28

IL PONTE DI SANTA CROCE, LUGLIO 1944

A Lublino le truppe di Alexander si riposarono e si trovarono così bene che decisero all’unanimità di restare. A differenza dei villaggi distrutti, bruciati e saccheggiati della Bielorussia, Lublino era quasi intatta. Fatta eccezione per qualche casa bombardata, la città era bianca, pulita e calda, piena di stradine e piazzette di stucco giallo in cui la domenica c’erano i mercati dove si vendeva di tutto: frutta e prosciutto, formaggio, panna acida! E cavoli (gli uomini di Alexander stettero alla larga dai cavoli). In Bielorussia avevano trovato pochissimo bestiame; lì, succulenta carne di maiale, già marinata e affumicata, che veniva venduta in cambio di zloty. E il latte fresco, il formaggio e il burro dimostravano che da qualche parte c’erano mucche da latte. Vendevano anche uova e polli. “Se questa è l’occupazione tedesca, preferisco di gran lunga Hitler a Stalin”, sussurrò Ouspenskij. “Nel mio villaggio, mia moglie non riesce a tirare fuori le cipolle dal terreno senza che i kolkhoz arrivino a prendersele. E le cipolle sono l’unica cosa che coltiva.”

“Avresti dovuto suggerirle di coltivare patate”, replicò Alexander. “Guarda le patate di qui.” I proprietari delle bancarelle vendevano orologi, abiti da donna e coltelli. Alexander cercò di comprarne tre, ma nessuno accettava i rubli. I polacchi odiavano i tedeschi, ma i sovietici erano quasi altrettanto malvisti. Si sarebbero sottomessi a chiunque, pur di scacciare i tedeschi dalla loro terra, ma avrebbero preferito evitare i russi. Dopotutto, i sovietici si erano spartiti la Polonia con la Germania nel 1939 e sembrava proprio che non avessero nessuna intenzione di restituire la loro metà. Perciò la gente era scettica e diffidente. I soldati non potevano comprare niente a meno che non avessero oggetti da barattare. Ovunque andassero, nessuno accettava il loro inutile denaro russo. Il Ministero del Tesoro moscovita doveva smettere di stampare carta senza valore. Alexander riuscì a persuadere una vecchia signora a vendergli tre coltelli e un paio di occhiali per il sergente Verenkov per duecento rubli.

 

Dopo una cena a base di prosciutto, uova, patate e cipolle, il tutto innaffiato da abbondante vodka, Ouspenskij confidò euforico ad Alexander di aver trovato “la mensa delle puttane”, dove sarebbe andato con tutti gli altri, e gli chiese se avesse voglia di seguirli.

Alexander rifiutò.

“Avanti, signore. Dopo quello che abbiamo visto a Majdanek ci serve un’iniezione di ottimismo. Venga. Si faccia una bella scopata.”

“No.”

“Che farà?”

“Una dormita. Tra qualche giorno dovremo sfondare le teste di ponte sulla Vistola. Bisognerà essere in forma.”

“Mai sentito parlare della Vistola.”

“Vai al diavolo.”

“Mi faccia capire... per via di un fiume e di un futuro incerto oggi non vuole farsi una scopata?”

“Esatto. Dormirò perché ne ho bisogno.”

“Con tutto il rispetto, capitano, in qualità di suo uomo di fiducia passo con lei tutto il giorno e so cosa le serve. Le serve una fica proprio come a noi. Venga con me. Quelle ragazze accettano il nostro denaro.”

Alexander sorrise e replicò: “Certo, vista la fortuna che hai avuto oggi. Non sei nemmeno riuscito a comprarti un orologio. Che cosa ti fa pensare che riuscirai a comprarti una donna? Ci sputerà, sui tuoi rubli.” Seduto davanti alla tenda, lustrava i suoi coltelli nuovi.

“Venga con noi.”

“No, andate senza di me. Al ritorno, mi racconterete tutto.”

“Capitano, lei è come un fratello per me, ma non le permetterò di vivere di riflesso. Forza! Ho sentito che ci sono cinque splendide ragazze polacche che staranno con noi per trenta zloty.”

Alexander rise. “Tu non hai trenta zloty!”

“Ma lei sì. Ne ha sessanta.”

“No, forse domani. Stasera sono a pezzi.”

Alexander non riusciva a essere sereno. Soltanto in mezzo alla battaglia, quando era al comando del carro armato, aspettava il momento giusto per attaccare o uccideva esseri umani, solo allora riusciva a dimenticare.

Bagnò un asciugamano in un secchio pieno d’acqua, si distese sul letto di fortuna e si coprì testa e viso. Ecco, così. L’acqua fredda gli scivolò sul cuoio capelluto, sulle guance, sul collo. Chiuse gli occhi. Ecco, così.

“Shura, sdraiati qui, sulla coperta.”

Alexander obbedisce con gioia. È un tranquillo pomeriggio, caldo e assolato. Lui ha appena finito di tagliare la legna, lei di leggere. Vorrebbe fare una nuotata. I giorni sono meglio delle notti. I giorni sono ancora il presente. Le notti portano con loro un nuovo giorno. Un giorno in meno.

“Tutta quella lavorata ti ha spossato?”

“No, sto bene.”

“Sei stanco?”

Non sa quale risposta lei si aspetti. “Mmm... sì. Un po’.”

Con un sorriso, Tatiana si lascia cadere a cavalcioni su di lui e gli immobilizza le braccia sopra la testa. “Bene”, dice.

Il suo profumo penetra dentro Alexander. Lui reprime l’impulso di baciarle la clavicola. “E ora?” le chiede.

“Ora devi cercare di fuggire.”

“Dove vuoi che vada?” domanda Alexander, spingendola sulla coperta e alzandosi in piedi.

Lei scuote la testa. “Non ero pronta. Ritorna giù.” Si sforza di non ridere. Invano.

Lui obbedisce con gioia.

Tatiana gli immobilizza di nuovo le braccia sulla testa, senza però riuscire a circondargli i polsi. Il suo profumo risveglia i sensi di Alexander. Il giocoso sforzo di Tania, tutta infervorata e impavida, i salti sulla sua schiena, per tenerlo fermo a terra, i suoi tentativi di lottare con lui, i suoi sfrenati giochi nell’acqua lo eccitano, la sua timida femminilità, infantile ed erotica, sono un perpetuo afrodisiaco per lui.

“Sei pronta?” le chiede fissando il viso concentrato. Lei gli unisce i polsi sotto la testa.

“Brava”, dice, “e adesso?”

“Sto pensando.”

Alexander chiude gli occhi.

Le gambe di Tatiana gli stringono il torace.

“Pronta?” le domanda.

Lei fa un profondo respiro. “Sì.”

Prima che lei riesca ad aggiungere altro, Alexander la capovolge, ma questa volta non si alza.

Tatiana si mette a sedere e gli chiede imbronciata: “Dove sbaglio? Perché non riesco a immobilizzarti?”

Lui la fa sdraiare sulla coperta. “Forse perché sei alta un metro e mezzo e pesi quarantacinque chili mentre io sono alto un metro e novanta e peso novanta chili?” Quindi le appoggia la grande mano scura e sporca sulla gola di alabastro.

Tatiana si scansa e ribatte testarda: “No, innanzitutto sono alta un metro e cinquantasette, e inoltre dovrei riuscire – lo conferma anche la fisica – a mettere il mio peso su di te nel posto giusto per immobilizzarti.”

Alexander si sforza di restare serio. “D’accordo. Fammi provare.” A cavalcioni su di lei, le blocca i polsi sulla testa. E sorride. “Mi è permesso baciarti, durante questo gioco?”

“Assolutamente no”, proclama Tatiana.

“Mmm”, commenta lui. Le fissa il viso, colto da un irresistibile desiderio di baciarla. China la testa...

“Shura, questo non fa parte del gioco.”

“Non m’importa”, risponde lui baciandola. “Un bel bacio ci sta proprio bene. Sto rivedendo le regole.”

“Come fai a poker, giusto?”

“Non ricominciare con la storia del poker.”

Tatiana cerca di non ridere. “Sei pronto?”

Alexander la guarda. “Sono pronto.”

Lei tenta di muoversi, ma non ci riesce. Le costole sono immobilizzate tra le ginocchia di lui. Le gambe si dimenano dietro di lui, sollevate al punto da poterlo colpire sulla schiena. Agita la testa a destra e a sinistra mentre cerca di sollevare il busto e liberarsi i polsi. “Aspetta”, ansima. “Credo di aver capito come fare.”

“Ho un’ idea”, dice Alexander. “Ti terrò i polsi con una mano sola. Pensi che andrà meglio?” Con la mano destra le stringe i polsi al di sopra della testa.

“Pronto?”

Lui ride. “Sì, piccola.” Cerca di guardarla negli occhi, ma Tatiana evita il suo sguardo. Lui sa che se i loro occhi s’incontrano quel gioco finirà. Lei riconosce il suo sguardo non appena lo vede, e le sfugge un gemito anche se sta ancora lottando con lui. Soprattutto perché sta ancora lottando con lui.

Dimena le gambe alle sue spalle, ma non riesce a liberarsi i polsi. Con la mano libera, Alexander le accarezza la coscia.

“Non vale”. ansima lei, lottando con più forza.

“Non vale?” La mano di lui si fa più insistente.

“No, questo non vale.”

“Avanti, scricciolo”, dice Alexander baciandole le labbra, le lentiggini e gli occhi. “Mostrami cosa sai fare.”

Tatiana gli porge la guancia. “Credo di aver capito dove sbaglio”. replica. “Riproviamo.”

La mano di Alexander si stringe attorno ai polsi. “Forza.”

Lei emette un gemito impercettibile. Ma Alexander lo sente.

“Lasciami andare”, sussurra Tatiana.

“Credevo che avessi capito dove stai sbagliando.”

“Sì, ma tu devi lasciarmi andare e sdraiarti.”

Alexander obbedisce, questa volta con riluttanza.

Tatiana s’inginocchia tra le sue gambe. Invece di afferrargli le mani, gli toglie i pantaloni e si mette a cavalcioni su di lui, sollevandosi il vestito. “Adesso...” mormora, bloccandogli i polsi sulla testa e accostando le labbra al suo viso, “avanti, soldato.”

Alexander non si muove. Tatiana si muove. Su e giù.

“Avanti”, ripete in un soffio. “Che stavi dicendo? Mostrami cosa sai fare. Cerca di liberarti.”

Alexander emette un gemito e Tania lo bacia. “Oh, marito mio...” lo chiama dolcemente a ritmo con il suo cuore, a ritmo con il suo movimento. “Stavi dicendo...”

“Niente.”

“Su, dimmi chi ha il potere.”

Lui chiude gli occhi. Tatiana si solleva per ricordargli che la sua sottomissione – la fonte di tutta la forza di Alexander – è un privilegio, non un diritto. Circondato da lei, lui l’accoglie come un elisir di cui ha bisogno per continuare a vivere.

Più tardi, lei gli tiene ancora stretti i polsi e lui è ancora immobile. Solo il cuore pulsa, a centosessanta battiti al minuto.

“Lo sapevo che stavo sbagliando, prima”, dice lei ridendo e leccandogli la guancia. “Sapevo che c’era un modo per batterti.”

“Ti sarebbe bastato chiedermelo. Te l’avrei detto io.”

“Perché avrei dovuto farlo? Dovevo capirlo da sola.”

“Ottimo lavoro, Tatiasha”, mormora Alexander. “L’hai capito soltanto adesso?”

 

Nel cuore della notte, Alexander – con l’asciugamano umido ancora sul viso – fu svegliato dal sussurro allegro di Ouspenskij che, completamente sbronzo, lo scosse e gli prese la mano, per poi posarla su qualcosa di morbido e caldo. Ad Alexander bastò un attimo per riconoscere la morbidezza e il calore di un grosso seno, di una donna non del tutto sobria che gli alitava addosso un respiro bollente. Inginocchiata accanto al suo letto, lei gli disse qualcosa in polacco, che suonò come: “Svegliati, cowboy, il paradiso è qui”.

“Tenente”, disse Alexander in russo, “domani passerai guai.”

“E invece mi pregherà come se fossi il suo dio, domani. È già stata pagata. Se la spassi.” Ouspenskij abbassò il lembo della tenda e scomparve.

Alexander si mise a sedere e, dopo aver acceso la lampada a cherosene, vide una giovane polacca sbronza e attraente. Per un minuto circa si guardarono, lui con aria stanca, lei con cordialità. “Parlo russo”, disse la ragazza. “Corro dei rischi a stare qui?”

“Sì”, rispose Alexander. “È meglio che tu te ne vada.”

“Oh, ma il tuo amico...”

“Non è un mio amico. È un acerrimo nemico. Ti ha portata qui per avvelenarti. È meglio se te ne vai in fretta.”

L’aiutò a mettersi a sedere. I suoi seni ondeggianti trabordavano dal vestito sbottonato. Alexander aveva addosso soltanto le mutande e notò che lei lo scrutava con ammirazione. “Capitano”, bofonchiò, “non dirmi di essere tu, il veleno. A guardarti, non lo sembri affatto.” Allungò la mano. “Neanche a toccarti, lo sembri.” Si fermò e poi sussurrò: “Mettiti a tuo agio, soldato”.

Alexander si allontanò da lei e s’infilò i pantaloni, ma la donna lo fermò e cominciò ad accarezzarlo. Con un sospiro, lui le scostò la mano con dolcezza. O fu forse riluttanza? “Come ti chiami?”

“Come vuoi tu. Avevi una donna, vero? Si vede. Ti manca. Sono stata con molti uomini come te.”

“Me l’immagino.”

“Si sentono meglio, dopo essere stati con me. Sollevati. Su, qual è la cosa peggiore che può succedere? Che ti piaccia?”

“Sì”, rispose Alexander. “È la cosa peggiore che possa succedere.”

Lei allungò la mano e gli mostrò un preservativo. “Avanti, non c’è nulla da temere.”

“Non ho paura.”

“Forza, allora.”

Alexander si allacciò la cintura. “Andiamo, ti riaccompagno.”

“Hai del cioccolato?” chiese lei sorridendo. “Te lo succhio in cambio del cioccolato.”

Alexander le fissò i seni nudi e vacillò. “Si dà il caso che ce l’abbia”, rispose fremendo. “Prendilo pure tutto.” S’interruppe. “E senza succhiarmelo.”

Per un istante, gli occhi della ragazza si rischiararono. “Sul serio?”

“Sul serio.” Dallo zaino, Alexander estrasse dei pezzetti di cioccolato avvolti nella carta stagnola.

Affamata, lei se li infilò in bocca e li divorò. Alexander inarcò le sopracciglia. “Meglio il cioccolato di me”, disse piano.

La ragazza rise. “Mi riaccompagni davvero?” chiese. “Le strade non sono sicure per una come me.”

Alexander afferrò il mitra. “Certo, andiamo.”

Insieme, attraversarono le stradine buie di Lublino. Da lontano giunse il suono delle risate di uomini, di vetri rotti, di baldoria. La ragazza gli prese il braccio. Era alta, e quel morbido corpo femminile premuto contro il suo fu una sensazione agrodolce per Alexander.

Sentì una morsa all’addome, i battiti accelerati del cuore, il fremito del corpo. Tenne stretto a sé il braccio di lei, e mentre camminavano chiuse gli occhi per un istante e immaginò il sollievo e il conforto. Quando li riaprì ebbe un sussulto e sospirò.

“Siete diretti verso la Vistola, vero? A Pulawy?” domandò lei.

Alexander non rispose.

“Sai perché lo so? Due delle vostre divisioni, una corazzata e l’altra di fanteria, un migliaio di uomini in tutto, sono andate in quella direzione. Non è tornato nessuno.”

“Non devono tornare.”

“Non hai capito. Non sono neppure andati oltre. Sono tutti nel fiume. Tutti i vostri sovietici.”

Alexander la guardò pensieroso.

“Non me ne frega niente di loro, proprio come non me ne frega niente dei tedeschi. Ma tu mi hai trattato con molto rispetto, perciò voglio suggerirti una strada migliore”, disse.

Alexander la ascoltò.

“State andando troppo a nord. Siete diretti proprio verso la linea di difesa tedesca. Loro sono centinaia di migliaia. Vi aspettano al di là della Vistola. Vi stanno ammazzando tutti, e uccideranno anche voi. In Bielorussia è stata una passeggiata perché a loro non frega un accidente della Bielorussia.”

Alexander avrebbe voluto dirle che in Bielorussia non era stata una passeggiata, ma non lo fece.

“La Vistola è l’ultimo grande fiume prima dell’Oder, che scorre al confine tra Polonia e Germania e arriva fino a Berlino. Se l’attraversate a nord di Varsavia, per quanti carri armati e aerei abbiate, non riuscirete a passare.”

“Non abbiamo nessun aereo”, replicò Alexander. “E abbiamo un solo carro armato.”

“Allora vi conviene scendere a sud di cinquanta chilometri e superare il fiume nel punto più stretto. Lì c’è un ponte, anche se so che è stato minato...”

“Come fai a sapere tutte queste cose?”

La ragazza sorrise. “Innanzitutto perché vivevo a Tarnov, non molto lontano da qui. E poi perché prima di andarsene, un mese fa, i maledetti crucchi hanno parlato tra di loro in tedesco convinti che non capissimo. Ci credono tutti degli idioti. Sono certa che il ponticello bianco e blu è stato minato, perciò evitatelo. Lì il fiume è basso. Potete costruire un pontone per il punto più profondo, ma scommetto che sapete nuotare tutti. Riuscirete a portare dall’altra parte anche il carro armato. La foresta non è ben difesa: è troppo fitta e montagnosa. Non ti garantisco che non sia presidiata, di sicuro non è ben difesa. Ci sono per lo più gruppi partigiani, lì, tedeschi e sovietici. Se riuscite ad attraversare il fiume, vi ritroverete nei boschi e al di là di quei boschi sarete in Germania! Almeno così avrete una possibilità. Ma se attraversate la Vistola a Pulawy o a Dolny morirete tutti.”

La ragazza si fermò. “Ecco, siamo arrivati.” Indicò una casetta con le luci accese e sorrise. “È così che ci riconoscete, noi peccatrici. A qualunque ora della notte, le luci sono accese.”

Alexander ricambiò il sorriso.

“Grazie”, disse lei. “Sono contenta di non essere stata con un altro, stanotte. Sono sfinita.” Gli toccò il petto. “Anche se non mi sarebbe dispiaciuto stare con te.”

Alexander le sistemò il vestito. “Grazie a te”, replicò. “Come ti chiami?”

Con un sorriso, la ragazza rispose: “Vera. Significa fede, in russo, giusto? E tu?”

“Io mi chiamo Alexander”, rispose. “Il ponte bianco e blu vicino a Tarnov... ha un nome?”

Vera gli posò un bacio sulle labbra. “Most do Swietokryzst. Il ponte di Santa Croce.”

 

Il mattino seguente, Alexander mandò cinque uomini a Pulawy per un giro di ricognizione sulla Vistola. Quegli uomini non tornarono. Ne mandò altri cinque a Dolny. Non tornarono neanche loro.

Era l’inizio di agosto e le notizie da Varsavia erano scarse e deprimenti. Nonostante l’intenzione di scacciare il nemico dalla capitale polacca e spingerlo a ovest della Vistola, che scorreva attraverso la città, i tedeschi non accennavano ad andarsene, i caduti sovietici erano sempre di più e i polacchi, incitati dai russi e dalle loro false promesse di aiuto, erano insorti contro i tedeschi e venivano massacrati.

Alexander aspettò qualche altro giorno e poi, in mancanza di buone notizie, s’incamminò con Ouspenskij attraverso la foresta verso la Vistola. I due si nascosero sulla sponda e osservarono gli arbusti di quella opposta da cui non proveniva alcun suono. Erano soli, a giudicare da quello che c’era di fronte. Alle loro spalle, però, c’erano due soldati dell’NKGB che imbracciavano i fucili. Agli ufficiali dei battaglioni penali era vietato aggirarsi da soli in Polonia, anche se erano in missione di ricognizione. Gli agenti dell’NKGB erano ovunque. Invece di combattere i tedeschi, controllavano i prigionieri dei gulag. Nell’anno precedente, non era passato giorno senza che Alexander li vedesse.

“Odio quei bastardi”, bisbigliò Ouspenskij.

“Non m’importa di loro”, replicò Alexander a denti stretti.

“Dovrebbe. Le vogliono male.”

“Non la prendo come una cosa personale.”

“Dovrebbe.”

Fumarono. Era un mattino limpido e assolato. Il fiume ricordò ad Alexander... Si accese una sigaretta dopo l’altra per avvelenare la mente con la nicotina. “Ouspenskij, ho bisogno di un consiglio.”

“Ne sono onorato, signore.”

“Mi è stato ordinato di forzare la testa di ponte a Dolny all’alba di domani”, disse Alexander.

“Sembra tutto tranquillo”, replicò Ouspenskij.

“Già. Ma come reagiresti se”, aspirò una boccata, “se ti dicessi che domani morirai?”

“Capitano, mi sta descrivendo com’è stata la mia vita negli ultimi tre anni.”

Alexander proseguì. “Se ti dicessi che potremmo attraversare il fiume più a valle, dove la difesa tedesca non è così massiccia, e vivere? Non so per quanto tempo ancora, né so se farà alcuna differenza, ma sembra proprio che il vento del destino ci stia alle calcagna, in questo mattino d’estate, e ci sussurri di vivere o morire.”

“Capitano, posso chiederle di che cazzo sta parlando?”

“Parlo del sentiero della vita, Ouspenskij. In uno c’è il futuro. Nell’altro anche... ma più breve.”

“Che cosa le fa pensare che più a valle sia meglio?”

Alexander scrollò le spalle. Non voleva parlargli della ragazza dalla pelle morbida di nome Fede. “So che Dolny è avvolta da un silenzio sinistro.”

“Capitano, l’ho sentita parlare al telefono, stamattina. È evidente che il generale Konev le ha ordinato di prendere Dolny.”

Alexander annuì e disse: “Sì, ci manda incontro alla morte. Il fiume è troppo largo e profondo, il ponte è senza riparo. Scommetto che i tedeschi non lo minano nemmeno. Si limitano a sparare da Dolny, al di là della Vistola”.

Ouspenskij fece un passo indietro e replicò: “Non credo che abbiamo molta scelta, capitano. Lei non è il generale Konev. Deve andare dove lui le ordina. E persino lui deve andare dove il compagno Stalin gli ordina”.

Alexander era pensieroso. Non si mosse. “Guarda il ponte. Guarda il fiume. Trasporta i corpi di migliaia di sovietici.” S’interruppe. “Domani trasporterà te e me.”

“Non li vedo”, commentò Ouspenskij con nonchalance, strabuzzando gli occhi. Ma poi aggiunse, con meno nonchalance: “E comunque qualcuno dovrà pur passare”.

Alexander scosse la testa. “No, nessuno. Tutti morti. Come noi domani.” Sorrise. “Osserva attentamente la Vistola, tenente. All’alba sarà la tua tomba. Goditi quest’ultimo giorno sulla terra. Dio l’ha fatto particolarmente bello.”

Ouspenskij ridacchiò. “È stato un bene stare con quella ragazza, non crede?”

Alexander si alzò e, durante il tragitto di dieci chilometri che li separava da Lublino, disse: “Ho intenzione di chiedere al generale Konev di modificare la nostra missione. Ma ho bisogno del tuo totale sostegno, tenente”.

“Sarò con lei fino al giorno della mia morte, signore, mio malgrado.”

 

Alexander riuscì a strappare a Konev l’autorizzazione a percorrere i cinquanta chilometri verso sud. Non fu difficile come aveva temuto. Konev era al corrente di quello che succedeva ai sovietici a Dolny e le principali divisioni del fronte ucraino non erano ancora arrivate alla Vistola. Perciò il generale non era contrario a sperimentare un percorso alternativo.

Mentre il battaglione si preparava a marciare tra i boschi, Ouspenskij si lamentò e piagnucolò per tutto il tempo che gli ci volle a smontare la tenda del capitano e a mettere insieme l’equipaggiamento. Si lamentò finché non saltò sul carro armato, dicendo a Telikov di fare altrettanto. Si lamentò quando vide che Alexander marciava nelle retrovie invece di salire a bordo.

Il sentiero stretto e accidentato attraversava i campi, prima della foresta che si estendeva per cinquanta chilometri di colline lungo la Vistola. Quando si voltò, Alexander vide uno squadrone di soldati dell’NKGB, armati di tutto punto, che lo seguivano con ostinazione.

Si accamparono tre volte e pescarono nel fiume, portando con loro le carote e le patate acquistate a Lublino e storielle su certe patate calde e sulle polacche ancora più calde; cantarono, si rasarono fino a non avere più peli sul corpo e, invece di comportarsi come prigionieri lungo un cammino senza speranza, si comportarono da boy scout. Alexander cantò a squarciagola e si dimostrò più allegro di tutti, camminò più velocemente dei suoi uomini con il vento alle spalle.

Ma Ouspenskij continuava a brontolare. In un tardo pomeriggio, saltò giù dal carro armato e marciò accanto ad Alexander per un po’.

“Solo se la pianti di lamentarti.”

“Mi è concesso di usare il mio privilegio di soldato”, replicò scontroso Ouspenskij.

“Certo, ma perché devi farne un così largo uso?” Alexander stava pensando al fiume e ascoltava il tenente con un solo orecchio. “Più veloce, lavativo con un polmone solo.”

“Signore, a Lublino, la ragazza... Perché non ha approfittato della sua gentilezza?”

Alexander non rispose.

“Lo sa, signore”, proseguì Ouspenskij, “l’avevo pagata. Il minimo che lei avrebbe potuto fare era stare con lei. Se non altro come gesto di cortesia nei miei confronti, maledizione.”

“La prossima volta ti ricorderò di essere più avveduto.”

“Va bene.” Ouspenskij gli si avvicinò. “Capitano, che cos’ha che non va? Non l’ha vista? Non ha notato le sue tette? Il resto era altrettanto succulento.”

“Davvero?”

“Non la trovava...”

“Non era il mio tipo.”

“E qual è il suo tipo, se posso chiederlo? Nella mensa c’era ogni genere di...”

“Mi piacciono quelle che non frequentano le mense.”

“Santo cielo, siamo in guerra.”

“Ho un sacco di cose con cui tenere occupata la mente, tenente.”

“Vuole che le racconti della polacca?” Ouspenskij si schiarì la voce.

Alexander sorrise e continuò a guardare davanti a sé. “Racconta, tenente, e non tralasciare alcun dettaglio. È un ordine.”

Ouspenskij parlò per cinque minuti. Quando ebbe finito, Alexander rifletté su quanto aveva sentito e poi disse: “È tutto quello che sai fare?”

“Il racconto è stato più lungo della scopata!” protestò Ouspenskij. “Mi ha preso per Cicerone?”

“Non sei neanche un buon intrattenitore. Il sesso non può essere così noioso, o l’ho dimenticato?”

“Crede?”

“No, affatto.”

“Allora me la racconti lei, una storia.”

Alexander scosse la testa e disse: “Quelle che posso raccontarti, le ho dimenticate. Quelle che ricordo, non posso raccontartele”. Mentre Nikolaj lo fissava, Alexander chiese: “Che c’è?” E accelerò. “Muovetevi, uomini!” urlò alla formazione. “Non spegnetevi proprio qui, davanti a me. Più in fretta! Unò, duè! Ci sono ancora venti chilometri prima della meta. Non vi gingillate.” Lanciò un’occhiata a Ouspenskij e, notando che continuava a fissarlo, gli urlò di nuovo: “Che c’è?”

“Capitano, chi ha lasciato?”

“Non è questo il punto”, rispose Alexander, affrettando il passo e stringendo forte il mitra. “Il punto è chi ha lasciato me.”

 

Verso l’imbrunire del terzo giorno di marcia arrivarono al ponte. L’addetto al telefono partì immediatamente alla ricerca di una divisione del fronte ucraino che gli consentisse di mettersi in contatto con l’alto comando.

Ancora prima dell’alba, Alexander era già sveglio. Seduto sulla sponda del fiume, che in quel punto non era largo neanche sei metri, guardò il vecchio ponticello di legno dall’aria innocua, un tempo bianco. “Most do Swietokryzst”, sussurrò. Era una domenica mattina e in giro non c’era nessuno, ma al di là del ponte facevano capolino le guglie della chiesa di Swietokryzst e, più oltre, le frondose querce dei monti di Santa Croce.

Alexander avrebbe dovuto attendere una divisione del fronte ucraino, ma ci ripensò. Niente gli avrebbe impedito di attraversare il fiume.

Tutt’intorno c’era pace. Era difficile credere che in un solo giorno, quello seguente, il cielo, la terra e l’acqua si sarebbero macchiati del sangue dei suoi uomini. Forse dall’altra parte non ci sono affatto i tedeschi, pensò, e potremmo attraversare il ponte e nasconderci nei boschi. Gli americani sono sbarcati in Europa da due mesi. Ormai saranno arrivati in Germania. Devo solo vivere abbastanza a lungo da cadere nelle loro mani...

Forse, in un’altra domenica mattina, un pittore si sarebbe seduto davanti a uno di quei ponti e avrebbe ritratto le famigliole sul fiume a bordo delle loro barchette, le donne con cappelli bianchi, gli uomini con i remi in mano, i bambini vestiti di bianco. Nel quadro di Alexander forse la donna avrebbe indossato un cappellino azzurro. Il bambino avrebbe avuto un anno. Lei lo tiene stretto fra le braccia e sorride e l’uomo ricambia il sorriso e rema più in fretta, lasciandosi dietro una grossa scia, i fiori gialli della verga d’oro luccicano e il pittore ritrae il tutto.

Quel mattino, Alexander ebbe nostalgia della sua infanzia. Si sentiva addosso il peso di ottant’anni. Qual era stata l’ultima volta che aveva corso verso qualcosa con il sorriso sulle labbra? Qual era stata l’ultima volta che aveva corso verso qualcosa senza un fucile in mano? Qual era stata l’ultima volta che aveva attraversato la strada a lunghe falcate?

Non avrebbe risposto a quelle domande prima di aver oltrepassato il ponte per Swietokryzst.

 

“APRITE IL FUOCO! APRITE IL FUOCO!”

Il giorno seguente i soldati morivano uno dopo l’altro nel fiume, neanche troppo lentamente, sotto l’assordante baccano del fuoco nemico. La fanteria andò in avanscoperta, ma ebbe subito bisogno di aiuto.

Il carro armato si era arenato sul letto roccioso del fiume, con l’acqua che arrivava ai cingoli. Verenkov caricò un proiettile da 100 millimetri nel cannone e aprì il fuoco. Dall’esplosione e dalle urla Alexander capì che il suo sergente era ancora vivo. Ricaricò il cannone con munizioni più piccole ma non ebbe il tempo di sparare.

Il carro armato era un bersaglio grosso e Alexander sapeva che stava per saltare in aria. Pur non volendo perdere né quello né le armi, i suoi uomini gli servivano di più. “Fuori!” urlò. “Bomba in arrivo!”

Saltarono tutti, anzi, furono letteralmente sbalzati fuori quando la bomba colpì il muso del veicolo, esplodendo al momento dell’impatto. Rammaricato per aver perso il suo unico pezzo di artiglieria a motore, Alexander procedette nell’acqua reggendo in alto il mitra e sparando brevi raffiche contro la testa di sbarco di fronte a lui, sull’altra sponda del fiume. Ouspenskij gli copriva le spalle e il fianco. Alexander lo sentì urlare: AVANTI, INDIETRO, ALT, INDIETRO, AL RIPARO! AL RIPARO! Il tenente gesticolava nella sua direzione, lo trascinava giù, imprecava, ma Alexander lo allontanò da sé, lo ignorò, continuò ad avanzare. Telikov e Verenkov si sostenevano a vicenda mentre nuotavano. Solo Alexander era alto a sufficienza da procedere camminando, con l’acqua fino al collo. In quel modo, riusciva a prendere la mira meglio dei suoi uomini: nuotare e sparare contemporaneamente era pressoché impossibile.

Alexander era circondato dal fuoco dei mitra e non riusciva a capire da dove provenissero i proiettili. Ebbe l’impressione che tutte le pallottole colpissero il suo elmetto.

Gli uomini si tenevano a galla, ma molti erano stati sventrati dalle bombe.

La Vistola si era tinta di rosso. Alexander doveva raggiungere la sponda opposta. Una volta sulla terraferma, tutto sarebbe stato possibile. E qui sarebbe meglio che a Dolny, meglio che a Pulawy? pensò. Qui la difesa tedesca è scarsa?

Nell’acqua, niente sembrava possibile.

Ouspenskij continuò a gridare, come al solito. Questa volta, però, non rivolgendosi ad Alexander. “Guardateli, strillano come un mucchio di checche! Contro chi stiamo combattendo? Sono uomini o ragazzine?”

Alexander vide Yernenko afferrare un cadavere.

“Caporale!” gli urlò. “Dov’è il tuo compagno?”

Yermenko sollevò il corpo. “Qui, signore!”

Alexander lo vide dimenarsi nell’acqua. Lo raggiunse in un baleno e lo chiamò a gran voce, ma Yermenko continuava a dimenarsi, usando il cadavere per tenersi a galla. “Che cazzo ti succede?” gli urlò. “Lascia il soldato e nuota!”

“Non so nuotare, signore!”

“Porca miseria!” Ordinò a Ouspenskij, Telikov e Verenkov di aiutare Yermenko a uscire dall’acqua. Erano a una decina di metri dalla sponda quando, dai cespugli vicini, sbucarono tre tedeschi. Alexander non esitò un istante. Aprì il fuoco e li fece saltare in aria.

Ne arrivarono altri tre, poi ancora tre, e lui continuò a sparare. Quattro tedeschi si buttarono nel fiume diretti verso Alexander, puntandogli contro le armi. Yermenko si scagliò davanti al suo capitano, mirò ai tedeschi e li uccise. Ouspenskij, Telikov e Verenkov formarono un muro davanti ad Alexander. Il tenente gridò: “Indietro, capitano! Stia indietro!” Sparò e mancò il bersaglio.

Alexander sollevò il suo Špagin sulla testa di Ouspenskij, sparò e andò a segno. “Se manchi il bersaglio, spara di nuovo, tenente!” gli urlò.

Nel fiume, a qualche metro di distanza, c’erano cinque tedeschi con l’acqua fino alla cintola. Alexander continuò a sparare e cercò di avvicinarsi alla riva. Combatterono con il calcio dei mitra e con le baionette, tentando invano di guadagnare la sponda. In acqua erano troppo esposti e i tedeschi continuavano ad arrivare.

In battaglia, tre dei cinque sensi di Alexander si intensificavano. Vedeva il pericolo come un gufo nelle tenebre, fiutava il sangue come una iena, sentiva i rumori come un lupo. Non perdeva mai la concentrazione, non era mai confuso, non era mai indeciso. Vide, fiutò e sentì tutto. Non assaggiò il proprio sangue, non avvertì il proprio dolore.

Accanto a sé vide un raggio di luce e riuscì a malapena a balzare in avanti schivando il proiettile di mezzo metro. Il soldato tedesco che l’aveva mancato si infuriò a tal punto che lo infilzò con la baionetta. Mirò al collo, ma il collo di Alexander era troppo in alto per lui. La baionetta lo trafisse nella parte bassa della spalla sinistra, ferendogli il braccio. Alexander roteò l’arma e per poco non mozzò la testa al tedesco. L’uomo cadde, ma Alexander si ritrovò cinque uomini addosso e, con il braccio sanguinante, estrasse il coltello e la baionetta e combatté fino a quando non li vide morti e non vide Ouspenskij raccogliere le loro armi. Con un’arma in ciascuna mano, si trasformarono in un muro di proiettili che procedeva verso la riva senza essere fermato.

Dai cespugli non arrivarono più né tedeschi né spari. A parte i respiri affannati dei superstiti, gli spasimi dei moribondi e il gorgoglio del fiume che seppelliva i morti, tutt’intorno calò la quiete.

Gli uomini si trascinarono sulla sabbia.

Alexander desiderava fumare, ma le sigarette erano fradice. Vide i soldati dell’NKGB attraversare a nuoto il fiume con circospezione, con i fucili e i mortai sulla testa.

“Dannate checche”, sussurrò Ouspenskij seduto tra Alexander e Yermenko. Alexander non replicò, ma quando gli uomini dell’NKGB raggiunsero la riva si alzò e, senza neanche salutarli, disse: “Avreste dovuto prendere il ponte sminato e attraversarlo da civili quali siete”.

Uno di loro – illeso – lo fissò con freddezza e ribatté: “Rivolgiti a me come si conviene”.

“Avresti dovuto attraversare il ponte, compagno”, ribatté Alexander, insanguinato dall’elmetto in giù, con il mitra in mano.

“Sono un tenente dell’Armata Rossa!” urlò l’uomo. “Tenente Sennev. Giù le armi, soldato.”

“E io sono capitano! gridò Alexander, sollevando il mitra con il braccio buono. “Capitano Belov.” Un’altra parola e avrebbe verificato quanti colpi c’erano ancora nel suo Špagin.

Imprecando sottovoce, l’uomo dell’NKGB si allontanò e fece segno ai suoi di lasciare la spiaggia e di seguirlo nei boschi.

Sulla riva c’era quello che restava degli uomini di Alexander: lui avrebbe voluto contare le perdite (temeva che ormai fosse un plotone, più che un battaglione) ma il medico, un ucraino di nome Kremler, andò a dargli un’occhiata. Gli lavò la ferita con acido fenico e poi ci versò sopra del sulfamidico per disinfettarla. “È profonda”, fu l’unica cosa che disse.

“Ha del filo per suturare?”

“Ho un rocchetto piccolo e ci sono molti feriti.”

“Mi dia qualche punto, giusto per tenerla chiusa.”

Kremler cucì la ferita, gli medicò la testa, gli diede un sorso di vodka e poi gli fece un’iniezione di morfina sulla pancia. Ouspenskij lo raggiunse e disse: “Capitano, posso parlarle un istante?”

Alexander si sedette sulla sabbia e si mise a fumare. La morfina gli fece venire sonno. Alzò gli occhi. “Prima parlo io. Quante perdite abbiamo avuto?”

“Sono morti tutti. Ci sono rimasti trentuno soldati, tre caporali, due sergenti, un tenente, cioè io, e un capitano, cioè lei”, rispose torvo.

“Yermenko?”

“È vivo.”

“Verenkov?”

“È ferito al collo, ha delle schegge nella pancia, ha perso i fottutissimi occhiali che lei gli ha comprato, ma è vivo.”

“Telikov?”

“Un piede rotto, ma è vivo.”

“Come diavolo ha fatto a rompersi il piede?”

“È inciampato.” Ouspenskij non sorrise.

“Qual è il problema? Tu stai bene?”

“Sì. Ho solo una perdita al cervello da due ore.”

“Ne avevi un quantitativo considerevole, tenente?”

Ouspenskij si accovacciò davanti a lui. “Signore, non sono il tipo che giudica il suo comandante, ma credo di non parlare a sproposito se le dico che quanto è appena successo – quanto lei ha lasciato che succedesse – è stata pura follia.”

“Mi stai giudicando, tenente?”

“Signore...”

“Tenente!” Alexander si alzò. La ferita perdeva sangue dalla benda. “Non avevamo scelta.” S’interruppe. “E abbiamo attraversato il fiume, o sbaglio?”

“Non è questo il punto, signore. La 29a divisione corazzata di Konev sarà qui tra breve. Avremmo potuto attenderla. E invece ci siamo buttati in acqua, sotto il fuoco nemico, senza aspettare, senza aver fatto alcuna ricognizione, senza prima tentare di scalzare i tedeschi dalla loro postazione, siamo andati e basta! Anzi, lei è andato. Lei! Unico ostacolo tra noi tutti e la morte certa, lei ci ha condotti nelle fauci dei tedeschi e ha perso quasi tutti i nostri uomini e adesso se ne sta seduto a terra, mezzo morto, fingendo di non capire perché sono infuriato!”

Alexander si premette la mano sulla benda e disse: “Puoi infuriarti quanto vuoi, tenente, ma non in mia presenza. Non avrei mai aspettato gli uomini di Konev con le mani in mano. Passeranno giorni prima che arrivino: non avremmo sfruttato l’elemento sorpresa e i tedeschi si sarebbero rinforzati ulteriormente. Inoltre, il generale avrebbe comunque mandato avanti noi. Solo che così i tedeschi avrebbero avuto più tempo per organizzare le difese. Dovevamo muoverci. Ora ci raggrupperemo, ma siamo nei boschi. E abbiamo sgombrato la strada per i rinforzi sovietici, per gli eserciti sovietici. Ci ringrazieranno con l’ingratitudine e l’indolenza che li contraddistinguono.” Sorrise. “Ti garantisco che siamo i primi russi ad aver oltrepassato la Vistola.”

Ouspenskij lo guardò incredulo.

“Non è andata poi così male. Neanche benissimo, s’intende. Ma avevamo già perso uomini, prima, tenente. Ti ricordi lo scorso aprile a Minsk? Ne abbiamo persi trenta per sminare un maledetto campo, non per attraversare un fiume cruciale della Polonia.”

“Signore, ci ha mandato contro i loro missili senza neanche un proiettile!”

“Ti avevo detto di tenere il fucile sulla testa durante la traversata.”

“Abbiamo perso quaranta uomini!”

“Stai contando anche i venti dell’NKGB?”

“Quaranta uomini e venti checche!”

“È vero, ma abbiamo scacciato i tedeschi dalla sponda del fiume. Si sono ritirati nei boschi. Quando avanzeremo, avremo i rinforzi.”

Ouspenskij scosse la testa. “Non sappiamo combattere nei boschi. Io non combatterò nei boschi. La guerra, lì, è completamente diversa. Non si vede un cazzo.”

“Proprio così. Mi dispiace di non poterti rendere più appetibile la guerra.”

“Abbiamo perso il carro armato. L’unica cosa che proteggeva lei.

“Me?”

“Oh, Madre di Dio!” sbottò Ouspenskij. “Si comporta come se fosse immortale, ma non lo è...”

“Non alzare la voce con me, Ouspenskij”, gridò Alexander, “hai capito? Non me ne frega un accidente di tutte le libertà che ti concedo, ma questa non te la consento. Sono stato chiaro?”

“Sissignore”, rispose Ouspenskij più calmo, allontanandosi da lui. “Ma lei non è immortale, signore. E di certo non lo sono i suoi uomini, ma di loro non me frega niente. È lei quello che non possiamo sostituire. E il mio compito è proteggerla. Come può affrontare un combattimento corpo a corpo nell’acqua quando invece dovrebbe stare nelle retrovie? Di che cosa crede di essere fatto, capitano? Fino a quando non l’ho vista perdere sangue come tutti gli altri, io stesso non lo sapevo.”

“Non è sangue mio.”

“Cosa?”

Ma Alexander scosse la testa.

“Che ne sarà di noi nei boschi?”

“Raggiungeremo i monti di Santa Croce. È molto probabile che finiremo le munizioni, perché i tedeschi sono meglio riforniti. Il generale Konev ci ordinerà di combattere fino alla morte. Ecco che significa essere un battaglione penale. Ecco che significa essere un ufficiale sovietico.”

Ouspenskij lo fissò con aria assente. “E venire qui... è stato per via del suo fottuto vento del destino che le soffia alle spalle?”

“Sì. Perché c’è una cosa che l’Armata Rossa ha sottovalutato, tenente.”

“E cioè, signore?”

“Io”, rispose Alexander, “non ho nessuna intenzione di morire.”