizione innescò il conflitto, e ne segue i rapporti fino all’attentato di Sarajevo. La seconda parte interrompe lo svolgimento narrativo per affrontare in quattro capitoli altrettante domande: come si arrivò alla polarizzazione dell’Europa in blocchi contrapposti? In che modo i governi degli Stati europei elaborarono la loro politica estera? Come poté succedere che i Balcani – una regione periferica lontana dai centri di potere politico ed economico europei – diventassero il teatro di una crisi di tale vastità? Come avvenne che un sistema internazionale che sembrava avviato verso un’epoca di distensione producesse una guerra generale? La terza parte si apre con le uccisioni di Sarajevo e presenta una narrazione della Crisi di luglio, prendendo in esame le interazioni fra i principali centri decisionali e mettendo in luce i calcoli, le incomprensioni e le scelte che portarono la crisi da una fase a quella successiva.
Un presupposto centrale del libro è che gli eventi del luglio 1914 acquisiscono un senso solo se illuminiamo i percorsi compiuti dai principali attori. Per riuscirvi, non basta procedere ad una semplice riconsiderazione della sequenza di «crisi» internazionali che precedettero lo scoppio della guerra: occorre anche comprendere in che modo quegli eventi furono vissuti e inseriti in una narrazione che determinò il modo di percepirli e motivò specifici comportamenti. Perché gli uomini che con le loro decisioni portarono l’Europa in guerra si comportarono e videro le cose in un certo modo? In che modo il senso di paura e i presentimenti di cui tante fonti ci offrono testimonianza si collegano all’arroganza e alla spavalderia che incontriamo – spesso nelle stesse persone? Per quale motivo elementi così esotici della scena prebellica come la questione albanese e il «prestito bulgaro» ebbero tanta importanza, e in che modo essi si associarono nella mente di chi deteneva il potere politico? Discutendo della situazione internazionale o delle minacce esterne, i protagonisti dell’alta politica avevano davanti agli occhi qualcosa di reale o proiettavano le proprie personali paure e i propri desideri sui rispettivi avversari, o facevano entrambe le cose insieme? L’ambizione di questa ricerca è stata di ricostruire nel modo più vivido possibile le «posizioni decisionali» estremamente dinamiche in cui si trovarono i principali protagonisti prima e durante l’estate del 1914.
Alcuni dei più interessanti contributi recenti su questa guerra hanno sostenuto che essa, lungi dall’essere inevitabile, fu di fatto «improbabile» – perlomeno finché non avvenne veramente19. Da ciò deriverebbe il fatto che il conflitto non fu la conseguenza di un deterioramento in atto da lungo tempo, bensì di traumi di breve termine che scossero il sistema internazionale. Che la si condivida o meno, questa impostazione ha il merito di inserire nella vicenda un elemento di contingenza. Ed è certamente vero che se alcuni degli sviluppi che questo libro prende in esame sembrano indicare inequivocabilmente la direzione di quello che poi effettivamente avvenne nel 1914, altri vettori di cambiamento del periodo prebellico lasciano intravedere esiti diversi, che tuttavia non si concretizzarono. Tenendo conto di queste considerazioni, il volume cerca di mostrare in che modo si assemblarono quei diversi elementi causali che, una volta in campo, determinarono lo scoppio della guerra, facendo attenzione tuttavia a non giudicare scontato l’esito finale. Ho cercato di tenere sempre presente che le persone, gli eventi e le forze descritte in questo libro portavano dentro di sé i semi di altri, forse meno terribili, futuri.
1 Cit. in David Fromkin, Europe’s Last Summer. Who Started the Great War in 1914?, New York 2004, p. 6 (trad. it. L’ultima estate dell’Europa. Il grande enigma del 1914: perché è scoppiata la prima guerra mondiale?, Milano 2005, p. 14).
2 Il ministero degli Esteri tedesco finanziò le attività dello Arbeitsauschuss Deutscher Verbände, impegnato a coordinare la campagna contro l’attribuzione della colpa del conflitto alla Germania, e appoggiò ufficiosamente lo Zentralstelle zur Erforschung der Kriegsursachen, composto da studiosi; si veda Ulrich Heinemann, Die verdrängte Niederlage: politische Öffentlichkeit und Kriegsschuldfrage in der Weimarer Republik, Göttingen 1983, in particolare pp. 95-117; Sacha Zala, Geschichte unter der Schere politischer Zensur. Amtliche Aktensammlung im internationalen Vergleich, München 2001, in particolare pp. 57-77; Imanuel Geiss, Die manipulierte Kriegsschuldfrage. Deutsche Reichspolitik in der Julikrise 1914 und deutsche Kriegsziele im Spiegel des Schuldreferats des Auswärtigen Amtes, 1919-1931, in «Militäreschichtliche Mitteilungen», XXXIV, 1983, pp. 31-60.
3 Lettera di Barthou a Martin, 3 maggio 1934, cit. in Keith Hamilton, The Historical Diplomacy of the Third Republic, in Forging the Collective Memory. Government and International Historians through Two World Wars, a cura di Keith M. Wilson, Oxford 1996, pp. 29-62, in particolare p. 45; sulle critiche francesi all’edizione tedesca, si veda per esempio Émile Bourgeois, Les archives d’État et l’enquête sur les origines de la guerre mondiale. À propos de la publication allemande: Die grosse Politik d. europ. Kabinette et de sa traduction française, in «Revue historique», CLV, maggio-agosto 1927, pp. 39-56. Bourgeois accusò i curatori tedeschi di aver strutturato la pubblicazione in modo tale da nascondere alcune omissioni tattiche nella raccolta documentaria; per una replica del curatore tedesco, si veda Friedrich Thimme, Französische Kritiken zur deutschen Aktenpublikation, in «Europäische Gespräche», VIII-IX, 1927, pp. 461-479.
4 Ulfried Burz, Austria and the Great War. Official Publications in the 1920s and 1930s, in Forging the Collective Memory cit., pp. 178-191, in particolare p. 186.
5 Jean-Baptiste Duroselle, La grande guerre des Français, 1914-1918: L’incompréhensible, Paris 1994, pp. 23-33; John F.V. Keiger, Raymond Poincaré, Cambridge 1997, pp. 194-195.
6 Keith M. Wilson, The Imbalance in British Documents on the Origins of the War, 1898-1914. Gooch, Temperley and the India Office, in Forging the Collective Memory cit., pp. 230-264, in particolare p. 231; si veda anche Id., Introduction. Governments, Historians and «Historical Engineering», ivi, pp. 1-28, in particolare pp. 12-13.
7 Bernhard Schwertfeger, Der Weltkrieg der Dokumente. Zehn Jahre Kriegsschuldforschung und ihr Ergebnis, Berlin 1929. Su questo problema più in generale, si veda Zala, Geschichte unter der Schere cit., pp. 31-36, 47-91 e 327-338.
8 Theobald von Bethmann Hollweg, Betrachtungen zum Weltkriege, 2 voll., Berlin 1919, vol. I, pp. 113-184; Sergei Dmitrievich Sazonov, Les années fatales, Paris 1927; Raymond Poincaré, Au service de la France - neuf années de souvenirs, 10 voll., Paris 1926-1933, in particolare il vol. IV, L’Union sacrée, pp. 163-431. Per un particolareggiato ma non necessariamente più illuminante esame della crisi da parte dell’ex presidente, si vedano le affermazioni riportate in René Gerin, Les responsabilités de la guerre: quatorze questions, par René Gerin; quatorze réponses, par Raymond Poincaré, Paris 1930.
9 Edward Viscount Grey of Fallodon, Twenty-Five Years: 1892-1916, London 1925.
10 Bernadotte Everly Schmitt, Interviewing the Authors of the War, Chicago 1930.
11 Ivi, p. 11.
12 Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914, 3 voll., Milano 1942-1943 [a quest’opera si rinvia per il testo in traduzione italiana di molti dei documenti citati in questo volume], vol. II, La crisi del luglio 1914. Dall’attentato di Sarajevo alla mobilitazione generale dell’Austria-Ungheria, p. 42; Magrini lavorava per conto di Luigi Albertini.
13 Derek Spring, The Unfinished Collection. Russian Documents on the Origins of the First World War, in Forging the Collective Memory cit., pp. 63-86.
14 John W. Langdon, July 1914: The Long Debate, 1918-1990, Oxford 1991, p. 51.
15 Non è questa la sede adeguata per fornire un’indicazione, neppure sommaria, sulla letteratura esistente. Per utili rassegne sul dibattito e sulla sua evoluzione, si veda John A. Moses, The Politics of Illusion: The Fischer Controversy in German Historiography, London 1975; Annika Mombauer, The Origins of the First World War: Controversies and Consensus, London 2002; Wolfgang Jäger, Historische Forschung und politische Kultur in Deutschland. Die Debatte um den Ausbruch des Ersten Weltkriegs 1914-1980, Göttingen 1984; Langdon, July 1914: The Long Debate cit.; Id., Emerging from Fischer’s Shadow: Recent Examinations of the Crisis of July 1914, in «The History Teacher», vol. XX, 1, 1986, pp. 63-86; James Joll, The 1914 Debate Continues: Fritz Fischer and His Critics, in «Past & Present», XXXIV, 1966, 1, pp. 100-113, e la replica di P.H.S. Hatton, Britain and Germany in 1914: The July Crisis and War Aims, ivi, XXXVI, 1967, 1, pp. 138-143; Konrad H. Jarausch, Revising German History. Bethmann Hollweg Revisited, in «Central European History», XXI, 1988, 3, pp. 224-243; Samuel R. Williamson, Ernest R. May, An Identity of Opinion. Historians and July 1914, in «Journal of Modern History», LXXIX, 2007, 2, pp. 335-387; Jay Winter, Antoine Prost, The Great War in History. Debates and Controversies, 1914 to the Present, Cambridge 2005.
16 Sugli aspetti che confluiscono in quello che è stato definito ornamentalism, si veda David Cannadine, Ornamentalism. How the British Saw Their Empire, London 2002; per uno splendido esempio dell’approccio al periodo prebellico come al «mondo dei tempi andati», si veda Barbara Tuchman, The Proud Tower. A Portrait of the World before the War, 1890-1914, London 1966 (trad. it. Tramonto di un’epoca. Dagli splendori della Belle Epoque al dramma di Sarajevo, Milano 1982) e Ead., August 1914, London 1962.
17 Richard F. Hamilton, Holger Herwig, Decisions for War 1914-1917, Cambridge 2004, p. 46.
18 Svetoslav Budinov, Balkanskite Voini (1912-1913). Istoričeski predstavi v sistemata na naučno-obrezovatelnata komunikacia, Sofia 2005, p. 55.
19 Si veda in particolare Holger Afflerbach, The Topos of Improbable War in Europe before 1914, in An Improbable War? The Outbreak of World War I and European Political Culture before 1914, a cura di Holger Afflerbach, David Stevenson, Oxford 2007, pp. 161-182 e l’introduzione dei curatori allo stesso volume (pp. 1-17).