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I FANTASMI DI ELLIS ISLAND

Vivere e lavorare a Ellis procurava a Tatiana un’intensa sensazione di conforto. Quel suo mondo era così piccolo, così insulare, esatto e pieno che non riusciva a immaginare un’esistenza diversa, che le chiedeva di andare avanti verso New York, la vera America, o tornare indietro nei ricordi. A Leningrado, ad Alexander. Finché rimaneva a Ellis con il suo bambino, viveva con lui in una stanzetta con la grande finestra bianca, dormiva nel letto singolo con le lenzuola candide, indossava la sua uniforme bianca e le scarpe comode, finché rimaneva in quella stanza con Anthony e il suo zaino nero, non era costretta a immaginare una vita impossibile in America senza Alexander.

Nei continui tentativi di allontanare il pensiero da quello zaino nero le capitava spesso di desiderare il rumore della sua famiglia, la confusione delle discussioni, la musica dei bevitori di vodka, l’odore sempre presente di sigaretta. Desiderava il suo intrattabile fratello, la sorella protettiva, la madre indaffarata, il padre burbero, il nonno e la nonna, che tanto amava e rispettava. Voleva ardentemente la loro presenza, tanto quanto aveva desiderato un po’ di pane durante i giorni dell’assedio. Avrebbe voluto sentirli camminare lungo i corridoi di Ellis, sempre con lei, fantasmi silenziosi al suo fianco, impotenti davanti al fantasma di lui che urlava, sempre presente.

Durante il giorno portava con sé il bambino mentre bendava e dava da mangiare ai feriti e lasciava le sue stesse ferite dolenti per la notte, quando le leccava e le curava ricordando i pini e i pesci e il fiume e l’ascia e la legna e il fuoco e i mirtilli e l’odore del fumo di sigaretta e le risate sonore di una voce maschile.

Era impossibile attraversare gli spogli corridoi di Ellis Island Tre senza avvertire i milioni di passi che si erano susseguiti prima di lei su quei pavimenti a scacchi bianchi e neri. Quando si avventurava oltre il ponticello che portava all’ingresso principale su Ellis Island Uno, la sensazione era più forte. A differenza del blocco Tre, dove la vita continuava, Ellis Uno era deserto. Tutto ciò che rimaneva negli edifici gotici, nelle scale, nei corridoi, nelle stanze grigie e polverose era lo spirito del passato, di coloro che erano venuti prima, fin dal 1894; persone che arrivavano, sette volte al giorno, con le navi da carico: che sbarcavano oltre le acque di Castle Garden o proprio lì, nel salone d’ingresso, e poi salivano nella grande sala di registrazione trascinando borse e bambini, sistemandosi i copricapi, il vecchio mondo ormai alle spalle: madri e padri, mariti, fratelli e sorelle, promesse di aiuto, nessuna promessa. Cinquemila al giorno, trentamila al mese, o cinquantamila, ottantamila, otto milioni all’anno, venti milioni dal 1892 al 1924, senza visto, senza documenti, senza soldi, solo con i vestiti che avevano addosso e un mestiere utile: carpentieri, sarte, cuochi, fabbri, muratori, commercianti.

La mamma se la sarebbe cavata bene qui, a cucire. Papà avrebbe aggiustato tutti i tubi e Pasha non si sarebbe mai allontanato da me, come quando eravamo bambini. E Dasha si sarebbe occupata del figlio di Alexander mentre io lavoravo. Per quanto ironico, l’avrebbe fatto.

Venivano con i figli, perché nessuno li abbandonava: era per loro che venivano, per dare loro le glorie dell’America, le strade, le stagioni, le città dell’America. E New York era appena al di là dell’acqua, così vicina eppure così lontana per coloro che dovevano passare attraverso i controlli medici e dell’immigrazione prima di poter mettere piede sulle sue rive. Molti erano ammalati, come Tatiana, e anche peggio. La combinazione di malattie contagiose, nessuna conoscenza della lingua e nessun mestiere a volte costringeva i dottori e i funzionari dell’immigrazione a rimandare indietro quella gente. Non erano molti; un gruppetto al giorno. I vecchi genitori e i loro figli cresciuti potevano essere separati. I mariti divisi dalle mogli.

Anch’io sono stata separata. Anch’io sono divisa.

La minaccia del fallimento, la paura di tornare, il desiderio di essere ammessi, di avere il permesso, di avere un timbro era così forte che rimaneva impresso nei muri e nei pavimenti, permeava la pietra tra le finestre chiuse e crepate; dolore, desiderio e speranza riecheggiavano dai muri di Ellis e dentro Tatiana che camminava sulle piastrelle disposte a spina di pesce dei corridoi, con Anthony in braccio.

Dopo l’approvazione delle misure restrittive del 1924 Ellis Island cessò di essere il fulcro di quasi tutta l’immigrazione. Ciononostante navi cariche di immigrati continuarono ad attraccare tutti i giorni, poi ogni settimana, poi ogni mese. Gli arrivi a Ellis passarono da milioni di persone all’anno a migliaia, per ridursi a centinaia. Molti arrivavano al porto già muniti di un visto. Gli immigrati senza visto potevano essere rispediti indietro, come spesso succedeva. Erano sempre meno quelli che si arrischiavano a fare un viaggio pericoloso ed estremo solo per essere rimandati indietro. Settecentoquarantotto persone riuscirono ancora a infilarsi tra le casse di pomodori nell’anno che precedette la guerra, senza documenti e senza soldi.

Non furono cacciati.

Proprio quando si parlava di chiudere le strutture inutilizzate di Ellis Island, scoppiò la seconda guerra mondiale, e nel 1939, 1940, 1941 Ellis si trasformò in un ospedale per rifugiati e clandestini. Quando l’America entrò in guerra i prigionieri tedeschi e italiani feriti attraversavano l’Atlantico e approdavano a Ellis.

Fu in quel periodo che Tatiana arrivò.

E sentì che c’era bisogno di lei. Nessuno voleva lavorare a Ellis, neppure Vikki, la cui innata propensione alla civetteria era completamente sprecata con uomini feriti e stranieri che sarebbero tornati nel loro Paese d’origine o sarebbero finiti a lavorare come braccianti nei campi degli Stati Uniti. Vikki continuava di malavoglia a fare i turni a Ellis e preferiva di gran lunga lavorare alla clinica universitaria di New York dove i feriti, se non morivano prima, avevano la speranza di compiacere la bella infermiera, quanto meno per brevi periodi.

I tedeschi feriti continuavano ad arrivare a Ellis Island e a essere curati. Insieme agli italiani che parlavano anche in punto di morte in una lingua che Tatiana non comprendeva, ma con una cadenza e una passione che invece capiva. E poi c’erano le loro risate e le loro grida gutturali e le dita con cui la stringevano mentre venivano trasportati giù dalla nave, mentre la fissavano e sussurravano le loro speranze di vita, insieme a parole di ringraziamento. A volte, quando la stretta della sua mano non riusciva a confortarli – se non avevano malattie infettive o contagiose – Tatiana portava il bambino e lo appoggiava loro sul petto. Le mani distrutte dalla guerra avvolgevano quel corpicino addormentato da cui traevano conforto e i loro cuori battevano in pace.

Avrebbe voluto portare ad Alexander il suo bambino addormentato.

I feriti venivano divisi tra Tatiana, Brenda e Vikki. Gli italiani e i tedeschi preferivano Vikki, ma volevano essere medicati da Tatiana. Nessuno voleva Brenda, che non era né attraente né delicata. Di notte, dopo che Brenda e Vikki se ne erano andate, Tatiana camminava tra i letti con Anthony in braccio per dare loro un po’ di conforto.

C’era qualcosa nella natura contenuta e isolata di Ellis Island che in qualche modo le dava consolazione. Poteva stare con Anthony in una stanza dipinta di bianco, su un letto dalle lenzuola candide e profumate e mangiare tre pasti al giorno in mensa, risparmiando la sua porzione di carne e di burro. Poteva accudire il figlio, felice dell’importanza che aveva, delle sue dimensioni, della sua salute e del suo splendore.

Un pomeriggio Edward e Vikki la fecero sedere a un tavolo della mensa, le misero davanti una tazza di caffè e cercarono di convincerla a trasferirsi a New York. Le dissero che la città stava fiorendo durante la guerra. Era piena di locali notturni, c’erano feste, negozi di vestiti e scarpe, e avrebbe potuto affittare un appartamentino con la cucina e anche una camera tutta per lei e una per Anthony, e magari... e magari.

A migliaia di chilometri di distanza c’era la guerra. A migliaia di chilometri da lì c’era il fiume Kama, le montagne degli Urali che avevano visto tutto e sapevano tutto. E le galassie. Anche loro sapevano. Inclinavano i loro raggi che risplendevano attraverso la finestra della stanza di Tatiana a Ellis Island e le sussurravano di tenere duro. Lascia piangere noi. Tu vivi.

Gli echi le parlavano, i corridoi avevano un’aria familiare, le lenzuola bianche, l’odore del sale, la parte posteriore dei vestiti della Statua della Libertà, l’aria della notte, le luci che scintillavano al di là della baia di una città di sogni. Tatiana viveva già in un’isola di sogni, e New York non poteva darle ciò di cui aveva bisogno.

Il fuoco si è spento. La radura è buia, ma loro rimangono sulle coperte fredde. Alexander è seduto a gambe aperte e Tatiana è seduta tra di esse, la schiena appoggiata al petto di lui che la stringe tra le braccia. Guardano il cielo. Non parlano.

“Tania” sussurra Alexander baciandole la testa, “vedi le stelle?”

“Certo.”

“Vuoi fare l’amore qui? Buttiamo via le coperte e facciamo l’amore in modo che possano guardarci... così non ci dimenticheranno mai.”

“Shura...” la voce è dolce e triste. “Ci hanno visti. Lo sanno. Guarda, vedi quella costellazione lassù a destra? Lo vedi che il gruppetto di stelle in fondo forma un sorriso? Ci stanno sorridendo.” Fa una pausa. “Le ho notate molte volte, guardare al di là della tua testa.”

“Sì”, dice Alexander stringendo le braccia e la coperta intorno a lei. “Credo che quella costellazione sia nella galassia di Perseo, l’eroe greco...”

“So chi è Perseo.” Annuisce. “Quando ero una ragazzina vivevo di miti greci.” Si preme contro di lui. “Mi piace che Perseo ci sorrida mente facciamo l’amore.”

“Lo sapevi che le stelle gialle di Perseo possono essere vicine all’implosione, ma le stelle azzurre, quelle più grandi e più luminose...”

“Sono chiamate nova.”

“Sì, brillano, poi la loro luce aumenta, esplodono e sbiadiscono. Guarda quante stelle blu ci sono intorno al sorriso, Tatia.”

“Le vedo.”

“Senti i venti stellari?”

“Sento un fruscio.”

“Senti i venti stellari che portano un sussurro nei cieli, direttamente dall’antichità... nell’eternità...”

“E cosa dicono?”

“Tatiana... Tatiana... Ta...tiana...”

“Basta, ti prego.”

“Lo ricorderai? Dovunque tu sarai, se guarderai il cielo e troverai Perseo, troverai quel sorriso e sentirai il vento delle galassie che sussurra il tuo nome, saprai che sono io che ti chiamo... Che ti riporto a Lazarevo.”

Tatiana strofina il viso sul braccio di Alexander e dice: “Non potrai chiamarmi indietro, soldato. Non lascerò mai questo posto”.