«Non capisco perché hai quella faccia così stupita. Saranno almeno due anni che siamo al capolinea» scuote la testa mentre si prepara una tisana al finocchio.
Da quando ha cominciato a frequentare un gruppo di meditazione non beve altro che tisane e ha imposto a tutta la casa un regime alimentare a dir poco spartano.
Io detesto ogni forma di salutismo, così spesso, per sopravvivere, prima di tornare a casa mi fermo a mangiare di nascosto un kebab dalle parti di piazza Fiume. Ho calcolato che tra sosta, consumazione e ripartenza riesco ormai a stare dentro i nove minuti secchi.
Un vero record.
«Sai che non è così» provo a sussurrarle all’orecchio con una voce un po’ finta ma sufficientemente calda.
Faccio aderire il mio corpo al suo.
So che al di là dell’apparenza fredda e distaccata le si nasconde dentro qualcosa che brucia e io so trovare la strada per raggiungerlo.
«Lucrezia...» aggiungo. Un tempo amava moltissimo quando la chiamavo per nome scandendo lentamente le sillabe.
Barcolla.
Poi con destrezza si libera dalla pressione: «Non basta più».
Per un momento vedo scorrere nei suoi occhi chiari qualcosa che non capisco fino in fondo, ma recupera subito il controllo, l’alterigia che le è stata insegnata in anni di scuole private e party in società.
Quella stessa educazione a cui si era ferocemente opposta quando ci siamo conosciuti. La prima volta che il dottor Altomonti mi aveva ricevuto nel suo studio avevo capito subito che per me lì non ci sarebbe mai stato posto.
«E i suoi che fanno nella vita?» credo sia stata la seconda domanda a cui provai a rispondere in modo un po’ evasivo, senza però poter negare che mio padre non c’era più e mia madre campava con la pensione di reversibilità di un ex dipendente delle Poste.
Punto.
Tre giorni dopo Lucrezia mi aveva detto che non si sarebbe mai piegata a quelle due marionette con una scopa in culo dei genitori, piuttosto mi avrebbe sposato subito se non fossero stati d’accordo.
Ora la vedo.
In undici anni è diventata esattamente come loro.
Io, invece, sono rimasto lo spiantato di allora.
Certo, ho una bella casa, una Bmw ultimo modello parcheggiata in garage e uno studio nel nostro attico dove ricevo giusto qualche paziente a settimana.
Per lo più persone che non hanno trovato di meglio. Non amo il mio lavoro.
Se non fosse per lo stipendio che il dottor Altomonti passa a sua figlia, per una non ben chiara collaborazione nel suo studio notarile, faremmo la fame.
«Quindi non hai niente da dire? Sai solo avvicinarti con la rozzezza di un cane...»
Si passa le mani sulla gonna turchese a pieghe strette. Roba da signorine di collegio, penso. Se non fosse per i tacchi che la alzano di almeno sette centimetri e mettono in evidenza le caviglie sottili e affusolate.
«Dopo mesi che non mi tocchi, poi...» aggiunge con la voce che cala e il borbottio del bollitore che copre un pezzo della frase.
È vero.
Siamo a settembre e non riesco a ricordare il momento in cui abbiamo fatto l’amore l’ultima volta.
Qualche ricorrenza?
«Ti aiuto io... è stato a febbraio.»
Mi stupisce a volte come riesca a decifrare il mio sguardo. Forse ho davvero scritto in faccia che sto correndo alla ricerca di una risposta che non conosco.
«San Valentino?» rispondo provando a piazzare una battuta che so già inefficace. Un tempo era facile farla sorridere con le mie sciocchezze.
Rimedio solo un: «Idiota».
In compenso ho recuperato le immagini di una serata al circolo finita in troppo Franciacorta e poi a letto senza freni inibitori.
Ho pochi e contorti ricordi di me e Lucrezia e di lei il giorno dopo preoccupata, o forse speranzosa, di essere rimasta incinta.
Il mese successivo, per fortuna, nessun ritardo.
Non ci avevo più pensato.
Avevo solamente dato per scontato che ormai il nostro rapporto si fosse incanalato in una confortevole e educata convivenza. L’amore è un lusso che non sempre ci si può permettere.
Può bastare anche una parvenza di sentimento da riaccendere al momento giusto.
Ma a pensarci io avevo saltato anche questa semplice regola. Che avevo sentito più volte molto ben espressa al bar del circolo, dove tutti avevano l’insana abitudine di vantarsi delle proprie conquiste.
«Ragazzi... divertitevi quanto volete ma almeno una volta a settimana, massimo due, tocca a vostra moglie.»
Ricordo perfettamente l’aria da scienziato che aveva l’uomo sulla cinquantina con un pizzetto nero curatissimo che esprimeva questa semplice teoria: «Altrimenti possono succedere due cose, entrambe spiacevoli. La prima è che vostra moglie si inacidisca e insospettisca oltremodo rendendovi la vita impossibile, la seconda che, insomma, il vostro posto quella volta o due a settimana lo prenda qualcun altro».
Non avevo dato alcun peso a quel fanfarone e ora mi trovo a pagare dazio.
# Non trascurare troppo la tua donna.
La domanda è: quale delle due opzioni?
In questo periodo frequento tre donne anche se solo una ha una qualche importanza. Si chiama Anna, è l’amante ufficiale e vive vicino Roma.
Le altre due sono una a Milano e l’altra vicino Pescara. Le vedo raramente e solo quando il lavoro le porta qui. Non esiste altro se non un piacevole scambio di efflussi tanto sporadico quanto insignificante.
Quando ho conosciuto Anna due anni fa invece ho sentito qualcosa che si muoveva dentro, quel qualcosa di altamente pericoloso che può portarti a mettere in discussione ogni centimetro della tua vita.
Avevo incrociato i suoi lunghi capelli neri in una interminabile fila alla Posta.
Le macchine per i numeretti rotti e il compito di pagare luce e gas da portare necessariamente a termine. Una delle poche cose di cui mi occupo personalmente perché, come dice Lucrezia: «Non è che può fare tutto la nostra domestica. Bisogna rendersi utili».
Spesso ho pensato che lo facesse per ricordarmi bene da dove venissi, anche se in realtà tornare in quel posto porta con sé tanti piacevoli pensieri legati a mio padre. Mentre sto per entrare sembra quasi di sentire l’odore della pizza con le patate che comprava i primi giorni di settembre quando non c’era ancora la scuola e per tenermi buono, a volte, mi portava con sé.
L’atmosfera in fila non è propriamente la stessa.
Piena estate e temperatura insopportabile che dà alla testa a tutti. Lei indossa solo dei pantaloncini corti e una canottiera gialla da cui riesco a intravedere non poco. Ai piedi delle All Star nere.
Abbinamenti di colore discutibili che però le donano.
«Non si può andare avanti con questo caldo» commenta e io colgo la palla al balzo.
«Be’, abbia un po’ di pietà per me allora...» sorrido tenendo in mano la cravatta. Una delle tre o quattro volte che la indosso in vita mia, se si eliminano le serate di gala organizzate dai miei suoceri.
Quel giorno devo andare proprio a un pranzo organizzato dal padre di mia moglie per accogliere un nuovo socio d’affari.
«Effettivamente...» commenta lei. Ha occhi neri profondi e intelligenti e il viso tutto rosso, un po’ congestionato dal caldo.
Non posso non pensarla a chilometri da lì in una stanza d’albergo.
È più forte di me. Così provo a spostare la conversazione su altro e la fila di più di un’ora mi fa scoprire che fa la segretaria in uno studio che gestisce molti condomini di zona e così le tocca venire a pagare ogni giorno cataste di bollettini, ma che la sua grande passione è l’arte. Scrive su una piccola rivista di settore e non si perde una mostra.
Ama mangiare, soprattutto la carne, odia ogni forma d’attesa al punto che non prende un treno perché non sopporterebbe l’idea di stare seduta per tre ore e, purtroppo, tifa Lazio.
«Ecco, ci mancava solo un romanista in fila oggi alla Posta» dice sorridendo.
Scuote la testa con uno sguardo malizioso che non può lasciarmi indifferente, ma cerco di restare impassibile e rispondo a tono: «Ognuno ha i suoi difetti... certo sarebbe tutto più facile se foste ancora in serie B».
«S-t-r-o-n-z-o» scandisce mentre si volta e corre verso il banco dove hanno appena chiamato il suo numero.
L’improvvisa intimità di quella parolaccia in uno scambio fino a quel momento piuttosto formale apre un varco.
Sono persino riuscito a infilare nella conversazione il fatto che sono sposato così da evitare ogni possibile fraintendimento.
D’altronde poco prima della mia rivelazione anche lei, forse per provare a mettere una distanza, aveva candidamente detto che il giorno dopo sarebbe partita per tre giorni col fidanzato.
# Mai raccontare balle inutili.
Così, mentre finalmente pago, dopo aver litigato con la signora allo sportello perché i bollettini sono spiegazzati e non passano bene nella macchina, sento una mano che mi tocca la spalla.
«Grazie della bella chiacchierata allora, e...»
«E...» rispondo.
«E piacere. Mi chiamo Anna Sarli.»
«Tommaso Leoni.»
Ci stringiamo la mano. Una stretta robusta e intensa allo stesso tempo.
Poi si volta e quasi scappa via mandando un bacio con la mano: «Sono in ritardo...».
Specificare il cognome poteva avere solo un senso. La aggiungo su Facebook cinque minuti dopo scrivendole: Così al prossimo derby saprai con chi prendertela quando festeggeremo...
La sua risposta è di nuovo: Stronzo.
La settimana dopo segue un caffè e poi la stanza d’albergo.
«Sei ancora qui? A che pensi?» Sento la voce di Lucrezia che entra nella testa richiamandomi dai pensieri in cui mi sono tuffato o forse nascosto.
Tento di nuovo di abbracciarla in modo piuttosto goffo per cercare di recuperare ma lei mi scarta di lato.
Restiamo sospesi per un paio di minuti senza che nessuno abbia il coraggio di aggiungere altro.
Potrei addirittura cavarmela così. In fondo a volte la cosa più importante è riuscire a rimandare il problema, schivarlo fin tanto che non diventi collaterale o sia sostituito da qualcos’altro su cui spostare l’attenzione.
«Mamma, io sono pronto...» Sento la voce di mio figlio Piero come una possibile scappatoia.
Ha fatto capolino dall’enorme porta del salone con indosso solo una maglietta della Roma.
Il nostro punto di contatto, penso.
«Papà... ci sei anche tu.»
Effettivamente la mia presenza a quell’ora è insolita e se non fosse arrivata la chiamata di Lucrezia per tornare subito a casa sarei dall’altra parte della città, ufficialmente per un consulto settimanale con una associazione non profit, in realtà in un motel con Anna.
Il nostro incontro settimanale.
«Per favore Piero, mamma e papà stanno parlando, puoi stare un po’ con Iolanda?»
Iolanda è la nostra governante ecuadoriana. Da quando gli Altomonti hanno scoperto l’infedeltà cronica dei filippini, soprattutto se in coppia, hanno ripiegato sul Sudamerica, e poi Iolanda condivide con mia moglie la passione per il salutismo.
Anche per questo non la sopporto.
E lei ricambia, anzi a dire il vero pensa che la prenda in giro per via della sua mole e anche di un difettuccio di fabbrica. Piedi puzzolentissimi.
Un problema ormonale, sostiene Lucrezia.
Una vera sciagura, credo io.
Piero la segue e io per farlo sorridere mi tappo il naso e faccio finta di svenire.
Lui ride scuotendo la testa.
Certe volte penso che anche mio figlio a dieci anni cominci a giudicarmi.
Il suo sguardo è quello che mi preoccupa di più e non solo per la somiglianza con quello della madre.
Mi sono sempre comportato come se non ci fosse o non potesse formarsi un’idea sul mio modo di essere e di agire.
Niente di più sbagliato.
«La cara Iolanda...» aggiungo avvicinandomi per la terza volta a Lucrezia. Le bacio il collo.
Mi lascia fare, più per sfinimento.
«Insomma non hai capito nulla, vero?»
Scuoto la testa.
«Voglio la separazione...»
Eccola che arriva. Ecco che arriva il colpo e ha un sapore diverso da quello che avevo immaginato negli anni. Mi vedo per un attimo fuori da lì, senza tutto quello che odio, ma anche senza tutto quello che ho ora.
Il saldo è indubbiamente al negativo.
«Possiamo sempre provare a recuperare, no?»
La banalità della mia affermazione sembra quasi rimbalzare da una parete all’altra.
«Non c’è più niente da recuperare ormai, e tu lo sai» dice vacillando più per il peso della sua affermazione che per qualche possibile ripensamento.
«Si può sempre recuperare» insisto.
Devo provare a tenere duro, ad aprire una breccia nella sua imperturbabile sicurezza.
«Non sempre.»
«Sempre...» aggiungo con una fiducia finta quanto ostentata «e la risolveremo.»
Lucrezia mi dà le spalle con le mani appoggiate a una sedia del soggiorno, così provo a prenderla di sorpresa ma lei alza un braccio e dice: «Fermo... è inutile. Non ti amo più».
Si tratta di una battuta prevedibile che può avere risvolti molto differenti e che si dice anche solo per ferire qualcuno.
Cerco di aggrapparmi a questo pensiero, mentre lei aggiunge: «Sono tre mesi che ho un altro».
Ecco. Ed è solo colpa della mia incuria.
Vedo già il sapientone col pizzetto seduto al bar del circolo che commenta la novità della mia separazione portando il caso a esempio e prova del suo ragionamento perfetto.
Sono io che, a questo punto, mi siedo sul divano Chesterfield, arrivato solo due settimane prima da Londra. Ci sprofondo, senza preoccuparmi del fatto che Lucrezia possa dirmi: E non ti ci buttare come un rinoceronte!
Ora è lei che si avvicina e mi passa una mano fra i capelli. Poi mi stringe la testa al petto.
Do un ultimo sguardo intorno.
Allora è davvero finita.
Se solo non avessi smesso di fumare.