La telefonata tra Lucrezia e mia madre è durata quasi un’ora. Il succo della faccenda è che non mi ama più e che ci ha provato in tutti i modi; e che non pensasse che è stata lei la prima ad avere un amante! Non ha le prove, certo, perché io sono bravo a dissimulare, ma una donna certe cose se le sente.
Mia madre ha ripetuto più volte questa frase al punto da farmi aggiungere, se non una regola nuova, almeno una postilla al mio manuale di sopravvivenza (o postulato della mamma).
# Non sottovalutare le abilità divinatorie delle donne. (Loro se lo sentono...)
Rifletto e credo che sia stato solo un modo di non doversi assumere ufficialmente tutte le colpe di quella scelta. Bisogna sempre mantenere un certo decoro e nel caso di Lucrezia anche una certa immagine in società.
È pur sempre la figlia del notaio Altomonti.
In fondo si tratta dello stesso principio per cui in linea di massima una donna non si concede mai alla prima uscita.
# Le donne, di norma, non ci stanno mai la prima sera.
La norma di dover fare il gentiluomo almeno per i primi due o tre appuntamenti è un classico che si sostiene ufficialmente, ma viene messo in discussione proprio nelle chiacchiere al femminile. Le poche volte che mi è capitato nella vita di entrare in grande confidenza con una donna tanto da poterla considerare un’amica ed essere ammesso addirittura a una serata in cui ce ne fosse più di una ho potuto ascoltare cose che mi hanno fatto rimpiangere le spacconate dette in palestra con gli amici.
Sarebbe però un discorso troppo lungo e oltretutto in questo momento le uniche due donne presenti nella stanza sono mia zia ottantenne e mia madre che per fortuna non potrei mai considerare in questi termini.
A pensarci bene dopo la morte di mio padre non ho mai pensato all’idea che lei potesse avere altre storie, anche se forse sarebbe stato molto molto meglio sorbirmi un nuovo compagno anche antipatico piuttosto che il suo vizio per il gioco.
Deglutisco.
Non ho nessuna voglia di dover tornare a mia volta in terapia per affrontare anche questa.
Mi mancano prima di tutto i soldi.
Uno di fronte all’altro mangiamo il piatto di pasta al sugo che zia Gina ha preparato, dice lei, con tanto amore.
Manca il sale.
Il sugo è una brodaglia che avrà fatto cuocere almeno tre ore a fuoco lento piazzandoci dentro una mezza cipolla con l’idea che desse sapore.
Il famoso sugaccio che contestavo già ai tempi della scuola torna a perseguitarmi, ma in questo momento mangerei anche un piatto di chiodi.
Non sento neanche i sapori.
Il pensiero continua a correre a Lucrezia, alla sua fermezza che non avevo in nessun modo preso in considerazione.
E ai problemi.
Ho fatto mentalmente dei calcoli e avuto piena cognizione della mia drammatica situazione economica.
Sul conto personale ci saranno circa mille euro.
Ci dovrebbe essere poi un libretto che mio padre aprì da ragazzo, se mia madre non è riuscita a metterci le mani sopra.
Forse lì qualcosa è rimasto, considerando però che dopo la laurea ne ho intaccato la parte più consistente per un master.
Le telefonate fatte ai centri che in passato mi avevano proposto delle consulenze ieri hanno fruttato due No non abbiamo più disponibilità, un Forse possiamo organizzarle un incontro la prossima settimana e un Ha davvero il coraggio di ripresentarsi ora dopo che ci ha mollati quando avevamo bisogno? Vergogna!
Effettivamente avevo dimenticato di non essermi presentato alle riunioni di un gruppo di Pomezia che si occupava degli effetti psicologici della menopausa sulle donne. Il giorno del primo incontro avevo dovuto scegliere tra loro e Anna, purtroppo non esisteva grande competizione in quel momento.
Anna, che non si è fatta viva e che ho dovuto cercare io. Anna, che non aveva di nuovo tempo per colpa dei tanti appuntamenti sul lavoro. Col senno di poi...
Così a quarantadue anni non sono troppe le possibilità su cui contare.
In due giorni ho messo insieme solo un improbabile contatto editoriale tramite Lorenzo, a cui peraltro non ho ancora spedito niente nonostante i suoi recapiti dormano da ore nel mio cellulare, e un appuntamento da confermare con un centro di Terni che accoglie e supporta ragazzi difficili.
Per non parlare di mio figlio.
Non mi sono soffermato troppo sugli effetti che la cosa avrà su Piero e non ho neanche avuto modo di parlarci da quando Lucrezia mi ha sbattuto fuori.
Non l’ho chiamato e neanche lui l’ha fatto.
In fondo è comprensibile, se è vero che il tutto gli è stato posto come un viaggio di lavoro che io avrei fatto in questi giorni. A che servirà poi?
Non possiamo certo dirgli che sto facendo il giro del mondo in ottanta giorni.
«Non la finisci? Non ti è piaciuta?»
«No zia... figurati. Buonissima, ma ho un po’ di problemi e non ho tanta fame.»
«Poverino» risponde e mi passa una mano rugosa sulla guancia.
Non ho la forza di ritrarmi.
Questo nuovo ruolo di piccolo della casa alla mia età davvero mi atterrisce. Ne sono scappato a vent’anni e ho anche fatto lavori tosti come il barista o il pony express pur di lasciarmi alle spalle le necessità dei rientri con il coprifuoco o i pranzi come questo.
«S’è fatto lasciare dalla moglie» annuncia mia madre, mentre sta già sciacquando il suo piatto.
Mai perdere tempo.
Dal tono e dalle parole emerge come il comportamento di Lucrezia nasconda inevitabilmente una mia colpa.
D’altronde nella sua mentalità io ero il tassello più debole nel rapporto e quindi è colpa mia se non ho tenuto insieme il matrimonio. Se non potevo essere un uomo come mio padre, di quelli che mantengono la famiglia, dovevo almeno essere in grado di stare vicino a mia moglie in un determinato modo.
Senza trascurarla.
Da un certo punto di vista il discorso fila e forse mia madre, con la sua aria trasognata, sapeva sin dall’inizio che non si trattava di un matrimonio d’amore.
Il giorno delle nozze, mentre mi preparavo, ricordo una sua frase: «Te la stai scegliendo tu, così».
Sul momento non avevo dato grande peso a questa cosa. In fondo che voleva dire? Tutti scegliamo in modo arbitrario i nostri compagni, i nostri mariti e le nostre mogli. Mia madre però intendeva che la mia non era una scelta impulsiva e dettata dall’amore ma fin troppo meditata, pensata, bugiarda.
Anche se all’inizio mi ero davvero convinto di amare Lucrezia. O almeno delle parti di lei. Il seno pieno, le gambe lunghe, il sorriso sghembo e improvviso che irrompeva quando era imbronciata, l’enorme dedizione che aveva verso di me e anche la stima.
Tutte cose che se ne erano andate col tempo.
«Ma è una tragedia...» dice a scoppio ritardato la zia, come se avesse avuto bisogno di due minuti buoni per metabolizzare la notizia. «E ora che farai Tommasino?»
Ecco, il vezzeggiativo proprio non lo posso tollerare, mi fa saltare i nervi.
Abbasso la testa per non incrociare il suo sguardo perso e anche i baffi di sugo che ha disegnati sul viso dopo l’ultima forchettata di pasta.
«Qualcosa farò... non vi preoccupate. Metterò a posto i guai che ho combinato e laverò le mie colpe.» Alzo appositamente il tono delle ultime parole per fare in modo che arrivino forti e chiare a mia madre.
Passo meccanicamente la mano nella tasca posteriore dei jeans e non trovo le sigarette. Nonostante abbia smesso per seguire un’altra delle idee salutiste di Lucrezia, il riflesso condizionato è rimasto.
Soprattutto quando sono nervoso.
«Almeno un caffè si può avere? Non lo negano neanche ai condannati, per quello che so.» Alzo di nuovo la voce.
Mia madre non solleva invece lo sguardo dai piatti che sta lavando. Poi, atteso qualche secondo, prende la caffettiera dallo stipetto sopra il lavello e la mette sul fuoco.
Non che sia bravissima nel prepararlo, anche mio padre se ne lamentava sempre e a volte per non discutere si inventava una scusa per scendere e prenderlo al bar.
In questo momento però ne ho bisogno e individuo anche con la coda dell’occhio un pacchetto di multifilter rosse.
Provo ad afferrarne un paio furtivamente.
Zia Gina, l’unica a Roma insieme a mia madre che credo le fumi ancora, mi guarda perplessa. «Ma non aveva smesso?» chiede mentre mi allontano verso la finestra.
Una cosa di Lucrezia mi è rimasta. Odio il fumo dentro casa e già mi rendo conto che questo renderà difficile la convivenza con due fumatrici incallite come loro.
Ma cosa sto pensando?
Convivenza?
Quindi tutti i bei propositi della sera prima mentre stavo per addormentarmi in quello squallido residence sono svaniti? Mi ero detto non più di un paio di settimane, un mese dai per rimettermi in sesto e poi via...
Via da questa casa che non ho mai amato, via dai ricordi che si porta dietro e dalla vita sconclusionata di mia madre. Non si può tornare indietro.
Non si può davvero.
Aspiro la prima sigaretta in sei mesi e ho intenzione di farmela durare il più possibile.
In cortile alcuni ragazzini sono già usciti col pallone mentre due signore discutono degli ultimi pettegolezzi del quartiere.
Al piano di sotto un vecchietto sta tirando su con la corda un piatto coperto, immagino di pasta. Sarà un vedovo a cui a turno tutti offrono il pranzo.
Una cosa da medioevo, commenterebbe Lucrezia se fosse qui. Ed effettivamente ai Parioli certe cose non le vedi. Fanno parte del sottobosco.
Guardo per un attimo le sedie attorno al tavolo di legno, quelle con la paglia sempre più scura e rovinata sopra, ma che resistono.
Roba buona, aveva detto mio padre quando le aveva comprate. Ed effettivamente sono ancora qui.
Ci sono di nuovo anche io, che provo a godermi una sigaretta.
Per fortuna mia madre compra ancora le centos.