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NELLA PRIGIONE DI VOLCHOV, 1943

Slonko era morto, ma il fatto non cambiò il destino di Alexander. Venne trasferito a Volchov, dove dovette confrontarsi con idioti di una specie ancora più meschina. Dal momento in cui aveva saputo che Tatiana era riuscita a sfuggire alle grinfie dell’Unione Sovietica il suo stato mentale era completamente mutato. Provava sollievo misto a un’implacabile tristezza e non sapeva più con chi prendersela. Se con la persona che lo interrogava o con la guardia che gli puntava contro il fucile. Soprattutto detestava se stesso, mentre camminava avanti e indietro in quella cella nella città di Volchov.

Lei se ne era andata, ed era tutta colpa sua. Era partita con il loro bambino in grembo. A che mese era? Avrebbe partorito presto?

A Volchov, così come a Leningrado e diversamente da Morozovo, c’erano due prigioni: una per i criminali comuni e una per i prigionieri politici. La distinzione era piuttosto sottile e Alexander in quel momento si trovava in quella per i criminali. Le celle sembravano migliori. Ricordava ancora i pochi giorni trascorsi nel carcere di Kresty dopo l’arresto, nel 1936, e prima di essere caricato sul treno diretto a Vladivostok. Le celle erano piccole e puzzolenti. Nella prigione di Volchov invece erano più grandi, dotate di due brande, un lavandino e una toilette. La porta era d’acciaio, con una finestrella che veniva aperta per introdurre il vassoio con il cibo.

Gli davano pane, avena e, a volte, un pezzo di carne di dubbia provenienza. C’era acqua e, ogni tanto, tè, inoltre gli fornivano dei buoni che poteva cambiare con tabacco o vodka.

Alexander li conservava tutti. Gliene davano due o tre al giorno e lui non li usava né per la vodka né per il tabacco. La vodka non gli piaceva, ma il tabacco era un’altra storia. Desiderava ardentemente fumare, sentire il bruciore del fumo in bocca e in gola. I polmoni imploravano una boccata di nicotina, ma non si concedeva il lusso. Il desiderio di nicotina leniva almeno in parte la sete che aveva di Tatiana, colmava la voragine lasciata dalla sua assenza. Erano passati ormai cinque mesi da quando era stato ferito alla schiena nella battaglia di Leningrado: intorno ai lembi gonfi della cicatrice finalmente rimarginata restavano soltanto terminazioni nervose doloranti.

Alexander risparmiava i buoni per il tabacco e camminava avanti e indietro. Aveva ancora l’uniforme e gli stivali. Le pastiglie di sulfamidici erano finite da tempo. La morfina era andata tutta per Slonko. Lo zaino era sparito. Non aveva più rivisto Stepanov dalla notte della morte di Slonko e non aveva potuto chiedere che ne era stato dello zaino. Conteneva solo cose futili, sostituibili, tranne una: il vestito da sposa di Tatiana. Sapeva che non sarebbe mai riuscito a guardarlo. Non ne sopportava neppure il pensiero. Ma non era questo che lo consumava, mentre camminava avanti e indietro. Sei passi da un muro all’altro, dieci passi dalla porta alla finestra. Per tutto il giorno, mentre il sole era alto nel cielo, Alexander percorreva la lunghezza della cella e, quando non riusciva più a pensare, cominciava a contare i passi. Un pomeriggio ne fece 4572. Un altro ne fece 6207. Nell’arco di tempo tra la colazione, il pranzo e la cena camminava tra le pareti della cella, lontano da Tatiana, lontano dall’oscurità. Non aveva modo di fare previsioni. Non vedeva neppure ciò che aveva davanti. Non poteva sapere cosa lo aspettava e forse, se avesse potuto in qualche modo scoprirlo, in quelle grigie giornate in cella avrebbe scelto la morte. Ma non lo sapeva e scelse la vita.

INIZIA LA GUERRA, 1939

Come membro della guarnigione di Leningrado, di stanza nella caserma Pavlov, un tempo alloggio delle guardie imperiali dello zar, Alexander era responsabile del pattugliamento delle strade, dei turni di guardia lungo la Neva e delle fortificazioni sul confine tra Russia e Finlandia. Da quando, nel marzo del 1918, l’istmo di Carelia era stato ceduto alla Finlandia, nello stesso periodo in cui Vladimir Lenin aveva venduto metà della Russia – la Carelia, l’Ucraina, la Polonia, la Bessarabia, la Lettonia, la Lituania e l’Estonia – per assicurare la sopravvivenza al nascente Stato comunista, l’esercito attendeva il momento opportuno per attaccare la Finlandia e reclamare le terre contese.

Nel 1939, quando Germania e Unione Sovietica si spartirono la Polonia, Hitler assicurò che un’eventuale campagna contro la Finlandia non sarebbe stata considerata un atto di aggressione nei confronti della Germania. A quel punto una guerra era altamente probabile e Alexander intuì anche una possibilità di fuga per lui e Dimitri. Aspettava che i tempi fossero maturi pattugliando Leningrado e giocando a carte con il suo compagno di stanza Anatolij Marazov (perché non era Marazov ad avere un padre che lavorava come secondino in prigione?) e organizzando partite di calcio. In realtà avrebbe preferito organizzare un torneo di baseball, ma in quel modo si sarebbe scoperto troppo. Solo gli americani giocavano a baseball. Una domenica al mese andava ancora a cena a casa di Mira Belov e parlava con lei dei Belov di Krasnodar che gli avevano salvato la vita senza volerlo.

Arrivò la guerra. Nonostante i comandanti insistessero, Alexander si rifiutava di chiamare quell’azione la “campagna” di Finlandia. Per lui una campagna prevedeva due adulti che andavano in giro per il Paese a stringere mani agli elettori, in attesa di vederli alle urne. Quando un territorio veniva attaccato con carri armati e missili, fucili e mortai, a costo della vita di uomini, la campagna cessava di essere tale e diventava guerra.

In guerra i comandanti studiavano le mappe e i piani di battaglia, compagnie di uomini si attrezzavano con fucili e baionette, mine e mortai, si infilavano le sigarette nei taschini e i coltelli negli stivali e poi la fanteria cominciava ad avanzare nel fango dell’immensa foresta della Carelia.

Alexander combatté la sua prima battaglia in quella foresta.

La compagnia di fanteria di Marazov rimase dietro perché Marazov, pur essendo un tiratore scelto, di certo migliore di Alexander, non era stato addestrato all’uso di artiglieria pesante. “Mi dispiace che tu vada senza di me, Belov”, disse l’ossuto e allampanato Marazov con l’inseparabile sigaretta in bocca.

“Sei il peggior bastardo che io abbia mai conosciuto”, ribatté Alexander.

Partirono in una fredda mattina di novembre, pochi giorni dopo l’inizio della guerra. La terza compagnia di artiglieria avanzava a fatica, mezzo chilometro a est del golfo di Finlandia, nella neve che attutiva la scricchiolante marcia degli uomini. Ma i rami si spezzavano sotto il peso dei piedi congelati e Komkov, uno dei compagni di stanza di Alexander, arrivò a dire che avrebbe preferito combattere nei campi aperti delle guerre napoleoniche piuttosto che in quella boscaglia. Non appena ebbe finito di pronunciare quella frase il nemico aprì il fuoco da novanta metri di distanza e loro furono costretti a nascondersi dietro gli alberi per rispondere all’attacco. Oltre a essere stati colti di sorpresa, senza il tempo di elaborare un piano di battaglia nei boschi, i soldati dell’Armata Rossa erano male armati. Erano necessari in media cinque secondi per ricaricare i fucili a colpo singolo (due per un tiratore come Marazov e otto per un soldato come Dimitri), e in quei cinque secondi i fucili semiautomatici dei finlandesi sparavano cinque proiettili e bastavano solo tre secondi per introdurre il caricatore da cinque nella culatta.

Alexander comandava centosettantanove uomini, più Dimitri. Da dietro urlò loro di cessare il fuoco, ma nessuno lo sentì. Capì presto che se non si fossero ritirati per riorganizzare le truppe sarebbero morti tutti nel giro di dieci minuti. Una granata esplose tra gli alberi sopra le loro teste e i rami in fiamme cominciarono a cadere. Uno atterrò ai piedi di Komkov e le scintille gli strinarono le sopracciglia. Alexander vide sul viso del compagno una premonizione di morte.

I finlandesi spararono ancora.

Da fermo, Alexander appoggiò il mortaio M-37 sul suo cavalletto, infilò una granata da tre chili nella bocca e avvicinò l’accendino alla miccia, che era umida e non prendeva fuoco. Provò e riprovò, imprecando tra i denti “Fottitifottitifottiti”, nella speranza che potesse servire ad accendere la maledetta miccia.

Si accese.

La granata si librò nell’aria, ma i pini erano troppo fitti. Alexander si rese conto che la foresta non era il luogo ideale per sparare missili. La bomba fischiò, esplose e diede fuoco agli alberi. I pini, non i finlandesi, subirono i danni. Gli uomini che vi si nascondevano sotto restarono incolumi.

I fucili erano di certo più efficaci, soprattutto quelli dei nemici. Partivano le raffiche, seguite dai lamenti dei soldati sovietici feriti. Erano caduti in una trappola.

All’improvviso, Alexander vide Komkov gesticolare e indicargli qualcosa. Dalla sua copertura tra gli alberi sbirciò e batté le palpebre. Non riuscì a credere ai propri occhi.

Dimitri strisciava verso di loro senza fucile, né zaino né elmetto. Stava tornando indietro dalla prima linea e la neve sotto la pancia non sembrava macchiata di sangue. Non era ferito.

In tono incredulo, reso più pacato dallo scetticismo, Alexander urlò: “Dimitri! Che stai facendo? Torna indietro”.

Komkov fu più energico. “Soldato!” gridò. “Che cazzo pensi di fare? Alzati!”

Dimitri ignorò il superiore e continuò a strisciare finché non arrivò vicino ad Alexander.

“Alzati, Černenko”, gli disse mentre Komkov correva verso di loro con il fucile spianato.

“In piedi, soldato!” ripeté Komkov assestandogli un calcio nelle costole. Dimitri si raggomitolò, ma non si alzò da terra.

Dopo aver lanciato un’occhiata furibonda in direzione di Alexander, Komkov appoggiò la bocca del fucile carico alla testa di Dimitri. “Soldato, alzati immediatamente da terra o fra qualche secondo questa terra sarà la tua tomba.”

Dimitri non si mosse. Prima che Komkov sparasse, Alexander spostò il fucile con un calcio. “Dimitri, obbedisci agli ordini del tuo superiore e alzati”, ripeté in tono più minaccioso.

“Belov, non ho intenzione di passarci sopra! Te l’avevo detto. È un cacasotto! Černenko! Alzati, maledetto codardo testa di cazzo!”

Dimitri scosse la testa bofonchiando: “Ho perso l’elmetto e il fucile”.

“Puoi essere fucilato per aver perso l’arma”, disse Alexander. “Hai abbandonato il tuo compagno?” chiese a bassa voce, come se non riuscisse a credere a quelle parole.

“Solo dopo che è morto. E lui aveva l’elmetto”, rispose Dimitri a testa scoperta.

“Morirai anche tu, Černenko, se non ti alzi in questo preciso istante e non ritorni dal tuo sergente, con la tua squadra!” urlò Komkov.

“Komkov!”

“Non ci andrò”, mormorò Dimitri ancora a pancia a terra nella neve.

“Io gli sparo, Belov”, minacciò Komkov puntando il fucile. “Sono costretto. Non posso lasciare che metta in pericolo i miei uomini.”

“Aspetta! Dimitri, alzati e vieni con me. Ti accompagno io.” Komkov, sorpreso, abbassò l’arma. “Ma che cavolo fai? Alexander, non puoi.”

“Posso e lo farò. Qualcuno deve dire agli uomini di cessare il fuoco e di ritirarsi, altrimenti moriranno tutti e rimarremo senza munizioni. Ci andrò io, e Dimitri verrà con me.”

“No! Non puoi. Manda Dimitri con l’ordine di cessare il fuoco.”

Nonostante la tensione fra i tre uomini, o forse proprio a causa della situazione, Alexander rise. “Cosa ne pensi, soldato Černenko? Torneresti indietro a dire agli uomini di cessare il fuoco?” Pausa. “Temo di no. Vado io.”

“E chi comanderà i tuoi uomini se ti sparano?” disse Komkov.

“Tu, Sergeij.” Alexander fece il saluto. “Forza, Dimitri, prima che io cambi idea e il tenente Komkov ti spari.”

Černenko non accennava ad alzarsi. “Non posso”, ripeté. “Puoi e lo farai. Alzati prima che sia io a spararti.”

Dimitri non si mosse. Esasperato Alexander lo prese per le braccia e lo sollevò. “Che cazzo ti prende? Siamo in guerra, Dima!”

“No. No. Io non voglio essere qui.”

“E noi lo vogliamo? Va’ a cercare l’elmetto e il fucile. Non hai sentito? Sto ordinando agli uomini di ritirarsi, te compreso. Ma prima devi andare laggiù, e poi ti ritirerai quando ti darò l’ordine, non quando lo decidi tu.”

Scuotendo la testa con maggior vigore e a occhi chiusi, Dimitri parlò con voce fioca. “Tu non capisci. Non posso. Non posso andare là, non posso farmi sparare, non posso.” Tremava. Cominciò a vomitare.

Alexander lo lasciò andare e si allontanò, guardandolo con sorpresa e sospetto. Lui e Komkov si scambiarono un’occhiata. Komkov non si era sbagliato sul conto di Dimitri, ma Alexander non se ne era reso conto. Forse perché giudicava gli altri uomini prendendo se stesso come parametro. Se lui era in grado di portare la croce, dovevano esserlo anche gli altri. Se era in grado di alzarsi, combattere, sparare, correre, saltare nel Volga o basare un’intera vita su una menzogna, anche gli altri uomini potevano farlo. All’età di vent’anni non riusciva a capire il motivo per cui Dimitri era tornato indietro strisciando e ora non voleva alzarsi.

Appoggiato a un pino, in preda a un tremito convulso, Dimitri non la pensava certo nello stesso modo. “Non credo che Komkov mi sparerà”, sussurrò.

“È qui che ti sbagli, figlio di puttana!” urlò Komkov.

“Komkov! Non ho tempo da perdere con questa storia. I nostri uomini stanno morendo. Lo lascio qui con te. Tornerò.” Anche lui pensava che Komkov non avrebbe sparato, ma non aveva intenzione di spendere altre parole sull’argomento.

Con il fucile spianato corse più veloce che poteva attraverso il bosco, fino ad arrivare abbastanza vicino agli uomini sparsi tra gli alberi. Non stavano conquistando terreno: si stavano semplicemente nascondendo e sarebbero potuti rimanere lì a sparare alle lepri.

Passando tra i cadaveri Alexander raccolse tutti i fucili e gli elmetti che poté mentre gridava ai soldati di cessare il fuoco e di aiutare i feriti nella ritirata.

Fuoco dei finlandesi.

Gli uomini si dispersero.

Alexander trovò il sergente Kašnikov e urlò: “Cessate il fuoco! Non dobbiamo perdere altri uomini e sprecare proiettili! Ne hai colpito almeno uno?”

“È difficile dirlo”, rispose Kašnikov sanguinante e senza fiato.

I soldati smisero di sparare e si ritirarono nella foresta, trascinando i compagni feriti e con i cadaveri sulle spalle a far da scudo.

Dimitri era seduto sulla neve, appoggiato a un pino. Komkov, davanti a lui, urlava infuriato.

“Lascia perdere, Komkov”, intervenne Alexander radunando tutti i sergenti intorno a sé. Chiese loro di contare gli uomini rimasti.

“Non contiamo questo bastardo di cacasotto”, disse Komkov. “È inutile. E pretendi anche di chiamarti soldato?”

“No”, disse Dimitri. “Io sono un cittadino.”

“Sei una femminuccia!” urlò Komkov.

“Basta così”, sbraitò Alexander. “La ritirata non è un’opzione. Verrà anche lui e combatterà. Lascialo stare e occupiamoci di cose più importanti.”

Senza contare Černenko erano rimasti settanta uomini in grado di combattere. Settanta su centottanta. Settantanove erano morti, compreso il medico che era rimasto nel bosco, con la valigetta piena di bende e morfina. Altri trenta erano stati colpiti. Erano ancora vivi, ma non si reggevano in piedi e non c’era nessuno in grado di curarli. La notizia di tutte quelle perdite prese alla sprovvista Alexander. Avrebbe voluto sedersi anche lui nella neve, con la schiena appoggiata a un pino. Invece si allontanò di qualche passo, il tempo di finire la sigaretta e tornò.

Divise i soldati rimanenti in due gruppi da trentacinque ciascuno. “Ricordatevi. Mentre noi stiamo facendo questo, secondo voi cosa fanno i finlandesi? Si stanno radunando anche loro. Solo che hanno più mortai, bombe più grosse e fucili migliori. Dobbiamo muoverci il più velocemente possibile. È l’unica speranza che abbiamo. Ecco cosa faremo. Io lancerò un fumogeno per distrarli. Kašnikov, tu aspetta il sibilo della bomba e non appena lo senti, da’ ordine ai tuoi di correre e sparare. Non fermatevi e non smettete di sparare. Non smettete di correre per ricaricare il fucile. Caricatelo in corsa e sparate. Ricaricare, correre, sparare. Capito? Nel frattempo Komkov e io continueremo a bombardare, manderemo il secondo gruppo e poi partiremo anche noi. Tutto chiaro?”

Kašnikov e Popučev annuirono.

“Ma ricordatevi”, continuò Alexander, “quando arriveremo alla loro linea di difesa, tutti quelli che non avremo ucciso saranno lì ad aspettarci. Cercate di prendere la mira, altrimenti sarete costretti a tirare fuori coltelli e baionette. Chiaro? Siate forti e copritevi le spalle l’un l’altro. D’accordo. Tutti pronti in posizione.”

Kašnikov e i suoi sarebbero partiti per primi, ciò significava che Dimitri sarebbe andato con loro. Černenko era in piedi, ma scosse la testa e disse che non lo avrebbe fatto. Preferiva andare con il secondo gruppo, al comando di Popučev.

“Černenko!” tuonò Kašnikov. “Non è una scelta che dipende da te. È un ordine del tenente Belov. Non puoi scegliere quando andare! Tu resti con la squadra e con i tuoi compagni, ci siamo capiti?”

Dimitri non si mosse.

Kašnikov era senza parole. Gli altri soldati abbassarono la testa.

Komkov perse la pazienza. Colpì Dimitri al petto con il calcio del fucile e quando cadde a terra continuò a colpirlo, alle costole e al petto, urlando e bestemmiando per la rabbia. Sollevò il fucile e lo colpì in faccia, spaccandogli il naso. Fu fermato da Alexander che, senza aprire bocca, allontanò il fucile dalla faccia di Dimitri. Komkov si fece indietro. Černenko si girò e sputò sangue. Si alzò senza pulirsi la faccia e borbottò: “D’accordo. Andrò”. Ancora tremante prese il fucile. Alexander dovette trattenere Komkov, che ormai aveva perso il controllo. Non avrebbe sparato a Dimitri, ma l’avrebbe picchiato a morte.

“No”, disse Alexander, senza fiato. “A lui penserà il tribunale militare e verrà giudicato come merita. Cerchiamo di rimanere in vita. Tutti pronti, soldati! Preparatevi per la battaglia vera e lasciate perdere queste stronzate.”

Dimitri si girò verso Alexander con uno sguardo di rabbia e rimprovero sul volto tumefatto. Lo vedi cosa significa essere soldato, dicevano i suoi occhi azzurri. Saresti andato a combattere anche tu, invece di restare nascosto dietro il mortaio, se solo non avessi deciso di separarti da me. È per questo che non hai voluto arruolarti? Per non essere costretto a combattere?

Alexander ne aveva avuto abbastanza. “Soldato Černenko, non sei in condizioni di affrontare un combattimento. Sergente Kašnikov, legalo a un albero.”

“Legalo a un albero”, aggiunse Komkov, “ma per il collo.”

“Basteranno le mani”, disse Alexander.

Kašnikov gli legò le mani dietro la schiena con un cappio e poi lo attaccò a un albero.

“Io parto. Kašnikov, Komkov, siete pronti?” Alexander afferrò il fucile, prese posizione alle spalle della squadra e disse: “Quando darò l’ordine di usare il mortaio, tu Komkov spara, poi noi partiremo. Sentito?”

“Forte e chiaro, tenente”, rispose Komkov.

Alexander intonò l’urlo di battaglia sovietico: “Urrà! Urra! Urra!”

Komkov lanciò la bomba fumogena e gli altri cominciarono a correre, capeggiati da Kašnikov. Poi sparò una granata e un’altra ancora e i trentacinque uomini di Alexander si lanciarono attraverso il bosco e corsero per cinquanta metri sparando, ricaricando e sparando. Persero sette uomini, ma arrivarono alla linea di difesa finlandese in venti secondi. Dopo altri venti anche il secondo gruppo aveva raggiunto la linea. Ora che anche i suoi uomini erano nella mischia, Komkov smise di sparare granate e raggiunse la zona di combattimento.

Alla fine i sovietici batterono i finlandesi. Qualche minuto più tardi Alexander contò i corpi dei finlandesi. C’erano solo venti soldati nemici nel bosco. Tutti morti. La cosa in sé era positiva, ma per ucciderli erano stati sacrificati centocinquantacinque soldati dell’Armata Rossa. In ventiquattro tornarono a Lisij Nos con il tenente Belov. Ventiquattro più Dimitri.

Komkov non fece ritorno. Quando i rinforzi arrivarono nel bosco il suo corpo, insieme a quello di altri centocinquantaquattro soldati, fu trascinato per cinquecento metri e calato nel golfo di Finlandia attraverso un buco nel ghiaccio.

Alexander era nell’ospedale da campo con alcuni punti di sutura in testa e le costole fasciate. Marazov andò a trovarlo.

“Cosa faremo adesso senza Komkov?” domandò. Non sorrideva e non fumava.

Alexander fissava il soffitto. “Troveremo un altro compagno.” Rimasero in silenzio.

“Ho sentito di quel bastardo di Černenko”, continuò Marazov. “Komkov avrebbe dovuto sparargli. Adesso c’è una certa confusione circa la sua azione sul campo. Nessuno l’ha visto abbandonare il compagno e qualcuno ha addirittura detto di averlo visto mentre cercava di aiutare un ferito a ritirarsi dalla linea del fuoco. Dal momento che sono tornati indietro così pochi uomini, non ci sarà nessun tribunale militare per lui. Ci serve per la prossima battaglia. Tu che ne pensi?”

“Non ci serve”, rispose Alexander. Non voleva essere coinvolto. Il loro rapporto di amicizia si era ulteriormente deteriorato.

“Perché non hai lasciato che Komkov sparasse a quel bastardo?”

“Avrebbe abbattuto il morale degli altri uomini. Sarebbe stato frutto della rabbia, non della giustizia.”

“Sì, ma ora che il povero Komkov è morto, indovina a chi è stato assegnato il plotone di Kašnikov?”

“Sei fortunato. Kašnikov è un ottimo sergente.”

“Sì, ma quel bastardo di Černenko!”

Alexander chiuse gli occhi e sospirò. “Non preoccuparti di lui. Credo che abbia imparato la lezione. Non darà più problemi.” Allora lo credeva ancora possibile.