L’avvocato amico di Lorenzo mi ha detto che se quelli della trasmissione devono darmi dei soldi lo facessero a nero.
Per offrirmi il suggerimento si è avvicinato leggermente all’orecchio e ha sussurrato: «Altrimenti se sua moglie si rende conto che il suo portafoglio comincia a crescere le potrebbe fare molto male... meglio non avere nulla di tracciato».
Ha aggiunto un occhiolino.
Mi sono sentito come uno di quegli squallidi personaggi arrivati al punto di preoccuparsi solo di come mettere in tasca quattro lire di più fregando l’ex moglie e il fisco.
Praticamente l’opposto di mio padre.
Lui che un anno segnalò alle Poste il fatto che per errore avevano accreditato un bonus sul suo stipendio che non era previsto.
Lui che una volta restituì duecento euro usciti per sbaglio dal bancomat prima che iniziasse a fare un’operazione. E giù tutti a ridere e prenderlo in giro mentre lo raccontava. Ricordo invece lo sguardo ammirato di Lorenzo, che lo squadrava come se fosse un alieno.
Pura ammirazione.
Io non riuscivo mai a capire da che parte stare. Ridevo e basta e non ci pensavo.
Davo per scontata la sua presenza, il suo modo di essere che di volta in volta mi procurava ammirazione o rabbia a seconda delle situazioni della vita, ma senza mai intaccare la certezza che lui fosse un uomo così.
Mi sembra quasi di trovarmelo lì di fronte e di non sapere bene come spiegargli tutto quello che sto facendo.
Meglio lasciar perdere.
Ormai le tre puntate richieste sono state registrate e mandate in visione alla giornalista della trasmissione.
Il Bambasone e Vanessa hanno stabilito di comune accordo che, avendo più bisogno di loro, avrei preso l’intera somma proposta, e che da quel momento in poi avremmo diviso tutto in parti uguali.
«Mi sembra anche giusto» ha fatto lei passandosi la sigaretta da una mano all’altra. I denti bianchissimi nonostante il fumo, ho pensato. «In fondo noi abbiamo avuto l’intuizione, ma senza il giusto volto e le giuste idee...»
Ha sorriso, guardandomi nel suo solito modo vacuo.
«So-sono d’accordo. Così po-potrà si-sistemare tu-tutto.»
Sì, verissimo. Ma come?
Continuo a chiedermelo mentre faccio lo slalom tra nonni e mamme arrivati con il solito anticipo per prendere i figli a scuola.
Io arrivo sempre al millesimo di secondo o spesso, causa parcheggio impossibile, in ritardo.
Mentre fendo la folla di persone intente a raccontarsi l’ultimo weekend o a commentare il green che è stato appena rifatto al circolo del golf, sento di non essere come sempre invisibile.
Incredibile come sia strano ricevere tante occhiate.
Penso proprio a Vanessa, che adorerebbe attirare tutti quegli sguardi. Quelli bramosi degli uomini e quelli furibondi delle mamme un po’ sovrappeso o non abbastanza sexy.
Per me è diverso.
Mi chiedo quanti abbiano visto il video lì in mezzo, quanti lo avranno saputo di rimbalzo e quanti lo verranno a sapere quando andrò in tv.
Lucrezia, prima molto indecisa sul da farsi, alla fine ha pensato che fosse meglio mandare me a prendere Piero. Fuggire dalle occhiate o peggio ancora dalle domande scomode.
Me l’ha fatto sapere con un messaggio stringato, senza sprecare neanche un vocale. Non abbiamo una conversazione normale da giorni. Dopo quello che ho fatto dice di non volermi parlare e tantomeno vedere. Ci penseranno gli avvocati e intanto provassi a fare il padre oltre che il cretino in rete.
Così ho accettato di andare.
Lei se la vedrà direttamente alla prossima riunione dei genitori. L’unica volta che ci sono andato ho finito per addormentarmi in quarta fila.
Il tema principale era chi avrebbe sbucciato la mela ai ragazzi se non c’era più Bebi, la bidella storica, più vecchia della scuola, forse, che da sempre si era occupata di questo essenziale compito.
E poi il menu. I vegani erano inviperiti per il fatto che non venisse previsto un menu a parte per i loro figli.
Quando il direttore era finalmente giunto alla presentazione della proposta formativa erano tutti troppo stanchi per andare avanti.
Mentre mi guardo intorno per cercare mio figlio vicino all’ingresso della scuola, sorprendo con la coda dell’occhio una donna che tiene stretto un telefonino e lo mostra a un’altra indicandomi. Scontato.
Ecco Piero. Ha un sorriso a trentadue denti.
Vedo la maestra che mi fa cenno di avvicinarmi. Attraverso nuovamente il delirio, stavolta in uno strano tetris di gonne, bastoni di anziani e corse di bambini che non hanno nessuna intenzione di andare a casa.
D’altronde non hanno madri che debbano correre a lavoro.
«Salve» dico, stringendole la mano.
Una donna sulla quarantina, austera e distaccata. Camicia bianca accollata su una gonna blu sotto al ginocchio. Capelli raccolti in uno chignon. Siamo a pochi passi e mi rendo conto che farebbe sicuramente onore alla signorina Rottenmeier.
«Mi sono permessa di chiamarla per via di Piero» dice, come se stesse parlando con il preside o con un uomo di trent’anni più grande di lei.
Ha mani piccolissime, quasi invisibili direi, e prive di anelli o ornamenti. Dalla camicia pendono degli occhiali, credo per presbiti.
«Oggi era particolarmente irrequieto e ho dovuto richiamarlo...»
Penso sia normale amministrazione per una classe di quinta elementare, ma non mi esprimo.
«Credo sia per via di quel suo... come dire... di quella sua...»
«Si riferisce al video su YouTube?» dico per evitare di accamparmi lì e fare nottata.
«Esattamente... i compagni lo esaltano e sembra l’abbiano presa bene, però io temo che in prospettiva, sa come vanno queste cose... no?»
Bel giro di parole.
«No, mi dica lei cosa potrebbe succedere.»
«Insomma, sa, questa è una scuola frequentata solo da grandi professionisti... pensi che abbiamo in classe anche il nipote di un importante politico.» Mentre lo dice le si accende negli occhi un fuoco che non pensavo potesse mai albergarvi.
«E lei crede che... insomma...» le rispondo, pensando a quando io e Lorenzo parlavamo con il nostro prof di Filosofia del liceo. Un ex sessantottino talmente di parte da arrivare quasi a negare lo sbarco degli americani. Per lui l’Italia si era liberata da sola dal giogo dei nazifascisti. Con lui solo discorsi strampalati e fatti di mille sottintesi che non portavano mai a nulla.
«Esattamente. Vedo che mi capisce...»
«Certo... quindi, secondo lei, io dovrei muovermi così... insomma cercare di... no?» Resisto all’idea di scoppiare a ridere e tengo una fermezza superiore alla sua.
«Ci siamo intesi, mi pare.»
«Certo.»
Finalmente posso accogliere Piero.
«Papàààààààà» urla mentre mi abbraccia.
Sono sincero. Non ho quasi mai ricevuto un abbraccio così da lui. Mi sento orgoglioso al di là delle mamme che continuano a sproloquiare sullo sfondo.
Per mio figlio sono un mito, non importa come. Forse.
«Venite...» fa a tre suoi compagni.
Eccoli che arrivano con le loro cartelle degli Avengers e i grembiuli di un blu perfetto.
«Signor Leoni...» dice l’unica bimba. Ha occhi verdi e capelli lunghi neri. Gli altri restano due passi indietro. «... Visto che è diventato così famoso... ci farebbe un autografo?»
Mi porge il diario.
In questo preciso istante, e fino a oggi non mi era mai successo, provo vergogna.
«Più di cinquantamila like in così poco tempo...» dice Piero baldanzoso.
Gongola e la guarda come se vedesse un’oasi con due palme dopo giorni di deserto.
Miraggio, infatti, sarebbe la parola esatta.
Mi chiedo se io ho mai guardato una donna in questo modo. Quando è stata l’ultima volta? Alle elementari o forse al liceo, quando la famosa Chiara mi spezzò il cuore?
Rimango per un secondo imbambolato e penso inevitabilmente a Lia.
Le mie telefonate si sono interrotte dopo le prime andate a vuoto.
«Come ti chiami?» chiedo.
«Lucrezia» risponde, e quel nome mi risuona nella testa come un monito profondo.
# Se proprio dovete, non vi innamorate mai di una donna che porta il nome di vostra madre.
Piero la guarda ipnotizzato.
Non posso esimermi, così prendo il diario e ci scrivo A Lucrezia, con amicizia. Tommaso.
Lei lo guarda, poi chiede: «Non ha un nome d’arte?».
Si spremono tutti e tre le meningi ma non viene fuori niente di buono.
«Per il momento non ne ho bisogno, ma se mi dovesse servire faremo senz’altro una riunione per parlarne.»
Lei sorride, dà un bacio sulla guancia a Piero e si allontana lentamente col diario al petto.
Gli altri due si danno una gomitata e scappano via.
Piero rimane con uno sguardo sospeso che per certi versi gli invidio, anche se dando un occhio alla mamma della bimba, che la accoglie e prende subito tra le mani il diario, mi ricredo in un secondo. In confronto meglio gli Altomonti. O forse Piero, essendoci cresciuto insieme, avrà già gli anticorpi adatti.
Faccio un cenno di saluto alla signora che ricambia basita e poi si allontana con la figlia.
Penso che quella pagina di diario avrà vita breve, ma per Piero potrà segnare qualche punto in più, almeno fino a fine anno.
«Grazie papà» dice.
E io mi sento un po’ come quando un giorno, a sorpresa, il papà di Lorenzo venne a prenderlo a scuola con una Mercedes 230 SL cabrio del ’69, la mitica Pagoda.
Ricordo che fece fare un giro a me e ad altri quattro compagni di scuola prima di tornare a casa.
«Vinta oggi con una scommessa fortunata» aveva annunciato agli altri genitori presenti, e io ricordo, ricordo bene il nostro sguardo ammirato e quello sconcertato dei grandi.
Si è verificata più o meno la stessa cosa e mi lascia in bocca un sapore dolceamaro soprattutto se rifletto su come è finito il rapporto tra Lorenzo e il padre. A ripensarci, non li ho mai più visti ridere come quel giorno, come in quel giro sulla Pagoda.
Il telefono mi sottrae ai pensieri. È Lorenzo.
«Pronto...» provo a dire nella confusione delle urla.
«Hai deciso di tornare a scuola e prenderti finalmente il diploma?» dice lui ridendoci sopra.
Si riferisce all’ultimo anno, quando dopo la delusione d’amore con Chiara e in preda a strani propositi di vendetta verso i miei avevo pensato di mollare la scuola.
«Esatto...»
«Puoi parlare?» chiede con tono circospetto.
«Certo. Sono con Piero, però.»
«Arrivo a Roma tra un’ora. Oggi pomeriggio sei impegnato?»
«Dovrei lavorare.»
«Allora prenditi un’ora di pausa. Se vuoi possiamo anche passare lì.»
Il plurale intende che c’è pure l’editor dell’altra volta.
«Ti vuole parlare» aggiunge.
«Passa al bar verso le cinque e chiederò a Gianni di poter fare una pausa.»
«Non preferisci da un’altra parte?»
«Dici che dovrei darmi un tono? L’altra volta non mi pare abbia funzionato molto.»
«Effettivamente. Comunque gli anticiperò io la situazione.»
«A dopo» dico e chiudo.
Piero mi cammina a fianco orgoglioso, sorridente. Era da tempo che non lo vedevo così.
Eppure i pensieri di prima non se ne vanno.
Non si placa nulla nella testa e sento un forte bisogno di vedere Lia.
# Se hai bisogno di una donna è l’inizio della fine.
Ripasso mentalmente gli ultimi istanti in cui siamo stati insieme. Quella notte da lei, sdraiati sul suo letto, senza riuscire a prendere sonno, ma neanche a dirsi nulla.
Solo i respiri, prima affannati, poi placidi.
Due corpi vicini che non chiedono altro.
Silenzio.
E ora solo questo bisogno.