III.

La psichiatria di oggi

Nei servizi ospedalieri di psichiatria, e la cosa è subito riemersa nella sua dolorosa evidenza, non sempre ci sono condizioni di degenza rispettose dei diritti umani dei pazienti. Ci sono servizi ospedalieri di psichiatria, anche in ospedali di grandi città, contrassegnati da porte e finestre sbarrate, e da agghiaccianti forme di contenzione. Sí, Basaglia non avrebbe voluto che si istituissero negli ospedali civili servizi di psichiatria: temendo la loro trasformazione in luoghi di separatezza e di esclusione, di violenza e di contenzioni, che ne ripetessero i modelli manicomiali, e togliessero ai pazienti libertà e dignità, autonomia e speranza. Nelle divisioni di medicina generale si dovevano invece creare posti-letto, non strutturati, per i pazienti bisognosi di degenza ospedaliera. Le cose non sono andate cosí. Le mie non sono considerazioni critiche, non avrebbero senso, nei confronti di una legge, che ha radicalmente cambiato, umanizzandola, la psichiatria italiana, ma constatazioni di modi ancora non degni di una psichiatria che sia scienza sociale, e scienza della intersoggettività: scienza fondata sul dialogo e sull’ascolto, sulla comprensione e sulla immedesimazione nel dolore, e nella disperazione, dei pazienti.

Sono cose che scrivo perché, vorrei illudermi che sia cosí, i giovani psichiatri prendano coscienza dei pericoli immanenti agli svolgimenti di una psichiatria talora estranea alla ispirazione della legge di riforma, e sappiano contestare con coraggio questi dolorosi stravolgimenti che ne lacerano le intenzioni; e prendano anche coscienza, in particolare, del tema della contenzione, dei suoi modi di ferire e anzi di straziare la dignità dei pazienti.

La contenzione.

La contenzione è un problema sanguinante in psichiatria, nei servizi ospedalieri di psichiatria, e (anche) nelle case di riposo. Non se ne parla molto, e anzi non se ne parla, nonostante la radicale e bruciante dimensione etica della cosa. Le forme di contenzione sono diverse, e si distinguono in contenzione psicologica – disseminata nei luoghi di lavoro e non solo –, in contenzione architettonica – ne è paradigmatica quella carceraria –, in contenzione farmacologica – cosí difficile da riconoscere e cosí diffusa in psichiatria, al di fuori di ogni cornice etica – e infine in contenzione fisica, o meccanica – la piú crudele e la piú frequente, la piú dolorosa e la piú sconvolgente, quella che, dal lato oggettivo, come si legge in una relazione di Marco Borghi, professore emerito di Diritto della Università di Friburgo, non è se non una forma di tortura in flagrante violazione dei diritti umani fondamentali. Ci sono livelli diversi di contenzione fisica: non intendo elencarne le sconvolgenti modalità, e vorrei solo dire che costa fatica rinunciare alla contenzione come metodo di comoda e apparentemente sicura assistenza, e sostituirla con la presenza umana: con l’attenzione e la pazienza, con l’ascolto e la tenerezza, con lo sguardo che ne dica l’accoglienza, con l’amore insomma: sono modi di essere e di agire che non possono sgorgare se non dal silenzio del cuore.

Ma come non sapere che la contenzione, modello radicalmente inaccettabile di assistenza, annulla ogni possibilità di cura; facendo ulteriormente soffrire esistenze già lacerate dal dolore e dalla disperazione, dall’angoscia e dalla tristezza, dalla dissociazione psicotica e dalla frantumazione maniacale? Non ci si può non confrontare con questo problema se si vogliono conoscere le indicibili ferite della dignità umana in psichiatria; nella consapevolezza che ci sono degenze ospedaliere e in case di riposo nelle quali le persone sono curate e assistite senza causare ferite alla loro dignità e alla loro libertà; e ce ne sono altre nelle quali questo non avviene, e non si sa fare altro se non ricorrere, quando piú alto è il grido di aiuto, alle diverse forme di contenzione.

Sono cose che dovrebbero indurci a riflettere fino in fondo sugli abissi di disperazione che si dischiudono quando una contenzione scenda come una ghigliottina sulla sensibilità ferita e sulla angoscia, sulla nostalgia della vita e della morte, di persone malate che si rivivono come oggetti: come alter ego privati di dignità e di libertà. Non si può parlare di psichiatria, non si può guardare alla psichiatria come ad una disciplina nobile e complessa, che ha a che fare con gli abissi della sofferenza e della tristezza, delle attese e delle speranze ferite, se non si tengono presenti le sue ombre e le sue strazianti problematiche: tematizzate da situazioni dolorose come sono quelle dei modi e dei luoghi in cui la psichiatria agisce quando diviene ospedaliera, e ha a che fare con comportamenti dissonanti come sono quelli che portano alle contenzioni. Queste si confrontano, in particolare, con il tema bruciante della aggressività, e su questo tema vorrei ora riflettere.

L’aggressività.

L’aggressività è un fenomeno complesso e stratificato che non si conosce fino in fondo nei suoi modelli di insorgenza e di evoluzione se non si ripensa alle sue fondazioni relazionali. L’aggressività psicotica è la situazione clinica che piú frequentemente induce a contenere i pazienti in psichiatria, ma anche in non poche case di riposo, nelle quali si contengono persone anziane, anche solo quando sono agitate, o si lamentano. Ma, sia l’aggressività di pazienti psichici sia l’agitazione di persone anziane sono, almeno in parte, motivate dalla nostra incapacità ad entrare in relazione con i loro modi di essere, e di comportarsi; e allora il nostro comune impegno etico non può essere se non quello indirizzato a conoscere noi stessi, e a ri-conoscere la nostra responsabilità nella insorgenza della aggressività, e della agitazione. Siamo tentati di considerare la contenzione come una semplice misura tecnica di salvaguardia, e di volerla applicare, o di consentire alla sua applicazione, solo in casi eccezionali. Non è cosí, e, se fosse anche cosí, ogni contenzione, sia pure temporanea, è causa di ferite incancellabili alla dignità e ai diritti umani delle persone: di quelle fragili e indifese, in particolare.

Nella insorgenza della aggressività ha radicale importanza la relazione: la disposizione ad immedesimarsi nelle emozioni dei pazienti, alle loro attese, al fine di intuirne le parole e i comportamenti idonei a smorzarne le conflittualità. Molta aggressività è determinata dalle relazioni sbagliate che si hanno con i pazienti, sia perché si è prigionieri della routine e della indifferenza sia perché si è svuotati interiormente, e si è incapaci di ascolto e di pazienza. La vera relazione è quella che ci consente di entrare nel mondo interiore dell’altro, evitandone facili e banali ferite, che nel mondo doloroso delle case di riposo, in particolare, nascono (anche) dal modo con cui sono chiamati gli ospiti, dando loro facilmente del tu, e dalla disattenzione alle loro illusioni e alle loro speranze, ai loro sogni e alle loro nostalgie. Conta la vocazione interiore alla assistenza e alla cura, e sarebbe bello avere case di riposo e servizi di psichiatria nei quali si dicesse: «Qui non si contiene mai, si accoglie sempre». L’etica lo vorrebbe: utopia, o demagogia? La cosa è stata possibile a Basaglia, e nei luoghi, in cui ho lavorato, a Milano come a Novara, non ci sono state mai contenzioni.

La psichiatria gentile.

La psichiatria è una disciplina impossibile, una disciplina che tradisce la sua ragione d’essere umana, se non ci sono in noi mete ideali: come la gentilezza e la sensibilità, la intuizione e la grazia, la fantasia e la immaginazione, la solidarietà e la speranza. Queste sono le premesse allo svolgersi di cura e di assistenza di persone fragili e insicure, angosciate e disperate, dimenticate ed emarginate, sommerse da crudeli e ostinati pregiudizi, che giungono a considerarle come esistenze insignificanti, e, la storia lo dimostra, non piú degne di essere vissute. Se non ci sono in noi queste premesse, si potranno conoscere le piú sofisticate modalità di azione degli psicofarmaci, e le sconfinate quattrocento e piú diagnosi del DSM, ma non si sarà capaci di creare relazioni interpersonali con persone ferite dalla angoscia e dalla tristezza patologica, dalla maniacalità e dalla dissociazione psicotica, dalla schizofrenia, che di queste relazioni, di questo ascolto e di questo dialogo hanno bisogno non meno che di psicofarmaci. Certo, se Basaglia avesse considerato la psichiatria scienza biologica, e non invece scienza umana e scienza sociale, mai sarebbe giunto alla rivoluzione che ha portato alla chiusura dei manicomi; e questo, come si è detto, è avvenuto solo in Italia: benché con le problematiche ancora non risolte che sono quelle, in particolare, dei servizi ospedalieri di psichiatria con le loro atmosfere gelidamente farmacologiche, e non psicoterapeutiche e socioterapeutiche, e con le loro contenzioni non solo farmacologiche, ma ancora piú crudelmente fisiche, che ho cercato di illustrare nella loro inammissibile violenza.

A queste défaillances di metodo e di prassi in una psichiatria cosí avanzata culturalmente, come è quella italiana, si aggiunge l’orientamento rigidamente biologico e farmacologico delle psichiatrie universitarie che sono, quasi tutte, radicalmente estranee alla ispirazione psicopatologica e fenomenologica, sociale e umana tout court, della legge di riforma del 1978. In ogni caso, mi auguro che la psichiatria del futuro, quella italiana in particolare, possa ritrovare, sia nelle sue riflessioni teoriche sia nelle sue concrete forme di realizzazione, lo slancio ideale, che ha nutrito la legge di riforma, e la passione della speranza nei riguardi di ogni forma di sofferenza psichica: riguardata nella sua dignità e nella sua umanità: nella sua nostalgia di ascolto e di dialogo.

Come non dire ancora che siamo oggi dinanzi ad una opinione pubblica, divenuta sempre piú estranea al tema della sofferenza psichica, e incapace di coglierne la dimensione dialogica e sociale, e ad una crescente disattenzione della politica che aveva invece coralmente accompagnato il lavoro di Basaglia, comprendendone, e facendole proprie, le radicali fondazioni etiche. Sono cose, queste, che dovrebbero essere illustrate nelle scuole, magari iniziando dalla scuola primaria, e indicando cosa sia la sofferenza psichica, e quali siano i significati, la fragilità e la sensibilità, le ferite dell’anima e la ricchezza umana, che fanno parte della sofferenza psichica, alla quale ciascuno di noi può andare incontro, indipendentemente dalla età, dalla cultura, e dalla condizione sociale. Ma indicando anche la importanza che nella vita hanno la gentilezza e la tenerezza, il sorriso e le lacrime, l’accoglienza della fragilità e della debolezza, le attese e le speranze. Se questo avvenisse, si allenterebbe la forza distruttiva dei pregiudizi che identificano sofferenza psichica e violenza, e diminuirebbe la paura nei confronti del modo di essere e del modo di vivere nelle aree sconfinate della sofferenza psichica, della follia, che è intessuta di umanità ferita.

Risonanze.

Queste sono alcune frammentarie riflessioni sulla psichiatria di oggi, sulle sue luci e sulle sue ombre, sulle sue aperture e sulle sue chiusure, sulle sue prospettive e sulle sue défaillances, sui suoi ideali e sulle sue sconfitte, ma anche sui suoi orizzonti di senso che faticosamente continuano a vivere, o almeno a sopravvivere. Non ci sono se non fragili conoscenze sulla follia, sulla genesi della follia, e sui suoi condizionamenti, che non possono se non essere molteplici, storico-vitali, psicologici, biologici e sociali, e nondimeno in queste problematiche conoscenze se ne coglie una non contestabile, ed è questa: la follia, la sofferenza psichica che la nutre, è una esperienza umana, che fa parte della vita, della vita di ciascuno di noi, e che si comprende nella sua natura piú profonda. Si cura, con i farmaci nelle sue radici biologiche, ma anche sulle scie del dialogo, dell’incontro umano fra chi cura e chi è curato, della conoscenza di sé, delle emozioni che si provano nelle diverse situazioni della vita, e delle attitudini a immedesimarsi nelle emozioni degli altri, a cogliere i significati che si nascondono nelle parole che si ascoltano, e anche quelli che si nascondono nei linguaggi del corpo, dei volti e dei gesti, dei silenzi e dei sogni.

Se condanniamo la psichiatria ad essere scienza naturale, o scienza dei comportamenti, mai ne coglieremmo l’essenza e il mistero; e nondimeno nella ammissione alle scuole di specializzazioni in psichiatria, come ricordavo, non si ricerca mai, mai si analizza, la presenza, o l’assenza, di attitudini emozionali e culturali, e di sensibilità aperte ad entrare in relazione con gli altri, e ad ascoltarne le voci sommesse e neglette del dolore e del silenzio, della nostalgia di uno sguardo e della speranza. Sono attitudini, sono qualità, che talora, o non di rado, mi è capitato di intravedere in sorelle religiose, e in infermiere, e non in psichiatri, divorati dalla fascinazione della tecnica.

Questa è sempre stata, e continua ad essere, una psichiatria che si nutre di gentilezza, parola tematica che scorre temeraria nei miei libri, e di ascolto: vox clamans in deserto, naturalmente, anche se questa mi sembra essere la linfa vitale di ogni psichiatria che intenda cogliere la diversità, certo, ma anche la stremata umanità della sofferenza psichica, alla quale ci si avvicina ancora oggi con diffidenza e noncuranza, con indifferenza e apatia, con crudeltà talora e chiudendo gli occhi dinanzi al dolore e alla disperazione che sono in essa.

Una diversa psichiatria.

Non è facile non finire prigionieri di una psichiatria svuotata di mete ideali, di crescita e di maturazione spirituali, e divorata dalla applicazione delle infinite diagnosi del DSM, e dalla sola somministrazione di psicofarmaci che escluda psicoterapia, e socioterapia. Non mi è possibile concludere questo cammino lungo i sentieri della psichiatria di oggi senza riflettere, sia pure brevemente, su quelle che sono le strutture portanti della psichiatria a-teorica del DSM. Le diverse edizioni, e in particolare l’ultima, sono contrassegnate dal crescente vertiginoso aumento delle diagnosi dei disturbi psichici.

Come ha scritto, in un suo libro di radicale contestazione della quinta edizione del DSM, Allen Frances, al quale si deve la task force che ha pubblicato la quarta edizione, senza che si abbiano prove scientifiche della concreta realtà clinica, introducendo denominazioni vaghe come quella di «disturbi», si sono inventate nuove patologie inutili e pericolose, che conducono in ogni caso alla crescente richiesta di psicofarmaci. Le premesse conoscitive del DSM esigono che tutti guardino agli stessi sintomi con gli stessi occhi: sintomi che sono considerati ripetersi identici in ogni parte del mondo; ma la tristezza, l’angoscia, la colpa, i deliri, le allucinazioni, i suicidi, sono esperienze di vita che cambiano nei diversi contesti psicologici e culturali, e che si possono riconoscere e valutare nella loro dimensione psicopatologica solo muovendo dalla interiorità, dalla soggettività, della persona che soffre, e non dai suoi modelli esteriori di comportamento.

L’accoglienza trionfale del DSM, dei suoi paradigmi conoscitivi, nasce, come scrive ancora Allen Frances, dalla sua capacità di uniformarsi alle tendenze culturali oggi dominanti: escludere la soggettività dalle scelte che facciamo, proporre modelli di vita che consentano la realizzazione automatica delle cose, quella di giungere rapidamente a soluzioni predeterminate, senza che si perda tempo nella ricerca dei significati che si nascondono nelle realtà umane. Ci sono sofferenze che ai nostri occhi sembrano immotivate, e che agli occhi di chi le vive sono dotate di senso; e ci sono sofferenze nascoste che straziano l’anima, e che sfuggono ai nostri occhi distratti da mille inutili cose epidermiche. Non so come, in psichiatria, si possa fare a meno della ricerca e della conoscenza intuitiva della soggettività, della interiorità, delle persone che soffrono, e chiedono disperatamente aiuto.

Vorrei infine citare le parole conclusive del libro di Allen Frances sul tema bruciante della inflazione diagnostica, e anzi della iperinflazione diagnostica. «C’è la reale possibilità di invertire l’inflazione diagnostica, o ormai il dado è tratto a favore di una serie infinita di false epidemie? La mia parte razionale mi dice che l’inflazione vincerà e noi perderemo la nostra battaglia per salvare la normalità. Siamo troppo pochi a combattere l’inflazione, deboli, privi di risorse, disorganizzati e di fronte a una sfida troppo difficile. Ma poi mi viene in mente l’esercito senza speranza dell’Enrico V – ”siamo pochi, felicemente pochi, noi questa banda di fratelli”: erano uno contro sei, ma si fecero coraggio e vinsero la battaglia di Azincourt». E infine: «I miei due obiettivi – “salvare la normalità” e “salvare la psichiatria” – sono in realtà uno soltanto. Possiamo “salvare la normalità” solo “salvando la psichiatria” e possiamo salvare la psichiatria solo contenendola entro i suoi confini. L’eredità di Ippocrate è vera oggi come lo era 2500 anni fa: sii modesto, consapevole dei tuoi limiti e per prima cosa non nuocere. La normalità va salvata a tutti i costi. E cosí la psichiatria».

Sono parole che non dovremmo mai dimenticare, e che misurano le radicali profonde differenze che separano la psichiatria descrittiva oggi dominante dalla psichiatria gentile, dalla psichiatria fenomenologica, dalla psichiatria che è possibile fare in Italia.

Gli uomini non sono oggetti.

Non potrei infine, e a questo punto, non citare alcune radicali considerazioni di Basaglia sui paradigmi conoscitivi della psichiatria, che egli ha immaginato, e che sono queste. «Ciò significa che per lo psichiatra l’alternativa oscilla, fra un’interpretazione ideologica della malattia (con la costruzione di una diagnosi esatta ottenuta attraverso l’incasellamento dei diversi sintomi in uno schema sindromico precostituito); o l’approccio al malato mentale su una dimensione in cui la classificazione della malattia ha o non ha peso»; e ancora con sferzante chiarezza: «Nel primo caso accetteremmo, ancora una volta, il ruolo di schedatori di cartelle per un centro meccanografico; nel secondo, saremmo noi psichiatri ad andare alla ricerca di un ruolo che non abbiamo ancora mai avuto e che ci metta – per quanto possibile – alla pari con il malato in una dimensione in cui la malattia come categoria venga messa fra parentesi». Sono considerazioni metodologiche, che hanno consentito a Basaglia di ridare libertà e autonomia alla psichiatria, e di giungere alla cancellazione della psichiatria manicomiale, in antitesi flagrante alla ideologia positivistica della psichiatria alla quale giunge il DSM nelle sue diverse edizioni.

A queste sue considerazioni vorrei associarne altre che dimostrano la radicale fondazione etica e umana della psichiatria di Basaglia. «Ma gli uomini non sono oggetti che possano essere posti in qualunque ordine. Piú precisamente, dobbiamo aver chiaro che l’uomo è un animale sociale, è una persona e un individuo, un soggetto»; e con parole ancora piú sferzanti, e intessute di grande respiro etico: «Parlando per assurdo, potrei alimentare tutti gli uomini, offrire casa a tutti, creare condizioni di conforto materiale che possano soddisfare tutti. Tuttavia, il dolore che opprime l’uomo, l’angoscia di ogni giorno nella relazione con gli altri uomini, tutto questo io non posso risolverlo. Questa angoscia esistenziale fa parte dell’uomo, è una realtà, e tale relazione tra l’ordine sociale e la dimensione esistenziale rappresenta la contraddizione e l’opposizione della nostra vita. Non c’è ricetta, né dal punto di vista politico, né a livello di buona volontà che possa risolvere questa contraddizione».

Da una legge di straordinaria apertura all’umano, quale è la legge 180, ancorata al pensiero e all’opera di Franco Basaglia (i frammenti citati ne dicono splendidamente la profondità e la originalità inenarrabili), sono sgorgate le sorgenti di una psichiatria riscattata dal riduzionismo biologico, e dalla arida elencazione e classificazione dei disturbi psichici, che il DSM ha diffuso nel mondo intero, e animata dai bagliori della partecipazione umana al destino della sofferenza psichica, e dei valori di indifesa umanità che sono in essa.

Cosí si conclude la parte di questo libro dedicata alla fenomenologia della psichiatria di oggi con le sue luci smaglianti, e con le sue ombre, che non ne incrinano i fulgori.

La psichiatria di oggi: l’inizio.

In Italia, la psichiatria di oggi inizia quel 13 maggio 1978 quando è divenuta legge la riforma della psichiatria italiana che, sulla scia delle straordinarie esperienze di Franco Basaglia, ha condotto alla chiusura dei manicomi. Alcuni mesi dopo, nell’ottobre del 1978 ho lasciato la direzione di quello femminile di Novara, divenendo primario di psichiatria dell’Ospedale maggiore della Carità di Novara – ricordavo – con la responsabilità temporanea dei servizi territoriali di psichiatria, e lo sono stato fino al 2002.

Il cambiamento nel mio modo di fare psichiatria è stato radicale: non piú in un ospedale femminile di duecento posti-letto, ma in un reparto di quindici letti femminili e maschili in spazi quanto mai ristretti che non consentivano alle pazienti e ai pazienti alcuna libertà nei movimenti. Un corridoio, e stanze, in genere a due letti, inadeguate alla cura di pazienti che potevano avere bisogno di degenze prolungate. Ancora oggi, a quarant’anni di distanza dalla apertura del reparto, gli spazi continuano ad essere gli stessi. Nei ventiquattro anni di mio primariato le porte del reparto sono rimaste aperte, non c’erano contenzioni, ma la direzione sanitaria non consentiva alle pazienti e ai pazienti, anche se accompagnati, di scendere nei giardini dell’ospedale.

Certo, come direttore di un ospedale psichiatrico, dovevo rispondere alla autorità giudiziaria degli aspetti giuridici dei ricoveri, ma ero completamente libero nelle mie decisioni cliniche e sanitarie, nel tempo da dedicare alla cura di ogni singola paziente, alle quali si consentiva di uscire e di passeggiare negli immensi giardini del manicomio, o, accompagnate, di fare loro visitare la città: cose, fra l’altro, di non poca importanza terapeutica. Come primario di psichiatria non avevo invece alcuna autonomia se non nelle decisioni che riguardavano le scelte cliniche e terapeutiche, ma non in quelle che rientravano nei programmi di una psichiatria sociale: anche quando consisteva semplicemente nel fare accompagnare in giardino le pazienti, o i pazienti. Nulla di male agli occhi di una disciplina medica, certo, ma non agli occhi di una psichiatria consapevole della importanza che nella cura, alla quale non basta la sola somministrazione farmacologica, non sempre necessaria del resto, hanno le relazioni umane, e i contesti sociali che ad esse si accompagnano.

L’immagine sociale.

Il cambiamento di immagine sociale, questa la cosa meno importante, è stato a suo modo radicale. La direzione di un ospedale psichiatrico destava una risonanza sociale che, sia per l’autonomia e il potere che essa aveva, sia per l’immagine sociale alla quale si accompagnava, sia per la sua connotazione vagamente elitaria, non si allontanava del tutto da quella, certo ben diversa, della direzione di una clinica universitaria. Uno psichiatra, con il quale è iniziata la nostra comune carriera universitaria nella clinica di Milano, e al quale sono stato, e sono, unito da comuni ideali e sono stato, e sono, piú vicino nella concezione di una psichiatria umana e gentile, Alberto Giannelli, autore di bellissimi lavori ad ampio spettro culturale, vinceva non ancora quarantenne il concorso a direttore della clinica psichiatrica della Università di Sassari, con la prospettiva fra l’altro di potere tornare dopo qualche tempo a Milano, e nondimeno rinunciava alla cattedra, scegliendo invece di dirigere l’ospedale psichiatrico di Bergamo. Una perdita mai colmata per la psichiatria universitaria italiana, che egli avrebbe saputo radicalmente rinnovare, ma il segno anche della importanza che la direzione manicomiale negli ultimi anni della sua sopravvivenza continuava nonostante tutto ad avere: sulla scia delle cose che Basaglia stava realizzando a Trieste, e che ciascuno di noi si augurava di potere fare, sia pure in modi diversi, nei nostri manicomi. Alla direzione dei manicomi si giungeva talora, come a Gorizia, a Bergamo e a Novara, da cliniche universitarie, cosa che non avveniva piú dopo la legge del 1978, che moltiplicava i primariati ospedalieri di psichiatria, ai quali sono chiamati psichiatri che si sono formati in scuole di specializzazione quasi tutte orientate a insegnare una psichiatria farmacologica, e fondata sullo studio del DSM.

In Italia non ci sono nemmeno piú libere docenze che, se non altro, come avviene in Germania e in Svizzera, obbligavano a scrivere qualcosa di psichiatria: una disciplina nella quale si può vivere e morire senza essersi mai aggiornati se non sugli ultimi farmaci che di volta in volta entrano in commercio, e che, almeno in psichiatria, non sempre sono migliori dei farmaci precedenti che in molti casi non hanno perduto la loro efficacia terapeutica. Ma sono oggi i medici di base a prescrivere senza fine ansiolitici e antidepressivi.

Le direzioni sanitarie.

Cambiando i luoghi di cura della psichiatria, oggi reparti ospedalieri, cosa cambiava nelle relazioni con le amministrazioni e con le direzioni sanitarie, e con i primari delle altre discipline mediche? Come cambiavano le relazioni con le pazienti e i pazienti, e le loro risonanze emozionali ad ambienti cosí diversi da quelli manicomiali?

Nulla era piú come in manicomio: le direzioni sanitarie, che a Novara si sono alternate nel corso degli anni (ne vorrei escludere una di grande sensibilità umana e culturale, ma è durata poco) guardavano alla psichiatria, e cosí la piú parte degli altri primari, come ad una disciplina estranea e anarchica che aveva poco di realmente medico e di scientifico, che non serviva all’ospedale, e creava solo conflitti. Le direzioni sanitarie non si curavano della inadeguatezza degli spazi di degenza non terapeutici nei riguardi di disturbi problematici e complessi, come sono quelli psichici, che hanno bisogno di cure in spazi aperti, e dialogici.

Gli anni si snodavano senza fine l’uno dopo l’altro, gli spazi di cura non cambiavano, e continuavano le contestazioni al nostro modo di fare psichiatria. Le differenze nella progettazione e nella articolazione delle due psichiatrie, manicomiale l’una, ospedaliera l’altra, sono state insomma radicali, anche perché alla formazione culturale di un direttore sanitario di un ospedale è radicalmente estranea la comprensione dei complessi snodi tematici della psichiatria. Non era del resto possibile una qualche collaborazione con le altre discipline ospedaliere: quasi tutte orientate, lo ripeto, a considerare la psichiatria come estranea alla medicina.

Come avrei potuto non avere una acuta nostalgia, ne ho parlato nella prima parte di questo mio lavoro, degli anni trascorsi in manicomio, della libertà e del rigore scientifico, con cui svolgevamo l’assistenza e la cura delle pazienti, nel rispetto della loro sensibilità e della loro dignità, delle loro esigenze di dialogo, e di ascolto delle attese e delle speranze che erano in loro?

(Addio al tempo, al tempo dell’orologio, e al tempo vissuto, senza fine dedicato all’ascolto delle pazienti, addio alla comunità di cura che in manicomio ci univa, medici e infermiere, assistenti sociali e sorelle religiose, addio alle assemblee che univano pazienti e volontari, giovani e non piú giovani, in comuni discussioni, addio alle passeggiate delle pazienti lungo i viali del manicomio, addio ad una psichiatria che ci portava a guardare alla follia come ad un’esperienza che fa parte della vita).

Il modo di fare psichiatria.

Come cambiava, vorrei ora chiedermi, il modo di entrare in relazione con le pazienti e i pazienti nella psichiatria dell’Ospedale maggiore di Novara? Sí, la fragilità e la vulnerabilità della follia, della sofferenza che ne è il background radicale, si curavano meglio nelle stanze sperdute e precarie, e nondimeno molto piú luminose e ampie, del vecchio manicomio. La legge di riforma ha consentito di giungere alla chiusura di manicomi che non avevano nulla di terapeutico, e non di rado nulla di umano, e allora una qualsiasi altra modalità di cura della follia sarebbe stata migliore. Non è ovviamente la prima volta che nella storia delle idee la eliminazione del male, della psichiatria manicomiale, trascina con sé il sacrificio del bene, di quelle particelle di umanità che in alcuni manicomi sopravviveva. Certo, Basaglia moriva a cinquantasei anni, nel 1980, due anni dopo l’approvazione della legge di riforma, e non ha potuto conoscere quello che aveva nondimeno presagito, e cioè che dai servizi ospedalieri di psichiatria non sarebbero scomparse le tracce di una psichiatria manicomiale.

A Novara, come dicevo, queste tracce non c’erano: non contenzioni, non finestre sbarrate, non porte chiuse, o murate, ma apertura al dialogo e all’ascolto, alla accoglienza e alla comprensione, dei pazienti, con cui creare una comunità di cura: sia pure fragile. Questo è stato possibile, nonostante la precarietà dei luoghi di cura, solo perché una comune passione e una comune partecipazione al dolore dell’anima e del corpo, alla angoscia e alla tristezza, alla disperazione, dei pazienti, univa psichiatri e infermiere e infermieri, che venivano dal manicomio femminile e da quello maschile, coordinati da una straordinaria caposala, che veniva invece dall’ospedale, Claudia Mantovan, e che era dotata di gentilezza, e di grandi capacità di ascolto. Certo, le degenze erano brevi, i letti pochi, e le dimissioni rapide; e non mi era possibile non avere nostalgia dei lunghi colloqui che l’essere in manicomio ci consentiva di avere con le nostre pazienti.

Le depressioni monopolari si potevano curare adeguatamente, quando erano in fase acuta, ma le cose cambiavano quando, come talora avviene, esse assumevano andamenti lenti e strascicati, in persone anziane in particolare, piú resistenti alla azione terapeutica dei farmaci antidepressivi: abitualmente idonei a condurre a risoluzioni cliniche complete. Queste difficoltà, e queste problematiche cliniche, non impedivano in ogni caso che da noi i valori etici e umani fondamentali non venissero mai lacerati: anche se non è stato facile. Non era facile invece confrontarsi con le depressioni bipolari che sono le condizioni cliniche nelle quali la tristezza si alterna con una eccitazione patologica, con una euforia patologica, associate ad aggressività, e bisognose di farmaci, certo, ma anche di grandi spazi, che consentano ai pazienti di muoversi senza fine. Ancora piú precaria è la cura delle schizofrenie, le condizioni psicopatologiche piú enigmatiche, e complesse, che a loro volta hanno bisogno di accoglienza e di solitudine: necessarie ad arginare le cascate di angoscia e di dissociazione psichica che dolorosamente le contrassegnano. Sono temi, questi, che ho descritto e analizzato in molti miei lavori, e che ho voluto ora indicare nelle loro linee tematiche essenziali.

Alcune riflessioni.

La chiusura dei manicomi ha costituito, e costituisce, un avvenimento di una importanza storica tale da potere ricordare la liberazione dalle catene, a cui erano legati i pazienti psichici, realizzata a Parigi, alle soglie dell’Ottocento, da Philippe Pinel. Ma questo, insieme alla crescente importanza della psichiatria nella comprensione e nella cura di malattie fisiche numerose e complesse, non basta perché le amministrazioni e le direzioni sanitarie si interessino della psichiatria, dei luoghi, e delle atmosfere psicologiche e sociali, di cui si ha bisogno in psichiatria. Gli investimenti finanziari sono rivolti alle grandi discipline mediche e chirurgiche, radiologiche e di laboratorio, ma non a migliorare le condizioni di vita ospedaliera delle pazienti e dei pazienti psichici. La psichiatria negli ambienti ospedalieri non desta in pratica alcun reale interesse. La nostalgia apparentemente cosí antistorica e arcaica della psichiatria che si svolgeva in un manicomio, come il nostro, non è nondimeno tale, lo ripeto senza fine, da non farmi dire che in Italia solo la cancellazione dei manicomi consentiva di immaginare e di realizzare una psichiatria adeguata alla sensibilità e alla fragilità, alla gentilezza e alla vulnerabilità della follia.

La psichiatria territoriale.

Se i servizi ospedalieri di psichiatria destano oggi le riserve che ho esposto nei riguardi della cura e della assistenza delle pazienti e dei pazienti con disturbi psichici acuti, non potrei non ridire la straordinaria importanza che la legge 180 ha avuto nella progettazione e nella articolazione dei servizi territoriali, che consentono di seguire i pazienti (che non hanno bisogno, o non hanno piú bisogno, di degenze ospedaliere) negli ambulatori, nelle comunità terapeutiche, e anche a casa.

A Novara, la psichiatria territoriale è radicalmente separata da quella ospedaliera, ha ambulatori, e due comunità, ciascuna di venti posti-letto, e svolge contestualmente, in quelli che erano i reparti del manicomio maschile (bene ristrutturati), funzioni farmacoterapeutiche e psicoterapeutiche nelle condizioni di sofferenza psichica acuta, e socioterapeutiche in quelle non piú acute. Le comunità e gli ambulatori si intrecciano le une agli altri in un discorso di cura quanto mai gentile e umano, e nemmeno lontanamente confrontabile con quello che mi è stato possibile constatare in alcuni reparti ospedalieri di psichiatria dei quali già ho scritto. Ci sono larghi spazi di incontro quotidiano, e splendide attività di animazione, e di socializzazione, che tolgono alle comunità qualsiasi traccia di quello che sono state nel passato. I giardini sono comuni sia ai servizi psichiatrici sia a quelli di medicina legale, e amministrativi, della azienda sanitaria locale di Novara, e i pazienti, che sono in comunità, sciamano ogni giorno tranquillamente nei bellissimi giardini. Il manicomio di Novara non era, come invece accadeva quasi dovunque, lontano dalla città, ma quasi vicino al suo cuore, e già questo ne ammorbidiva l’immagine: quasi un immenso misterioso castello kafkiano che risuonava di dolore, e di speranze: anche se infrante.

(Lontano dalla città, e immerso in una campagna silenziosa, ma desertica, è invece il nuovo ospedale psichiatrico che avrebbe dovuto sostituire quello nel quale si sono svolti tanti anni della mia vita, e che la legge di riforma non ha ovviamente consentito di utilizzare come luogo di cura. Un ospedale come cittadella assediata con la sua chiesa e i suoi molti padiglioni che avrebbero dovuto ospitare non so quanti pazienti. Sono stato il solo a contestarne la costruzione, inutilmente, e oggi è sede di istituti scolastici che studenti e insegnanti hanno fatto rinascere dalle ceneri).

Dissonanze.

Non tutte le psichiatrie territoriali si svolgono seguendo i modelli di cura e di assistenza che a Trieste, e anche a Novara, si uniformano agli ideali della legge di riforma, ai quali le aziende sanitarie locali dovrebbero adeguarsi; ma uno dei meriti storici ineguagliabili della legge è stato proprio questo: l’avere associato alla chiusura dei manicomi, e alla apertura dei servizi ospedalieri di psichiatria, la sua articolazione territoriale nei modi, che ho indicato, e nell’orizzonte di una strategia di cura che si occupi non solo della sofferenza di chi sta male, ma anche di quella delle famiglie, che hanno bisogno di essere assistite, e di non essere lasciate sole. Non c’è piú una sola sede manicomiale lontana dalla casa, in cui si abitava, ma ci sono piú sedi ospedaliere che si accompagnano ad ambulatori e a comunità terapeutiche non lontane dai luoghi di residenza. Certo, Leitmotiv del mio discorso, è una psichiatria, questa, che non può essere realizzata se non ci si immedesima nella grande rivoluzione etica, immaginata da Basaglia, che si nutre di quella che chiamerei ancora una volta la leopardiana passione della speranza, che consente di vivere la psichiatria come vocazione: parola antica, velleitaria, utopica e nondimeno essenziale alla comprensione di una sconfinata sofferenza come è quella psichica. Una vocazione che si confronta oggi con il dilagare inarrestabile dei pregiudizi che fanno di ogni erba un fascio: basta l’essere stati sfiorati da una condizione depressiva, o ancora di piú l’essere stati ricoverati in una struttura psichiatrica ospedaliera con la diagnosi di depressione, anche solo per qualche giorno, guarendo, perché si sia considerati malati psichici, nel migliore dei casi, se non malati pericolosi, dai quali bisogna guardarsi: allontanandoli, e isolandoli. Non serve a nulla insistere sul fatto che la depressione-malattia, da cui oggi si guarisce, se si è curati con adeguate somministrazioni farmacologiche antidepressive, è diversa dalla depressione - stato d’animo, quella che possiamo chiamare malinconia, tristezza, o male di vivere (la parola tedesca Stimmung ne dice la fragile musicalità) che non ha nulla di patologico, e che fa parte della vita: rendendola sensibile alla comprensione e alla accoglienza del dolore.

Cosa sarebbe la poesia di Giacomo Leopardi, intessuta di indicibile grazia, e suscitatrice di un infinito stupore del cuore, senza la malinconia, la dolce malinconia, ma anche la dolorosa malinconia, che lo ha accompagnato per tutta la vita?

L’impossibile diviene possibile.

In una delle sue conferenze brasiliane mi sembra di cogliere il senso radicale e profondo del pensiero di Franco Basaglia. «L’importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile può diventare possibile. Dieci, quindici, venti anni addietro era impensabile che il manicomio potesse essere distrutto. D’altronde, potrà accadere che i manicomi tornino a essere chiusi e piú chiusi ancora di prima, io non lo so! Ma, in tutti i modi, abbiamo dimostrato che si può assistere il folle in altra maniera, e questa testimonianza è fondamentale. Non credo che essere riusciti a condurre un’azione come la nostra sia una vittoria definitiva. L’importante è un’altra cosa, è sapere ciò che si può fare. È quello che ho già detto mille volte: noi nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere. È il potere che vince sempre. Noi possiamo, al massimo, convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione difficile da recuperare».

Sono considerazioni che nella loro drastica chiarezza ci dicono che l’idea di manicomio può sopravvivere alla apparente distruzione della istituzione manicomiale.

Le ultime cose.

La psichiatria che è possibile oggi fare è la migliore delle psichiatrie possibili: questa è l’eredità che Franco Basaglia ci ha lasciato, e che con il passare degli anni si dimostra sempre piú stupefacente; ma la psichiatria, che egli ha progettato e realizzato, si diceva, ha bisogno di grandi slanci ideali, di una viva passione della speranza, e di una grande cultura, clinica e psicopatologica, ma semplicemente umana, per fare riemergere le sue straordinarie potenzialità assistenziali e terapeutiche, e anche scientifiche. Il volto della psichiatria è in ogni caso cambiato: le sovrastrutture manicomiali sono state cancellate da una psichiatria, che è ancora ospedaliera, ma è divenuta (anche) territoriale e comunitaria; da una psichiatria che si è costituita nella sua piú profonda ragione come psichiatria interpersonale, e psichiatria sociale, e che nondimeno ha bisogno dello slancio ideale, e della rinascita emozionale e culturale, non solo degli psichiatri ma delle équipe infermieristiche e sociali che fanno parte ineliminabile di una psichiatria ospedaliera, territoriale e comunitaria. Nella parte a seguire di questo lavoro saranno indicate le linee tematiche essenziali di una psichiatria che rinnovi e aggiorni gli ideali di Basaglia.