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Rimboccarsi le maniche.

È da due giorni che lo sento dire un po’ da tutti.

Vado a dormire con queste tre parole che mi ronzano in testa, continuamente, quasi in loop.

Mi succedeva sempre anche da bambino.

Ritrovarmi a pensare e ripensare nel momento in cui ero solo nella mia camera a qualcosa che mi aveva particolarmente colpito e usurare quel pensiero fino forse a distruggerlo e a riuscire a addormentarmi.

Non mi è mai passato.

Anzi, credo che quel momento, che a volte si allunga anche troppo, in cui siamo soli con noi stessi in un letto, e per soli intendo anche quando il letto per obbligo o piacere lo condividiamo con qualcun altro, sia assolutamente essenziale.

La possibilità di correre con la mente a tutto quello che vogliamo anche allontanandoci mille miglia da quelle lenzuola, da ogni sensazione che ci piaccia o ci spaventi...

Un senso di profonda libertà.

Il lettino a una piazza in cui mi ritrovo a dormire non facilita il compito.

Penso che è dai tempi del servizio di leva che non mi capita di trovarmi in uno spazio così piccolo. Nessuno ha toccato niente e la mia stanza è rimasta esattamente uguale a come l’avevo lasciata.

Mia madre ha tenuto la camera matrimoniale mentre mia zia si è sistemata nell’ex studiolo di mio padre.

Quasi avessero la sensazione che prima o poi quel letto sarebbe tornato utile. Forse speravano che a occuparlo sarebbe stato mio figlio Piero, ma Lucrezia non ha mai amato il nostro quartiere e questa casa così démodé.

Quando le avevo detto che avrei voluto aiutare mia madre a pagare il piccolo mutuo mensile perché in fondo un giorno quella casa sarebbe stata nostra, lei aveva risposto con sdegno: «Tua, vorrai dire...».

Oggi se fosse libera ci verrebbe persino a vivere per farmi un dispetto.

O forse no.

Il signor Altomonti non lo permetterebbe mai.

Oltretutto la distanza massima a cui acconsentirebbe di vivere lontano da sua figlia è quella delle due strade che dividono l’attico di Lucrezia dal suo.

Questione di praticità.

Questione d’amore.

Calcolo mentalmente di vivere più o meno a cinque chilometri da mio figlio.

A piedi, per uno non allenato come me, ci vorrebbe quasi un’ora.

Ormai con un’ora si arriva in treno a Napoli. Se mio figlio vivesse al Vomero più o meno sarebbe lo stesso.

Prima di addormentarmi ho ricevuto un suo messaggio che per un attimo mi ha restituito un minimo di gioia in una giornata tremenda come questa.

Piero, 21.42, martedì

Ehi papà come stai? Ti ricordi che domenica c’è la partita?

Ci andiamo vero? Rientri in tempo?!?!

Evidentemente Lucrezia ha mantenuto la parola.

Si aspetta che sia io a parlare per una volta con lui e a dirgli come stanno le cose.

Prendermi le mie responsabilità.

Tanti anni prima fu mio padre a dirmi che tempo qualche mese se ne sarebbe andato.

Avevo circa venticinque anni e fui travolto comunque da un’ondata fortissima. La domenica, nonostante la voglia di allontanarmi e vivere la mia vita, non potevo fare a meno di andarli a trovare. Per tranquillizzare mia madre del fatto che almeno una volta a settimana mangiassi qualcosa di sano e vedere la partita insieme a mio padre. Sapevo quanto gli facesse piacere. Me lo disse con serenità, sulla solita panchina, mentre stranamente leggeva un romanzo invece della Settimana Enigmistica.

Girando la copertina chiesi: «Calvino? Come mai?».

Quasi che lo stupore di trovare mio padre a sfogliare qualcosa che non fosse un giornale o un cruciverba fosse più importante di quello che mi aveva detto.

«Meglio tardi che mai, no? Voglio portarmi dietro qualche storia.»

Una frase che non capii fino in fondo, ma ricordo l’abbraccio che ne seguì e il tempo successivo in cui non ci abbracciammo più, lasciando che le cose facessero il loro corso. Ricordo il senso di impotenza.

Quando fu chiaro che non c’era niente da fare cercai di guardare esclusivamente al futuro, senza riflettere su quello che stavo perdendo, senza provare a godere di quei giorni che ancora gli restavano.

O forse ero solo arrabbiato.

Perché si può provare rabbia anche per chi se ne va e non ha colpa, figuriamoci per un padre che si allontana da casa e lascia la propria famiglia. Il fatto che mi abbia cacciato Lucrezia è un dettaglio.

D’altronde quando me ne sono andato veramente la prima volta? Piero se lo chiederà e cercherà una risposta per mesi, poi se ne dimenticherà e la ricercherà dopo molti anni.

Lo so bene.

Quanti pazienti sono passati dal mio studio tornando sempre lì. Al padre o alla madre.

Alle radici.

E quelle di Piero solidissime non lo sono mai state.

Ecco perché il pensiero di rimboccarsi le maniche è un buon pensiero per chiudere il recinto delle emozioni e rendere questa sofferenza una spinta verso qualcosa di concreto.

Che cosa ancora non lo so.

Sonno.

E avrei dormito almeno fino alle undici se non avessi sentito mia madre alzare parecchio il tono della voce.

Non era bastato l’aspirapolvere alle sette e il battipanni sui tappeti. O i gargarismi mattutini della zia Gina. Il passo successivo sarebbe stato il rumore di stoviglie che cadono mentre decidono cosa preparare per pranzo.

Poi alla fine sarà pasta al sugo.

Come sempre.

L’idea che esistano ancora i battipanni però mi ha strappato un sorriso, perché mi fa ricordare mia madre che mi inseguiva per quelle stanze quando la facevo disperare.

Penso a Lucrezia che insegue Piero con un battipanni mentre provo a riprendermi.

Fantascienza.

Mi illudo però che sia stato un sonno migliore di quello del residence.

Che dormire nel proprio letto di ragazzo restituisca qualcosa anche della forza atletica di quei giorni?

Il mio osso sacro non la pensa così.

Ma non c’è tempo da perdere.

Esco dalla stanza con indosso solo una maglietta sopra i boxer, ma entrando in cucina mi rendo conto che non è stata una buona idea.

Al tavolo con mia madre trovo due persone abbigliate di tutto punto.

«Salve...» salta in piedi l’uomo sulla cinquantina, capelli radi ma perfettamente sistemati e un sovrappeso di almeno quindici chili. Sembra quasi strizzato nel vestito scuro che indossa con una cravatta rossa sgargiante per provare a darsi un tono.

La ragazza avrà meno di trent’anni. Evidentemente un’assistente che lo accompagna per capire come si svolge il lavoro.

Assicuratori o bancari. Non si scappa.

«Salve» dico prendendo la mano dell’uomo, e poi aggiungo: «Vado un attimo a cambiarmi...».

Indico la stanza rimanendo per un secondo in equilibrio sulla figuraccia che ho appena fatto.

«No, non si formalizzi, prego prego...»

Seguo la mano.

«Mi chiamo Andrea Baldi e lei è la dottoressa Ilaria Manetti» spiega. La ragazza annuisce. Sarebbe anche carina se non avesse la fronte troppo alta e dei capelli rosso mogano frutto di una tinta probabilmente venuta male.

Gli occhiali con montatura semplice e lineare le danno un non so che da scolaretta e rappresentano forse l’unico elemento di sensualità che può mettere in campo.

«Io sono il figlio, posso sapere di cosa si tratta?» dico per rompere gli indugi e spingere loro o mia madre a dirmi che sta succedendo.

«Certo...» fa l’uomo aspirando una boccata d’ossigeno. Sembra voler prendere la rincorsa prima di dire qualcosa di non particolarmente gradevole tutto d’un fiato.

«Vede signor Leoni... come spiegavo a sua madre siamo passati per capire se c’erano stati dei problemi con gli avvisi che vi sono stati mandati in questi mesi... sa, non avendo una casella Legalmail attiva abbiamo dovuto utilizzare il vecchio metodo di spedizione e a volte...»

Giri di parole.

Lo guardo in modo fisso e lievemente sorpreso per fargli capire che non so minimamente a cosa possano riferirsi questi avvisi.

«Si tratta delle rate del mutuo della casa. Insomma, ci sono degli insoluti, e siccome suo padre è stato un dipendente delle Poste per tanti anni prima di procedere con un atto formale abbiamo pensato di passare per capire come risolvere la situazione...»

La parola insoluti comincia a risuonarmi nel cervello. Da quando sono sposato con Lucrezia non ho mai avuto un singolo problema economico.

Ecco la realtà che torna ad aggredirmi.

«Insomma, la cifra non è esigua e avremmo bisogno di capire come intendete regolarvi...»

Penso che il tizio sia specializzato nel trovarsi in catapecchie del genere dove le persone hanno problemi a pagare. Si muove in modo così circospetto perché vuole evitare scenate.

Mia madre, da quando sono arrivato, con la scusa di fare un caffè si è spostata ai fornelli e sta in piedi, silenziosa, con le spalle al tavolo. Penso che stringa qualcosa, magari uno straccio, per vincere la tensione.

«D’accordo. Può lasciarmi tutta la documentazione e un numero a cui contattarla?» chiedo mostrando una fermezza che non ricordo di aver mai avuto.

Zia Gina sogghigna.

Mia madre resta di sale. Forse anche lei più sorpresa che spaventata.

«Ma non vuole sapere prima i dettagli e magari discuterne...»

«No» dico, «vengo a sapere tutto ora e vorrei avere la possibilità di discuterne in famiglia. La chiamerò oggi stesso per dirle come possiamo procedere.»

In queste situazioni meglio mostrarsi più sicuri di quello che si è. «Sicuramente risolveremo agevolmente» aggiungo.

La ragazza, sempre silenziosa, tocca la manica dell’uomo e poi si scambiano un cenno di intesa. Lui rimane per un attimo disorientato. Da come la guarda capisco che il loro rapporto, almeno da parte sua, non è neutro.

Comanda lei.

«Ci sentiamo oggi pomeriggio allora...» conclude quindi allungandomi un biglietto da visita. «Mi raccomando, è essenziale che mi chiami.»

«Garantito» rispondo.

Ci stringiamo di nuovo tutti la mano prima che zia Gina li accompagni alla porta.

Una volta chiusa torna euforica in cucina: «E bravo Tommasino... gliele hai cantate a quei farabutti! Dopo che tuo padre ha buttato per anni il sangue per loro si permettono di venire qui per quattro soldi».

Mi volto verso mia madre e chiedo: «Quanti sono questi “quattro soldi”, mamma?».

Silenzio.

Rimetto insieme le carte disseminate sul tavolo.

Ci vuole qualche minuto ma il quadro è chiaro. Si tratta di sette rate saltate. Da febbraio ad agosto, senza contare quella di settembre in arrivo.

Cado sulla sedia.

La rata non è alta in sé, parliamo di seicentocinquanta euro al mese, ma sommando tutto con l’ultima in arrivo siamo sui cinquemiladuecento euro tondi tondi.

Molto più di quello che ho a disposizione in questo momento, anche mettendo insieme gli spicci che mi sono rimasti nel portafogli.

«Quanto hai sul conto?» chiedo di nuovo a mia madre che sembra rimasta inebetita.

Scuote la testa.

Si è giocata tutto, penso. E capisco che parte della colpa è anche mia che me ne accorgo adesso. L’avessi saputo anche solo un mese fa, sarebbe bastato un assegno dal conto in comune con Lucrezia su cui ormai non albergherà più un euro.

«È che tua mamma è troppo buona» interviene la zia Gina, «mi ha accolto qui e non mi chiede nulla e poi tutte le donazioni che fa alla parrocchia... è sempre lì.»

«Sì, alla parrocchia della snai» rispondo, senza riuscire a trattenermi.

«Ma no, ma no, quella qui vicino... su viale delle Province... come si chiama?»

Zia Gina guarda verso l’alto in cerca di una risposta, io invece riprendo in mano le carte come se fissandole la somma possa dare un risultato diverso da quello che vedo, qualcosa di più affrontabile.

Pensare che nel mio delirio avevo creduto che stare qualche settimana qui potesse essere un modo per recuperare le forze e ripartire.

Trovare una nuova strada e anche il sostegno giusto per risolvere le mie questioni con Lucrezia, o ricostruire il rapporto con Piero evitando che questa separazione diventi un cimitero di sentimenti per tutti.

Raccolgo le carte e dico: «Me la vedo io» all’indirizzo di mia madre.

«E bravo!» esulta zia Gina, «Tommasino si è fatto uomo.»

Proprio vero, penso mentre la macchinetta sul fuoco comincia a fischiare.

Meglio scendere a schiarirsi le idee e a prendere un caffè buono.

Amaro su amaro, sarebbe davvero troppo.