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La domenica pomeriggio al bar è già di per sé una cosa piacevole perché i clienti sono pochi e per lo più sereni.

Certo, c’è chi soffre già per le angustie del lunedì lavorativo, ma è raro perché di solito il pubblico è composto quasi solo da pensionati o ragazzi che si fanno un aperitivo prima di decidere se uscire anche quella sera.

Effettivamente ho solo tre tavoli occupati.

In uno il signor Alfredo, ex storico tappezziere della zona ormai in pensione, discute proprio della domenica calcistica con altri due suoi coetanei.

«Ma vi rendete conto che cosa ha combinato il Napoli in casa? E la Juve... ma questo è un campionato assurdo.»

Sorrido.

Noi ce la siamo cavata in calcio d’angolo e mi sono evitato anche le prese in giro di Gianni del lunedì mattina. Da quando ha appeso quella maledetta maglia di Immobile dietro la cassa, mi sta massacrando.

Ai vecchietti un giro di bianchetto, mentre ai ragazzi al tavolo di destra porto tre gin tonic e, devo essere sincero, mi siederei volentieri a gustarne uno anche io.

Il terzo tavolo è occupato di nuovo dalla ragazza misteriosa dell’altro giorno.

Sempre col computer.

Sorseggia un tè da più di un’ora e scribacchia ogni tanto qualcosa.

Mi domando cosa, ma non oso chiederlo.

In una condizione normale Gianni mi imporrebbe di farla muovere perché i tavoli devono essere occupati solo se si consuma e non si può starci seduti in eterno, ma la domenica è diverso.

Difficile che arrivi qualcun altro.

«Vogliamo parlare anche della grande Roma?» dico passando vicino al tavolo dei calcettopoli.

Il signor Alfredo alza le mani: «Quella nun se tocca... però certo oggi si è sofferto».

«E l’arbitro v’ha fatto bei regali...» fa quello seduto a fianco a lui dandogli una gomitata.

Ecco, lo sapevo. Ho sollevato un vero vespaio.

Rido sguaiatamente anche io mentre mi allontano e incrocio lo sguardo della ragazza che forse è stata disturbata dai nostri schiamazzi.

Faccio con la mano un segno di scusa.

Lei mi richiama.

«Mi perdoni... si scherzava» dico.

«Non c’è niente da perdonare» sorride, e noto che ha occhi incredibilmente neri. Scurissimi. I capelli ricci e lunghi raccolti e fermati da una penna.

Per un secondo rimango inebetito a fissarla.

Lei scuote la testa come per capire se c’è qualcosa che non va.

«Mi scusi. Voleva altro?»

«Mi chiedevo se si poteva avere anche qui un gin tonic.»

«Certo. Una specialità della casa...»

«Quindi non sarà uno di quei gin tonic annacquati in cui sembra che il gin sia un gentile intruso tra le bollicine di tonica?» fa lei sorridendo di nuovo.

# Non esiste niente di più pericoloso del sorriso di una donna.

«Farò del mio meglio» rispondo, aggiungendo un occhiolino.

Sopra di me aleggia il vocione di Gianni che pontifica: «Non si flirta mai con le clienti... al massimo una battuta garbata, ma niente di più».

Etica da bar.

Ma lui in fondo non c’è e non può sapere.

Me lo dico mentre vado di corsa dietro al bancone e provo a richiamare alla mente i tempi in cui i cocktail li facevo in un locale di Fregene e non in un bar di quartiere.

«Eccoci qua.»

Le porgo il gin tonic accompagnato da olive, arachidi e patatine, quelle della busta buona.

Chiaro che Gianni non approverebbe.

Sono stato troppo generoso nelle quantità, oltretutto.

«Wow... servizio per due. Speravi di essere invitato alla festa forse?» fa lei mentre sgranocchia la prima patatina.

«Non bevo mai in servizio» dico per provare a uscirne con una battuta che si rivela più fiacca e banale di come l’avevo pensata all’inizio.

Seguono quattro o cinque interminabili secondi, poi per fortuna il signor Alfredo chiama un altro giro per il tavolo dei pensionati e posso uscire dall’imbarazzo.

Mezz’ora dopo se ne sono andati via tutti.

Lei è ancora lì.

Seduta a mangiare a una a una le arachidi.

«Le adoro» commenta quando le passo accanto.

Non mi sono più avvicinato appositamente dopo la pessima battuta e ho sistemato tutto per la chiusura anche se non sarebbe servito. Non ho fretta.

La giornata non riserva più nulla per me.

«Devi chiudere... me ne vado subito, promesso» sorride ancora, e questo almeno mi restituisce un minimo di amor proprio.

«Comunque il gin tonic era ottimo... certo non l’hai imparato a fare qui.»

«Diciamo che qualche annetto fa... ho fatto un po’ di esperienza in merito.»

«Barman acrobatico?» domanda lei, mimando con le mani.

Mentre si alza noto che è molto magra e alta. Jeans e Superga bianche.

Non le serve altro.

Mi fa pensare a una gazzella.

Avrà non più di trent’anni e questo la colloca nel segmento più pericoloso di donne che sia mai esistito per un quarantenne come me.

Non troppo piccola, non troppo adulta.

Ripasso mentalmente le mie regole di vita e dovrei fuggire a gambe levate.

Ha in mano un libro di cui devo aver visto la copertina da qualche parte.

«L’hai letto?» chiede.

«In realtà no... ma conosco bene l’autore» mento.

«Peccato... mi saresti stato utile perché devo finire una recensione per il mio blog.»

Vorrei dirle che non mi piace leggere articoli su internet ma taccio. Mi fa sentire un vecchio.

E il bello è che sono un vecchio che serve gin tonic al bar all’orario di chiusura di domenica sera.

Avverto il mio fascino che crolla e si scioglie lentamente sulle spalle.

«A che pensi?» chiede improvvisamente.

«A nulla, scusa. Oggi è stata una giornata complessa.»

«Però avete vinto, no?» Sento quei suoi occhi scuri che mi entrano quasi dentro.

«Quello sì... ma diciamo che ho avuto una disavventura con l’auto che mi ha mollato sull’Olimpica...»

«Non ci credo... tremendo.»

Si copre la bocca per sorridere di nuovo.

Non so perché ma non mi sento colpito, anzi mi sale un certo buon umore.

«Hai davvero ragione a ridere... bisognerebbe liberarsi di certi vecchi scassoni.»

«Vuoi una mano?»

Lo dice con una naturalezza che mi lascia del tutto inebetito.

«Ci vorrebbe un meccanico.»

«I vecchi scassoni sono la mia specialità...»

Sembra sicura di quello che dice e io non so bene come comportarmi.

«Ho un passato anche io... non da barman acrobatica, ma insomma ho delle qualità.»

La guardo rimanendo in piedi con le mani sui fianchi.

«Io qui ne ho ancora per un bel po’...»

«Allora forse la frase giusta sarebbe: “Quando stacchi?”.»

Ride fragorosamente e noto che ha denti bianchissimi.

La cosa migliore sarebbe declinare l’invito garbatamente e tornarsene a casa.

Sono pure stanco.

«Allora?»

«Mezz’oretta» rispondo, «ma davvero, non devi...»

«Giusto il tempo per finire la mia recensione» afferma.

Non ho più scuse.

Circa quaranta minuti dopo siamo entrambi affacciati sul vano motore del Maggiolone.

«E tu questo me lo chiami scassone?»

Ora è davvero buffa con un po’ di grasso sulla guancia sinistra mentre tocca non so bene cosa.

È parecchio alta e il suo corpo sembra agile e flessuoso. Certo, brava o non brava, un meccanico così non l’avevo mai visto.

«Forse c’è un altro termine tecnico per definirlo.»

Rido.

«Certo» fa lei sgattaiolando in un attimo fuori dal cofano, «meraviglia... su, prova ad accendere ora.»

Mi avvio lentamente al cruscotto convinto che no, non può funzionare al primo colpo.

Il rombo del motore invece è perfetto.

Mi lascio andare sul sedile.

Lei mi guarda e mima il gesto di limarsi le unghie.

Colpito e affondato.

«Cioè, sei una specie di genio o cosa?» chiedo.

«Non lo sai che le donne sono sempre piene di sorprese?»

Effettivamente ci potrebbe stare una nuova regola, anche se in quest’istante sento che sto rischiando di mettermi in una situazione molto più pericolosa.

Lei entra e, prima di sedersi, reclina il sedile.

Rimango immobile.

«Ecco. Ora se proprio vogliamo cercare il pelo nell’uovo... una versione cabrio sarebbe stata l’ideale.»

Stende le braccia e si lascia andare.

A chi lo dici vorrei commentare, e invece rimango per un attimo sospeso. Una di quelle classiche situazioni in cui scorrono i secondi e non sei sicuro sul da farsi.

Alla fine, ignorando ogni singola riflessione degli ultimi trent’anni, passando sopra a regole, precetti e postulati, tiro giù il sedile e mi sdraio accanto a lei.

Non la tocco, non la bacio.

Non faccio il classico salto del sedile né cerco l’approccio lento e inesorabile. Ginocchio, gamba, coscia. Niente di tutto questo.

Contravvengo alla più fondante delle regole d’approccio. Se deve andare a buca, almeno che accada subito.

# Nel dubbio mai temporeggiare. Provarci subito.

«Ora dovrei raccontarti tutta la mia vita?» dice lei.

«Non lo so... in quel caso chiaramente ti dovresti beccare tutta la mia, pure.»

«Così terribile?»

«Impegnativa, direi» rispondo.

«Iniziamo col nome?»

Effettivamente non ci siamo neanche presentati.

«Tommaso» dico, e poi aggiungo: «Tommaso Leoni».

Le porgo la mano.

Lei mi restituisce una stretta forte nonostante le mani affusolate. Mani perfette e non da meccanico, questo è certo.

«Lia» dice, «Lia Salemi.»

Lia. Un nome diretto, rapido, incisivo. Le sta bene. Mi viene subito in mente che non ho mai conosciuto una donna con questo nome.

Certo, se avesse detto Lucrezia avrei forse aperto di corsa la portiera lasciandole in pegno la mia auto.

Ora ho solo voglia di godermi quel minimo di brezza che sembra essere improvvisamente comparsa su Roma.

È vero, il panorama non è dei migliori, ma in fondo che importa?

Magari ora parleremo fino alle cinque di mattina.