Sono sempre stato sicuro che la storia con mia moglie sarebbe finita con la scoperta di uno dei miei tradimenti.
Mi avrebbe atteso nel salone dell’attico di via Giosuè Borsi, in cui vivevamo ormai da undici anni per gentile concessione di suo padre, e seduta a gambe accavallate sul divano vicino alla terrazza che guarda dritta al teatro Parioli, scostando da un lato i capelli, avrebbe chiesto, lapidaria: «Hai niente da dirmi?».
Quel segnale, insieme all’ansiosa ricerca di mantenere un’imperturbabile compostezza, sarebbe servito a farmi capire che il tempo delle domande era ampiamente finito, c’erano già tutte le risposte.
Da quando conoscevo Lucrezia aveva sorriso raramente, ma quell’ostentata serietà non era mai stata difficile da gestire. Non si era trattato di un matrimonio d’amore. Io volevo una donna bella e non particolarmente impegnativa con cui sistemarmi, lei, in quel momento, un ragazzo che non venisse dal suo ambiente e fosse sufficientemente spiantato da destabilizzare i suoi genitori.
Un’unione perfetta.
D’altronde con una laurea in Psicologia in tasca e ore e ore di consultorio fatte per onlus che pagavano un mese sì e tre no, chi avrebbe mai potuto pensare di arrivare ad avere uno studio ai Parioli?
Uno studio in cui ricevevo pochi e selezionatissimi pazienti, o almeno quella era la scusa ufficiale per salvare le apparenze e lavorare quel minimo che bastava a non rivelare a tutti la mia natura di mantenuto.
Proprio per questo non erano mancate cene rognose e soporiferi eventi mondani ma anche vacanze in posti meravigliosi, lunghissimi weekend nella villa di famiglia in campagna e domeniche a oziare al circolo del golf.
Tutto grazie ai genitori di mia moglie, la figlia del notaio Altomonti.
Ecco perché nonostante i ripetuti tradimenti sono sempre stato molto attento a non creare le condizioni che potessero far saltare questo perfetto antro di tranquillità.
Niente messaggi arrivati per sbaglio, tracce sui social network, telefonate ambigue o residui di rossetto sulla camicia.
L’importante è conoscere il nemico e predisporre le giuste contromisure.
Né più né meno che in una partita a scacchi.
A questo punto molti si saranno fatti di me una brutta impressione, ma ci sono alcuni accadimenti che hanno segnato la mia vita portandomi a essere quello che sono e a sviluppare una cronica sfiducia nei confronti delle relazioni amorose.
Prima di tutto l’inesistente educazione sessuale ricevuta dai miei genitori.
Potrei anzi dire quanto il loro ruolo sia stato essenziale nel mostrarmi come possa degenerare, avvitandosi su se stesso, il rapporto tra uomo e donna.
Annullamento totale della persona e del desiderio.
Di mia madre, Iole, se non mi avesse messo al mondo, dubiterei persino che abbia mai avuto rapporti con un uomo.
Si vanta di aver visto nudo solamente suo marito e lo fa come se fosse un trofeo, qualcosa da preservare.
Morto lui, più nulla.
Ora che vive con sua sorella, Gina, ha raggiunto quello che ha sempre sognato, la piena pace dei sensi che purtroppo sfoga in altri vizi ben più esosi.
Mio padre Carlo, invece, aveva sempre racchiuso i suoi consigli sulle donne in poche semplici massime.
«Moglie e buoi dei paesi tuoi.»
«L’importante è tirarsi sempre indietro al momento opportuno, altrimenti...» E alla fine della frase mimava con un gesto il pancione.
Negli ultimi anni, poi, aveva aggiunto una frase che sarebbe rimasta scolpita nella mia testa: «Nun te fidà mai delle donne che te rovineno e te rinfacceno sempre tutto».
Quando la diceva scuoteva la testa, mentre mia madre usciva furiosa dalla stanza andando a sbattere il canovaccio contro il lavandino della cucina.
Non erano riusciti a superare il 20 gennaio 2002.
La Roma arriva allo stadio Friuli di Udine dopo sette vittorie consecutive e mio padre è convinto, da buon pessimista, che la serie positiva non potrà continuare.
La pausa natalizia fa sempre brutti scherzi e la squadra ha già sofferto molto nelle ultime due in casa.
Così mentre compone la consueta schedina piazza una X vicino a Udinese-Roma prendendosi a pranzo i miei insulti e l’accusa di essere un menagramo.
Mia madre ascolta imperturbabile. Si fida ancora del marito, o meglio, non capisce nulla di calcio.
La Roma sfodera una prestazione impalpabile e finisce anche sotto a inizio secondo tempo, ci penserà una zampata di Batistuta, il Re Leone, a rimettere le cose in parità a pochi minuti dalla fine.
Gli altri risultati si incastrano, miracolosamente.
Mia madre, che non sarà un’esperta ma fa bene di conto, si vede già fuori dalla nostra casa popolare nel cuore di piazza Bologna.
Una di quelle case che si ottengono con immensi sacrifici e fatica.
Lei la odia.
Non ha calcolato però che mio padre, convinto di quello che sarebbe avvenuto ma preso dai sensi di colpa, non ha avuto il coraggio di giocare la schedina e per scaramanzia se l’è tenuta linda e pulita nella tasca della giacca.
Quando torniamo dal pub dove abbiamo visto la partita con alcuni suoi amici, l’inferno.
Niente sarebbe stato più come prima.
E per chissà quante serate avremmo ricordato di come la fortuna una volta avesse bussato alla nostra porta ma noi fossimo stati così ciechi da non riconoscerla.
Tutto questo, però, non sarebbe bastato a fare di me l’uomo che sono se al quarto anno di liceo non fosse arrivata un po’ a sorpresa, nella nostra classe, Chiara Caletti.
Capelli biondi a caschetto, occhi nocciola e un modo di camminare mai visto in nessuna delle mie compagne.
Fu amore a prima vista.
Nessuna contromisura. Mi lasciai semplicemente andare al sentimento. Non posso neanche descrivere quello che successe dentro di me quando mi rivolse la parola per la prima volta chiedendomi: «Ma tu ne sai qualcosa di Platone?».
Sapeva benissimo che in Greco me la cavavo.
Il professor Ricci ci aveva al solito diviso a scacchiera e dato quattro versioni diverse. La persona più vicina da cui poter copiare era a parecchi banchi di distanza.
Quella mattina nell’arco di tre ore successero le seguenti cose: feci due versioni e mi innamorai.
Quella di Platone fruttò a Chiara un sorprendente 7,5 e la mia di Aristofane non andò oltre il 6+.
La nostra relazione proseguì così in una sorta di mutuo soccorso su Greco, Latino e Italiano per lei, basandosi sul fatto che fossi uno dei pochi maschi della classe che non snobbava.
A me gli occhi sapeva rivolgerli.
E alla fine, un sabato di marzo, accettò anche di venire fuori a cena con me.
La preparazione fu meticolosa.
Lavai persino il mio vecchio scooter rosso e chiesi al meccanico di rimettere mano alla marmitta rovesciata in modo che facesse meno rumore.
Arrivai con largo anticipo e lei scese stretta in un paio di jeans che non ho mai più visto così bene addosso a una donna.
Lo storico compagno di banco Lorenzo mi aveva saggiamente spiegato tutte le tecniche necessarie ad aumentare i contatti quando si va in due in motorino.
«Alla prima frenata, massimo alla seconda so dirti anche quanto porta di reggiseno» aveva sentenziato con ragionevole certezza aspirando a fatica una sigaretta.
La scelta del ristorante fu quantomeno incauta perché mi buttai su un lurido locale in linea con le mie misere finanze.
Mangiammo dei supplì rancidi e una pessima carbonara.
Ma di quella sera ricordo soprattutto i sorrisi.
«Ti immagini l’anno prossimo la maturità...» aveva detto all’improvviso, e poi, alzando gli occhi al cielo: «Speriamo che non esca Greco».
«Non avrai problemi comunque» avevo provato a rispondere dandomi un tono.
Le avevo persino preso la mano accennando un occhiolino.
Il tempo si era fermato per un attimo, poi Sergione, così chiamavano tutti il cameriere che per la pancia faceva persino fatica a passare tra i tavoli, aveva rotto l’incantesimo: «Ahò regazzì tutto bono?».
Se la mole non mi avesse scoraggiato l’avrei sbattuto al muro, e invece mi limitai a dire: «Sì grazie. Il conto?».
Avevo pagato io, come mia madre, qualche ora prima, si era raccomandata di fare, aggiustandomi il colletto della camicia blu col cavallino rosso di Ralph Lauren in bella evidenza.
L’avevo tenuta come un cimelio per quella serata innaffiandola con un’abbondante spruzzata di profumo Davidoff. Quello nella boccetta blu.
Lorenzo me lo aveva quasi imposto, lo chiamava L’acchiappafighe.
Morivo dal desiderio di toccarla.
Intorno alle 23.30 come previsto eravamo sotto casa sua a piazza Sempione. Io la conoscevo bene perché ci andavamo sempre a fare gli scherzi telefonici dalle cabine pubbliche al nostro professore di Filosofia.
Glielo raccontai e lei sorrise.
Non sapevo più come prolungare la serata.
Fu un momento. Lei si avvicinò oltre la soglia del saluto e sentii per la prima volta un sapore che non avrei più avuto modo di dimenticare. Non so se fu davvero un bacio così lungo come raccontai l’indomani a Lorenzo, fatto sta che mi ritrovai per la successiva mezz’ora dopo che lei era salita a casa a provare a non disperdere la sensazione della sua schiena sotto le mie mani.
Naturalmente non avevo avuto il coraggio di fare altro.
Non dormii.
Passai persino una strana domenica di serenità, senza pensieri, neppure per il calcio.
Non mi spaventarono neanche le due telefonate andate a buca.
Magari era uscita con i genitori.
Così il lunedì mattina arrivando a scuola la cercai subito tra la gente, per dimostrare a tutti che ero io il prescelto, quello che aveva coronato un sogno d’amore che forse non si sarebbe spento prima di cent’anni.
Lei mi ghiacciò con uno sguardo che non mi aveva mai riservato.
Neanche un saluto, solo un sorrisetto rivolto alle sue amiche mentre si allontanavano e andavano a riunirsi a un gruppo di fighetti di un’altra classe.
Rimasi impalato.
Fu Lorenzo a sbloccarmi dicendo: «Non ci pensare. È una stronza. Certo, bella fregatura hai preso...».
Ne ridemmo a denti stretti e per i successivi mesi lei non mi parlò.
Si mise con un tizio dell’ultimo anno che aveva preso subito la patente e a diciott’anni sfoggiava già una Spider fiammante. A settembre, dopo aver passato tutta l’estate invano a discutere con i miei per cambiare scuola o almeno classe, non la ritrovai. Si era trasferita con la famiglia a Milano.
Da quel momento feci mia la massima di mio padre inserendola tra le prime fondamentali regole di un prontuario che negli anni mi avrebbe portato a conoscere fin troppo bene il nemico.
# Non fidarsi mai delle donne.
Certo in tutto questo non avevo messo in conto il fatto che le mogli non ti lasciano solamente se ti beccano insieme a un’altra.
A volte le cose finiscono e basta e nella vita non si può essere sempre martello.
Ma passare a incudine non è dolcissimo.