Nel buio della notte, in un piccolo villaggio di pescatori trasformato in quartier generale della Croce Rossa durante l’operazione Neva sul fronte di Leningrado, un uomo ferito giaceva in un letto dell’ospedale in attesa della morte.
Rimase lì disteso a lungo, con le braccia conserte, immobile fino a quando non si spensero le luci e il reparto che accoglieva i casi più disperati non fu avvolto dalla quiete e dalla stanchezza.
Presto sarebbero venuti a prenderlo.
Era un giovane di ventitré anni, distrutto dalla guerra. I mesi trascorsi a letto, ferito, avevano lasciato sul suo viso un pallore che non era quello della paura o della malinconia, ma il pallore di chi non vede mai la luce del sole. Aveva la barba incolta, i capelli neri erano rasati quasi a zero. Gli occhi color ambra erano assenti quando guardavano lontano. Alexander Belov appariva burbero, ma non era crudele; sembrava rassegnato, ma distaccato.
Mesi prima, durante la Battaglia di Leningrado, Alexander si era avventurato tra i ghiacci per soccorrere l’amico Anatolij Marazov, che giaceva sul fiume Neva con una pallottola in gola. Era corso da Anatolij – ormai senza speranze – accompagnato da un medico dissennato. Un dottore di Boston di nome Matthew Sayers che faceva parte della Croce Rossa Internazionale e che era caduto nel fiume ghiacciato. Alexander aveva dovuto tirarlo fuori dal buco nel ghiaccio, rischiando la sua stessa vita, e trascinarlo al riparo fino al mezzo blindato. I tedeschi stavano cercando di far saltare in aria l’autocarro, invece avevano finito con il far saltare in aria Alexander. Gli erano tornati in mente gli aerei tedeschi che a Luga, all’inizio della guerra, sparavano sui campi affollati di donne. Ora capiva perché ne era rimasto turbato. Nel rombo della Luftwaffe Alexander aveva sentito la sua morte.
Era stata sua moglie Tatiana a sottrarlo ai Quattro Cavalieri quando erano venuti a prenderlo, enumerando le sue buone e cattive azioni sulle loro dita guantate di nero. Tatiana, a cui lui aveva detto: “Lascia Leningrado e torna immediatamente a Lazarevo”. Lazarevo, un piccolo villaggio di pescatori ai piedi dei monti Urali, nel cuore della pineta, ben nascosto sulle rive dell’impetuoso Kama. Lazarevo, dove almeno per un po’ sarebbe stata al sicuro. Ma lei era come il medico: dissennata. No, gli aveva detto. Non ci sarebbe andata. Si era unita all’esercito e si era recata al fronte senza che lui lo sapesse. “No”, aveva detto ai Quattro Cavalieri mostrando i pugni, “è troppo presto per reclamarlo.” E poi, con aria di sfida: “Non vi permetterò di prenderlo. Farò qualsiasi cosa per impedirvi di portarlo via”.
E così aveva fatto. Con il suo stesso sangue li aveva allontanati da Alexander. Gli aveva dato il suo sangue, prendendolo dalle proprie arterie e riversandolo nelle sue vene. Così era stato salvato.
Alexander doveva la vita a Tatiana, ma il dottor Sayers la doveva ad Alexander e l’avrebbe portato a Helsinki insieme a Tatiana. Da lì sarebbero partiti alla volta degli Stati Uniti. Organizzarono un piano, un buon piano, e per due mesi Alexander rimase in ospedale a intagliare statuine, carretti e lance nel legno, nell’attesa che la ferita alla schiena guarisse. E intanto immaginava di attraversare l’America con lei. Chiudeva gli occhi e sognava una vita senza sofferenze, loro due in macchina che cantavano e temperature miti.
Aveva vissuto sulle fugaci ali della speranza. Una speranza sottile. Lo sapeva fin troppo bene. Era quella di un uomo circondato dal nemico che corre per l’ultima volta verso la salvezza e prega di riuscire a tuffarsi in un pozzo di vita prima che il nemico ricarichi, prima che faccia uscire l’artiglieria pesante. Sente i fucili e le urla dietro di sé, ma continua a correre, sperando in una tregua. Tuffarsi nella speranza o morire nella disperazione. Tuffarsi nel fiume Kama.
Poi un giorno Alexander aprì gli occhi e si trovò davanti il suo “miglior” amico, Dimitri Černenko, con lo zaino che credeva di aver perso sul ghiaccio quando era stato ferito. Dallo zaino estrasse il vestito bianco con le rose rosse di Tatiana. Lo teneva in mano con una minaccia implicita. Dimitri gli chiese di lasciare Tania e di fuggire in America senza di lei, portando lui al suo posto. Era una sfida a dare una svolta definitiva alla sua vita.
Avrebbe dovuto ucciderlo. E quasi lo fece. Se non fosse stato fermato da una stupida infermiera, l’avrebbe di certo picchiato a morte. Ma in ogni caso, che Dimitri fosse vivo o morto, il suo destino era segnato. Si domandò da quanto tempo fosse stato deciso, ma preferì non rispondere a quella domanda.
Da quando aveva lasciato la sua stanzetta di Boston, nel dicembre del 1930. Ecco da quando.
Ora, nel 1943, se avesse ucciso Dimitri, lo avrebbero arrestato seduta stante, pubblicamente, e gettato in galera, circondato da guardie che gli avrebbero fatto compagnia in attesa del trasferimento davanti alla corte marziale con l’accusa di omicidio. Incapace di difendere la sua stessa vita, Tatiana sarebbe rimasta in Unione Sovietica per stargli vicino, mentre il dottor Matthew Sayers della Croce Rossa sarebbe partito per Helsinki da solo.
Non riuscì a uccidere Dimitri che, non appena ebbe ripreso conoscenza, si precipitò dal generale Mechlis dell’NKVD per dirgli tutto ciò che sapeva sul conto di Alexander Belov. E Dimitri ne sapeva molto.
Però non gli rivelò nulla sul conto di Tatiana. Voleva rovinare Alexander, era chiaro. Tatiana l’aveva capito sin dall’inizio. Aveva colto la malvagità nelle intenzioni di Dimitri e l’aveva detto ad Alexander. Erano stati attenti, si erano nascosti e avevano finto di essere solo conoscenti; avevano ostentato indifferenza, ma quando Dimitri aveva trovato il vestito bianco con le rose rosse nello zaino di Alexander, aveva capito. E poi aveva scoperto il segreto del loro matrimonio. Sapeva di averli in pugno e non si sarebbe fermato davanti a nulla pur di rovinarli. E non lo fece.
Comunque Alexander rimaneva ancora appeso a un sottile filo di speranza. La fiammella di una candela quasi consumata. Dimitri voleva fuggire dall’Unione Sovietica. Per questo quando si presentò al generale Mechlis con il viso tumefatto e il braccio spezzato, rivelò tutto ciò che sapeva del suo migliore amico, Alexander Belov, ma non disse che Tatiana Metanova era la moglie. Voleva che lei lasciasse l’Unione Sovietica, non con Alexander, ma con lui.
Per costringere Tatiana a lasciare il Paese Alexander strinse i denti e chiuse gli occhi, serrò i pugni e si allontanò da lei; la respinse, la lasciò andare.
Gli rimaneva una sola cosa da fare nella sua vecchia vita, ed era quella di alzarsi con grinta e salutare il dottore che avrebbe salvato sua moglie. Dopo di che avrebbe potuto affrontare il nemico. Ora non gli restava che aspettare.
Decise che non voleva essere portato via con gli indumenti da ospedale e chiese all’infermiera del turno di notte di portargli l’uniforme da maggiore e il berretto da ufficiale. Si rasò con il coltello e un po’ d’acqua, si vestì e si sedette sulla seggiola con le braccia conserte. Quando sarebbero venuti a prenderlo, e sapeva che sarebbe accaduto, voleva seguirli con il massimo della dignità permessa dai lacchè della polizia politica. L’uomo vicino a lui russava sonoramente, nascosto dietro una tenda.
Quella notte, qual era la realtà di Alexander? Cosa determinava la sua consapevolezza? E, più importante ancora, cosa gli sarebbe successo di lì a un’ora o due, quando avrebbe dovuto rendere conto di tutto ciò che era successo? Quando il capo della polizia segreta, il generale Mechlis, avrebbe sollevato gli occhi piccoli e cisposi per dirgli: “Ci spieghi chi è realmente, maggiore”, quale sarebbe stata la sua risposta?
Era il marito di Tatiana?
Sì.
“Non piangere, tesoro.”
“Non venire, non ancora. No. Non ancora.”
“Tania, devo andare.” Aveva detto al colonnello Stepanov che sarebbe tornato per l’appello di domenica notte e non poteva arrivare tardi.
“Ti prego. Non ancora.”
“Tania, prenderò un altro fine settimana di permesso...” ansima. “Dopo la battaglia di Leningrado. Tornerò qui. Ma adesso...”
“No, Shura. Ti prego, no.”
“Mi stringi troppo forte. Molla le gambe.”
“No. Non ti muovere. Ti prego. Solo...”
“Sono quasi le sei, tesoro. Devo andare.”
“Shura, amore, ti prego... non andare.”
“Non venire. Non andare. Cosa posso fare?”
“Rimani dove sei. Dentro di me. Non ancora. Non ancora.”
“Ssst, Tania. Ssst.”
E cinque minuti più tardi si stava precipitando verso la porta. “Devo correre. Non puoi accompagnarmi in caserma. Non voglio che tu vada in giro da sola col buio. Hai ancora la pistola che ti ho dato? Resta qui. Non guardarmi mentre faccio il corridoio... vieni qui.” La avvolge nel cappotto, la abbraccia, le bacia i capelli e le labbra. “Fai la brava, Tania”, dice. “E non dirmi addio.”
Lo saluta. “Ci vediamo, capitano del mio cuore”, dice Tatiana con le lacrime che le scivolano lungo le guance.
Era un soldato dell’Armata Rossa?
Sì.
Era l’uomo che aveva affidato la sua vita a Dimitri Černenko, un demone infido travestito da amico?
Ancora una volta, sì.
Ma un tempo Alexander era stato un americano. Un Barrington. Parlava come un americano. Rideva come un americano. Si divertiva come gli americani, e nuotava, e dava la vita per scontata come uno di loro. Aveva degli amici che pensava sarebbero rimasti tali per sempre e amava il padre e la madre, come un americano.
Una volta chiamava casa le foreste del Massachusetts. Aveva un sacchetto in cui nascondeva tutti i suoi piccoli tesori: le conchiglie, i pezzetti di vetro consumato che aveva trovato nella laguna di Nantucket, la carta dello zucchero filato, pezzi di corda e legacci, una fotografia del suo amico Teddy.
Una volta aveva una madre il cui viso abbronzato, truccato e con gli occhi grandi, era ancora impresso nella sua memoria.
E una volta, mentre la luna azzurra splendeva nel cielo scuro insieme a stelle ammiccanti, per una frazione di eternità, trovò ciò che credeva lo avrebbe liberato da tutta la sua vita sovietica.
Una volta.
Alexander Barrington si stava avvicinando alla fine. Ma non l’avrebbe accettata in modo pacifico.
Si appuntò le tre medaglie al valor militare e la medaglia dell’Ordine della Stella Rossa che si era guadagnato guidando un camion su un lago ghiacciato, si mise il berretto, si sedette sulla seggiola di fianco al letto e restò in attesa.
Alexander sapeva come si comportavano quelli dell’NKVD (la polizia segreta di Stalin) quando andavano a prendere gente come lui. Cercavano di non creare troppo trambusto e di farsi vedere dal minor numero di occhi possibile. Arrivavano nel cuore della notte o ti fermavano in una stazione ferroviaria affollata mentre salivi su un treno diretto in un centro turistico della Crimea. Arrivavano al mercato del pesce o mandavano un vicino di casa che diceva di aver bisogno di parlarti per un secondo nella sua stanza. Ti chiedevano se potevano sedere allo stesso tavolo della mensa in cui stavi mangiando pelmeni. Si facevano strada timidamente in un negozio e ti chiedevano di seguirli nel reparto degli ordini speciali. Ti sedevano a fianco su una panchina del parco. Erano sempre cortesi, tranquilli e ben vestiti. La macchina accostava al marciapiede e poi ti portavano alla Grande Casa, con le pistole sempre ben nascoste. Una volta una donna arrestata nel mezzo della folla si era messa a urlare e si era arrampicata su un lampione costringendo anche il più distratto dei passanti a fermarsi a guardare. Rese impossibile il lavoro degli uomini dell’NKVD che dovettero lasciarla perdere. Ma lei, invece di scomparire da qualche parte nel Paese, tornò a casa a dormire. Andarono a prenderla durante la notte.
Erano già venuti a cercare Alexander, un pomeriggio, dopo la scuola. Era con un amico e due uomini vennero a dirgli che aveva dimenticato l’appuntamento con l’insegnante di storia e gli chiesero se poteva tornare un momento indietro per parlargli. Capì subito. Riusciva a sentire l’odore della menzogna addosso a quei tizi. Non si mosse. Afferrò il braccio dell’amico e scosse la testa. L’amico si allontanò in fretta, sentendosi indesiderato. Quando vide l’automobile nera che si avvicinava al marciapiede capì che gli restavano pochissime possibilità. Si domandò se gli avrebbero sparato alla schiena, in pieno giorno, sotto gli occhi di altra gente. Immaginò che non l’avrebbero fatto e scappò. Lo seguirono, ma avevano trent’anni e lui diciassette. Li seminò in pochi minuti, si infilò in un vicolo, si nascose e arrivò in un mercato vicino alla chiesa di San Nicola. Comprò un po’ di pane. Aveva paura di tornare a casa. Pensava che sarebbero andati là a cercarlo. Suo padre non avrebbe sentito la sua mancanza e la madre non se ne sarebbe neppure accorta. Passò la notte fuori.
La mattina seguente andò a scuola, credendo che in classe sarebbe stato al sicuro. Il preside in persona gli portò un messaggio. Era atteso nel suo ufficio.
Non appena uscì dall’aula lo afferrarono e lo condussero fuori dove l’auto aspettava accostata al marciapiede.
Nella Grande Casa lo picchiarono e poi lo trasferirono alla prigione di Kresty dove avrebbero deciso del suo destino. Non si faceva troppe illusioni. Non c’erano accuse contro di lui, ma a loro non importava nulla della sua innocenza. Lo sapeva. E forse non era così innocente. Dopotutto era un americano di nome Alexander Barrington. Quello era il suo crimine. Il resto erano solo dettagli.
In qualunque modo fossero venuti a prenderlo quella notte, di certo non avevano alcuna intenzione di portare scompiglio in un reparto pieno di feriti gravi, in un ospedale militare. Si era fatto l’idea che quella farsa – la scusa di portarlo a Volchov per essere promosso tenente colonnello – sarebbe servita agli uomini dell’apparato per fare in modo che rimanesse solo. Ma Alexander non aveva alcuna intenzione di raggiungere Volchov, dove erano già state approntate le strutture per il suo “processo” e per l’esecuzione. Lì a Morozovo, in mezzo a gente senza esperienza e piuttosto maldestra, aveva di certo più possibilità di sopravvivere.
Sapeva che l’articolo 58 del Codice Penale sovietico del 1928 non lo descriveva neppure come prigioniero politico. Se fosse stato accusato di un crimine contro lo Stato sarebbe rientrato a pieno titolo nella categoria dei criminali e condannato di conseguenza. Il codice, nelle sue quattordici sezioni, definiva il suo reato solo in termini molto generici. Non aveva bisogno di essere un americano o un uomo sfuggito alla giustizia sovietica. Non doveva essere un provocatore straniero, una spia o uno sciovinista. La semplice intenzione di tradire era considerata un crimine della medesima gravità del tradimento, pertanto punibile. Il governo sovietico si vantava di quello che considerava un chiaro segno di superiorità rispetto alle costituzioni occidentali, secondo le quali l’atto criminale doveva essere commesso, prima di poter essere punito.
Qualunque azione reale o intenzionale mirata all’indebolimento sia dello Stato sovietico sia della forza militare sovietica era punibile con la morte. Non solo le azioni. Anche le intenzioni erano controrivoluzionarie.
Per quanto riguardava Tatiana... Alexander sapeva che, in un modo o nell’altro, l’Unione Sovietica ne avrebbe accorciato la vita. Molto tempo prima Alexander aveva progettato di fuggire in America con Dimitri e lei sarebbe rimasta lì, moglie di un disertore dell’Armata Rossa. Ma avrebbe anche potuto morire al fronte, lasciandola vedova, orfana e sola in Unione Sovietica. C’era però la possibilità che Dimitri lo denunciasse all’NKVD, come in effetti aveva fatto, lasciando lei come unica erede di Alexander Barrington, la moglie russa di una “spia” americana e di un nemico del popolo, come dicevano. Queste erano le terribili scelte possibili per Alexander e per la sfortunata ragazza che era sua moglie.
Quando Mechlis mi domanderà chi sono gli farò il saluto e gli dirò che sono Alexander Barrington, senza pensarci?
Avrebbe potuto farlo senza pensare alle conseguenze?
Non ne era convinto.
Alexander aveva undici anni e provava un forte senso di nausea. “Che cos’è questo odore, mamma?” domandò mentre tutti e tre entravano in una stanza piccola e fredda. Era buio e non riusciva a vedere molto bene. Quando il padre accese la luce le cose non migliorarono granché. La lampadina era opaca. Alexander respirava dalla bocca e ripeté la domanda alla madre che non rispose. Si tolse il grazioso cappellino e il soprabito, ma quando si rese conto del freddo che faceva nella stanza se lo rimise e accese una sigaretta.
Il padre si guardava intorno. Toccò il vecchio cassettone, il tavolo di legno, le coperture impolverate delle finestre. “Non è male”, disse. “Sarà fantastico. Tu, Alexander, avrai la tua camera, mentre io e tua madre staremo qui. Vieni, ti faccio vedere la tua stanza.”
Il ragazzo prese la mano del padre e lo seguì. “Ma l’odore, papà...”
“Non preoccuparti.” Harold sorrise. “La mamma pulirà per bene. E poi non è niente. Solo... tante persone che vivono insieme.” Gli strinse la mano. “È l’odore del comunismo, figliolo.”
Era ormai notte quando furono accompagnati nell’hotel residenziale. Alexander pensava di essere vicino al centro, anche se non ne era sicuro. Erano arrivati a Mosca all’alba, dopo un viaggio in treno di sedici ore, da Praga. Prima di Praga avevano viaggiato per venti ore da Parigi, dove avevano passato un paio di giorni in attesa di documenti o del treno, Alexander non lo sapeva. Certo Parigi gli era piaciuta. I genitori sembravano agitati, lui però li ignorava, per quanto possibile. Era impegnato nella lettura del suo libro preferito, Le avventure di Tom Sawyer. Quando voleva estraniarsi dal mondo degli adulti, apriva il libro e stava subito meglio. Poi naturalmente la madre tentava di spiegargli ciò che era successo tra lei e il padre, e Alexander avrebbe voluto trovare un modo per consigliarle di fare come diceva il papà, senza discutere.
Non aveva bisogno delle sue spiegazioni.
Tranne ora. In quel momento desiderava una spiegazione. “L’odore del comunismo, papà? Che cavolo è?”
“Alexander!” esclamò Harold. “Cosa ti ha insegnato tua madre? Non parlare in questo modo. Dove hai imparato a dire certe cose? Tua madre e io non usiamo un linguaggio del genere.”
Non voleva discutere, ma gli avrebbe ricordato volentieri che ogni volta che litigavano usavano quel tipo di linguaggio... e anche peggio. Per il semplice fatto che quelle questioni non lo riguardavano il padre credeva che Alexander non ascoltasse. Come se i genitori non fossero nella stanza accanto o dietro una porta o addirittura davanti a lui. Nella casa di Barrington Alexander non aveva mai sentito niente. La stanza dei genitori era alla fine del corridoio al piano di sopra. C’erano tante altre stanze e porte che li separavano. Era così che doveva essere.
“Papà”, tentò ancora una volta. “Ti prego, dimmi cos’è questo odore.”
“Sono i bagni, Alexander”, rispose il padre, chiaramente a disagio.
“E dove sono?” domandò guardandosi intorno nella stanza.
“Fuori, in corridoio.” Harold sorrise. “Guarda il lato positivo. Non dovrai fare troppa strada quando devi andarci di notte.”
Alexander appoggiò lo zaino e si tolse il cappotto. Non gli importava se faceva freddo. “Papà”, disse respirando sempre dalla bocca, con il desiderio di vomitare. “Non lo sai che non mi sveglio mai durante la notte? Ho il sonno pesante.”
C’era una brandina con una sottile coperta di lana. Quando Harold se ne fu andato, Alexander andò ad aprire la finestra per vedere fuori. L’aria di Mosca era fredda. Era dicembre e la temperatura era scesa sotto lo zero. Guardò la strada dal secondo piano e notò cinque persone sdraiate per terra in un androne. Lasciò la finestra aperta. Si gelava, ma non gli importava. L’aria fresca avrebbe ripulito la stanza.
Andò in corridoio per andare in bagno, ma non ce la fece. Preferì uscire. Quando rientrò si svestì e si infilò a letto. Era stata una giornata molto lunga e si addormentò quasi immediatamente; non prima di essersi chiesto se anche il capitalismo avesse un odore.