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FUORI DA COLDITZ, APRILE 1945

In aprile, dopo tre giorni di combattimenti, gli americani liberarono Colditz, o almeno così si diceva dato che, pur avendo sentito gli spari, Alexander vide soltanto un manipolo di americani nel cortile. Riuscì ad avvicinarne un gruppetto con la scusa di una sigaretta e, mentre l’accendeva, disse a un soldato di essere americano e di chiamarsi Alexander Barrington. Nel caso in cui la sua storia fosse stata verificata, avrebbe potuto aiutarlo? Il soldato americano scoppiò a ridere e disse: “Sì, e io sono il re d’Inghilterra”. Alexander stava per replicare quando Ouspenskij si avvicinò per chiedere una sigaretta.

Alexander sperò di poter avere un’altra occasione, ma non fu così, perché il mattino dopo la liberazione alcuni ufficiali sovietici – un generale, due colonnelli, un viceministro degli Esteri, o qualcosa del genere – insieme a un centinaio di soldati entrarono a Colditz per prelevare i sette connazionali “che si sarebbero uniti ai fratelli per sfilare vittoriosi nella Germania sconfitta”.

Furono messi su un treno. Un intero treno per sette persone? si chiese Alexander, ma scoprì che il treno era pieno di sovietici. Non erano tutti soldati: c’erano anche operai e uomini residenti in Polonia. Erano migliaia. Un operaio disse loro che, quando era stato arrestato, viveva con la famiglia, la moglie e tre figli, in Baviera. La stessa cosa valeva per molti altri. “Anch’io ho una famiglia a carico. Una madre, due sorelle e tre nipotine, dopo la morte di mio fratello.” Dov’erano i parenti? chiese Alexander. “Abbiamo dovuto lasciarli lì”, rispose l’uomo.

“Perché non li avete portati con voi?” indagò Ouspenskij, incatenato ad Alexander.

L’operaio non rispose.

Il treno attraversò lentamente la Germania centrale diretto verso ovest. La maggior parte dei segnali stradali era stata distrutta, perciò era impossibile capire dove si trovassero. I passeggeri ebbero la sensazione di aver viaggiato per centinaia di chilometri. Alexander vide un cartello che diceva Göttingen, 9. Dov’era Göttingen?

Il treno si fermò e dovettero scendere. Dopo aver camminato per due ore, si ritrovarono in quello che sembrava un campo di prigionia deserto. Gli uomini dell’NKGB – fu allora che Alexander capì che non erano soldati dell’Armata Rossa, perché i soldati dell’Armata Rossa erano incatenati e in fila con loro – requisirono il campo e lo definirono di transito.

“Transito per dove?” chiese Ouspenskij. Nessuno gli rispose.

Il nome del campo fu convertito in campo di selezione e identificazione.

Passarono lì le ultime due settimane dell’aprile 1945, circondati da filo spinato, riflettori piazzati lungo il perimetro e torrette di guardia costruite in tutta fretta. Seppero che la guerra era finita e che Hitler era morto. Il giorno dopo la resa della Germania, i campi intorno al filo spinato elettrificato furono minati. Alexander e Ouspenskij lo capirono perché videro almeno cinque sovietici – fra cui l’operaio – fuggire e morire.

“Che cosa sanno che noi non sappiamo?” chiese Ouspenskij sospettoso mentre, insieme ad altri, guardava i corpi dei fuggiaschi che venivano gettati in una fossa comune.

“Non solo”, rispose Alexander. “Che cosa li induce ad attraversare un campo minato invece di restare in un innocuo campo di transito?”

“Non vogliono tornare a casa”, intervenne un altro.

“Sì, ma perché?” domandò Ouspenskij.

Alexander si accese una sigaretta e rimase zitto.

Si chiese perché il campo fosse gestito in base a regole militari, nonostante la presenza di così tanti civili. C’erano la sveglia, il silenzio, il coprifuoco, le ispezioni degli alloggi e l’assegnazione dei doveri. Era tutto molto strano e sconcertante.

 

Qualche giorno dopo, il viceministro degli Esteri Ivan Skotonov, mandato direttamente da Mosca, parlò agli uomini, che furono costretti a schierarsi. Era un ventoso giorno di maggio e la voce di Skotonov si sentiva appena, perciò gli diedero un megafono. “Cittadini! Compagni!” attaccò. “Fieri figli della Russia! Ci avete aiutato a sconfiggere un nemico come la nostra grande nazione non aveva mai conosciuto! Il vostro Paese è fiero di voi! Il vostro Paese vi ama! Il vostro Paese ha bisogno di voi per la ricostruzione, per far tornare grande la terra che il nostro Magnifico Leader e Compagno Stalin ha salvato per noi. Il vostro Paese vi chiama. Tornerete con noi e il vostro Paese vi accoglierà come eroi e vi ricoprirà di applausi!”

Alexander ripensò all’operaio che viveva in Baviera, che aveva lasciato la moglie e i figli e aveva attraversato un campo minato per tornare da loro.

“E se non volessero?” qualcuno urlò.

“Sì, abbiamo una vita a Innsbruck, perché dovremmo lasciarla?”

“Perché siete cittadini sovietici”, urlò Skotonov in tono affabile. “Non appartenete a Innsbruck, ma al vostro Paese.”

“Io vengo dalla Polonia”, replicò l’uomo. “Da Cracovia. Perché dovrei tornare?”

“Quell’area della Polonia viene contesa da secoli e l’Unione Sovietica ha decretato che fa parte della nostra Madrepatria.”

Quella sera, dopo il discorso, ventiquattro uomini tentarono la fuga. Uno di loro riuscì persino ad attraversare illeso il campo minato per poi essere freddato dal proiettile di una sentinella. “È stato ferito, non ucciso”, assicurò Skotonov alla folla cupa il mattino dopo. Ma l’uomo non fu più visto.

Nel campo c’erano tre categorie: i rifugiati delle terre occupate dalla Germania, come Polonia, Romania, Cecoslovacchia e Ucraina; quelli che lavoravano nei campi di lavoro, fatti prigionieri dai tedeschi per la loro macchina bellica; i soldati dell’Armata Rossa come Alexander e Ouspenskij.

Questi tre gruppi furono divisi alla fine di maggio, alloggiati e sfamati separatamente. A poco a poco, i rifugiati cominciarono a uscire dal campo e poi fu la volta dei prigionieri.

“Sempre di notte, hai notato?” disse Alexander. “La mattina non ci sono più. Vorrei riuscire a restare sveglio fino alle tre del mattino. Ho la sensazione che vedremmo un bel po’ di movimento,”

Durante la passeggiata mattutina, incontrò nel cortile un prigioniero dei campi di lavoro che gli chiese una sigaretta e gli disse: “Hai sentito? Cinque degli uomini con cui ho passato gli ultimi quattro anni stanotte sono scomparsi. Li hai sentiti? Sono stati portati fuori e giustiziati nell’area comune”.

“Per cosa?”

“Per tradimento alla Madrepatria. Per aver lavorato con il nemico.”

“Forse avrebbero dovuto spiegare loro di essere stati costretti a farlo.”

“Ci hanno provato. Ma se non volevano lavorare per i tedeschi, allora perché non sono fuggiti?”

“Forse potremmo provarci noi”, rispose Ouspenskij. “Eh, capitano?”

Un polacco alle loro spalle scoppiò a ridere e disse: “Non c’è via di fuga. Dove volete andare?” Alexander e Ouspenskij si voltarono. Nel cortile si era riunita una piccola folla. Il polacco strinse loro la mano e si presentò. “Lech Markiewicz. Lieto di conoscervi. Niente fuga, cittadini. Lo sapete chi mi ha consegnato ai sovietici a Cherbourg, in Francia?”

Loro attesero che proseguisse.

“Gli inglesi.”

“E sapete chi ha consegnato il mio amico Vasia ai sovietici, a Bruxelles? I francesi.”

Vasia annuì.

“E sapete chi ha consegnato Stepan ai sovietici, a Ravensburg, in Baviera, a dieci chilometri dal lago di Costanza e dalla Svizzera? Gli americani. Proprio così. Gli alleati collaborano con i sovietici. Nel campo di transito in cui stavo prima di questo, a Lubecca, a nord di Amburgo, c’erano rifugiati della Danimarca e della Norvegia. Non soldati come voi né prigionieri dei campi di lavoro come me, ma rifugiati, privati della casa dalla guerra, in cerca di un posto in cui mettere radici a Copenaghen. Sono stati tutti riconsegnati ai sovietici. Perciò non parlatemi di fuga. Il tempo della fuga è passato. Non c’è più nessun posto in cui andare. Tutta l’Europa apparteneva a Hitler. Ora, mezza Europa appartiene all’Unione Sovietica.”

Rise e si allontanò, sottobraccio a Vasia e a Stepan.

Quella notte, però, Lech Markiewicz, un elettricista, mandò in corto circuito il filo spinato e fuggì. Il mattino dopo non lo videro e nessuno seppe che cosa ne era stato di lui.

I convogli arrivavano ogni notte a centinaia per prelevare gli uomini, e di giorno il campo era gestito come una stazione intermedia per chissà dove. I prigionieri venivano nutriti male, potevano lavarsi una volta alla settimana, erano regolarmente rasati e spidocchiati. Eppure, a poco a poco, arrivavano nuovi russi e quelli vecchi sparivano.

Una notte di fine luglio Alexander e Ouspenskij furono svegliati con gli altri uomini del loro alloggio, costretti a prendere le loro poche cose e portati nel retro del campo. Li aspettavano tre camion. Erano tutti in coppie. Alexander fu incatenato a Ouspenskij. Vennero condotti lontano dal campo, secondo Alexander in una stazione ferroviaria. E aveva ragione.