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BARRINGTON, AGOSTO 1944

“Dove stiamo andando?” chiese Vikki. “E perché? Non voglio andare nel Massachusetts. È troppo lontano. Che hanno di speciale i viaggi in treno? Sei appena tornata dall’Arizona, non è abbastanza? Piove, c’è un tempo orribile e ieri ho fatto il doppio turno, come anche lunedì. Non posso restare a casa? La nonna ha preparato le lasagne. Mi devo fare le unghie e devo stirarmi il vestito e i capelli. E... hai saputo? Le donne si radono i peli delle gambe e delle ascelle, adesso. È la moda. Volevo provare. L’ho sentito al salone di bellezza Lady Be Beautiful, dove, fra l’altro, hai promesso di venire. Perché dobbiamo partire? Posso andare a casa a farmi un bagno?”

“No. Dobbiamo partire”, rispose Tatiana, dando una spintarella al passeggino di Anthony e alla schiena di Vikki.

“Perché devo venire con te?”

“Perché non voglio andare da sola, perché mio inglese non è buono e perché sei mia amica.”

Vikki sospirò.

Sospirò per cinque ore, fino a Boston. “Vikki, ho contato. Tre sospiri per chilometro. Ne abbiamo fatti trecentottanta. Fanno più di mille sospiri.”

“Non erano sospiri”, disse Vikki in tono petulante. “Erano respiri.”

“Respiri esasperati.” Tatiana desiderò che ci fosse il fratello. Pasha l’avrebbe accompagnata senza battere ciglio, sarebbe rimasto stoicamente al suo fianco. La sorella, invece, si sarebbe lagnata proprio come faceva Vikki. “Avrei dovuto chiederlo a Edward”, borbottò, coprendo Anthony. Pioveva anche a Boston.

“Perché non l’hai fatto?”

“Puoi evitare di ricordarmi di continuo come ti senti? Non mi va di sentirti brontolare solo perché mi fai favore. Fallo e basta, e smettila di lamentarti.”

Vikki smise di sospirare.

Da Boston presero un taxi per Barrington perché non c’erano treni locali. “Vi costerà venti dollari”, annunciò il tassista.

Vikki sbuffò e quando Tatiana le strinse la coscia strillò. “Va bene”, disse Tatiana rivolta al tassista.

“Venti dollari? Sei matta?” Mentre si sistemavano sul sedile posteriore della vettura, e Tatiana prendeva Anthony in braccio, il taxi partì. “È la mia paga di mezza settimana. Tu quanto prendi?”

“Meno di te. Come credevi di arrivarci?”

“Non lo so. In pullman?”

“La fermata del pullman era troppo lontana.”

“Ma il ritorno ti costerà altri venti dollari.”

“Sì.”

“Ora puoi dirmi che cosa stiamo facendo?”

“Stiamo andando a trovare i parenti di Anthony.” Sapeva di non doverlo fare, Sam l’aveva avvertita, ma il desiderio aveva avuto il sopravvento. Per qualche strana ragione sentiva che sarebbe andato tutto bene. Inoltre, temeva che molto presto avrebbe avuto bisogno di loro.

“Hai parenti negli Stati Uniti?”

“Io no, ma lui sì. Mi serve tuo sostegno. Se ho bisogno di aiuto ti darò pizzicotto sul braccio, così.”

“aghi!”

“Ecco. Finché non lo faccio, tu sorridi e non dici niente.”

Un’ora dopo arrivarono a Barrington. “Dove vi porto?” chiese il tassista.

“Qui va bene”, rispose Tatiana indicando un imponente edificio bianco sulla via principale. Dopo aver pagato, le ragazze scesero dall’auto. Barrington era una cittadina di case bianche con le persiane nere. Verdi querce costeggiavano le strade pulite. Era piccola e accogliente e tra il fogliame degli alberi s’intravedevano le guglie bianche. Sulla via principale alcuni negozi erano aperti: un ferramenta, un caffè, un antiquario. C’erano anche delle donne, ma nessuna spingeva un passeggino. A parte Anthony, in giro non si vedevano bambini.

“Hai speso oltre due settimane di paga per venire in questo posto?” chiese Vikki, estraendo dalla borsa una spazzola per ravviarsi i capelli.

“Hai idea di quanti soldi ho speso per venire qui dall’Inghilterra? Cinquecento dollari. Ne è valsa la pena?”

“Certo. Ma per venire qui?”

“Per favore, spingi il passeggino.”

“Va bene.”

“Andiamo a chiedere dov’è Maple Street.”

Dal proprietario dell’edicola all’angolo della via principale seppero che Maple Street era a pochi isolati da lì, perciò s’incamminarono sotto la pioggia.

“Ho pensato una cosa”, disse Vikki. “La città si chiama Barrington, come te. È una coincidenza?”

“Ci hai pensato solo adesso? Ecco, ci siamo.” Si fermarono davanti a un’enorme casa coloniale bianca con le persiane nere; il giardinetto anteriore era pieno di aceri. Dopo aver percorso il vialetto di cotto, salirono i tre gradini e si fermarono davanti alla porta. Rimasero lì senza suonare.

“Che facciamo?”

Tatiana aveva perso tutto il suo coraggio. “Forse è meglio andarcene”, disse.

“Stai scherzando? Dopo tutta questa strada vuoi andare via?” Vikki suonò il campanello. Tatiana lasciò il passeggino ai piedi dei gradini e prese Anthony in braccio.

Una donna anziana dall’aria severa, elegante e con i capelli in ordine, aprì la porta. “Sì?” chiese in tono brusco. “Siete qui per una raccolta di fondi? Un attimo, prendo il borsellino.”

“Non siamo qui per questo”, replicò in fretta Tatiana. “Siamo venute... sono venuta per parlare con Esther Barrington.”

“Sono io”, rispose Esther. “E tu chi sei?”

“Io...” Tatiana esitò. Poi, indicando il bambino, disse: “Lui è Anthony Alexander Barrington, il figlio di Alexander”.

Esther lasciò cadere le chiavi che aveva in mano. “E tu chi sei?”

“Sono la moglie di Alexander”, rispose Tatiana.

“Lui dov’è?”

“Non lo so.”

Esther diventò rossa in volto. “Be’, non mi sorprende affatto che tu abbia avuto il fegato di venire qui, in casa mia! Chi ti credi di essere?”

“La moglie di Alexander...”

“Non m’interessa chi sei! Non sbattermi in faccia tuo figlio, come se all’improvviso dovesse importarmi. Mi dispiace molto per te...” L’espressione infelice di Esther smentiva il suo tono duro. “Mi dispiace moltissimo, ma la cosa non mi riguarda.”

Tatiana fece un passo indietro. “Mi scusi. Ha ragione. Volevo solo che lei...”

“So bene cosa vuoi! Mi porti il tuo figlio bastardo. Credi forse che servirà a migliorare le cose?”

“A migliorare quali cose?” chiese Vikki.

Esther non rispose e continuò a sbraitare. “Sai cosa mi disse tuo suocero quando lasciò la mia casa per l’ultima volta, quattordici anni fa? Mi disse: ‘Mio figlio non è affar tuo, stronza’. Ecco cosa mi disse! Mio nipote, il sangue del mio sangue, il mio Alexander non era affar mio. Io volevo aiutarli. Gli dissi che avrei tenuto suo figlio mentre lui e la moglie andavano a rovinarsi la vita in Unione Sovietica, ma lui rifiutò in malomodo la mia offerta. Non voleva niente da me, dalla sua famiglia. Non mi scrisse mai né mi telegrafò. Non ho più ricevuto sue notizie.” S’interruppe, ansimando. “Che combina, il bastardo?”

“È morto”, rispose Tatiana senza fiato.

Esther non riuscì neppure a dar voce al suo sgomento. Con le mani strette sulla maniglia della porta, indietreggiò di un passo e disse: “Bene. Chiunque tu sia, non ti permetto di venire qui e dirmi che tuo figlio, un estraneo, è affar mio”. Con mano tremante, Esther sbatté la porta più forte che poté, lasciando le ragazze sul portico.

“Mmm”, commentò Vikki. “Come ti aspettavi che sarebbe andata?”

Sforzandosi di non piangere, Tatiana si voltò e scese i gradini. “Un po’ meglio, credo.”

Che cosa si aspettava? Non sapeva un bel niente dei rapporti tra il padre di Alexander e la sorella, prima che i Barrington lasciassero gli Stati Uniti, ma dalla reazione di Esther una cosa era certa: la donna non aveva ricevuto notizie dall’Unione Sovietica, né del fratello né della cognata né di Alexander. Era l’unica cosa che Tatiana voleva scoprire: se Esther aveva qualche informazione che poteva aiutarla. Di certo non ne aveva. Era stravolta. La speranza di una famiglia, di un vincolo di sangue per il figlio, era ancora troppo irrealizzabile. Il suo unico scopo era scoprire la verità su Alexander.

Sistemò il piccolo nel passeggino e insieme a Vikki s’incamminò verso la strada. “Quattordici anni”, disse l’amica. “Avrebbe anche potuto lasciar perdere. Ma certe persone non dimenticano mai.”

“Soprattutto l’odio”, concordò Tatiana.

Percorsero lentamente la strada. “Mi ripeti quella parola?” chiese a Vikki. “Come l’ha chiamata il padre di Alexander prima di partire?”

“Lascia stare. Le signore non usano quel linguaggio. La nostra Esther ha modi da soldato. Un giorno ti insegnerò le parolacce in inglese.”

“Conosco le parolacce in inglese”, replicò Tatiana a bassa voce. “Ma non quella.”

“Come mai? Nei dizionari non ci sono, e neanche nei frasari.” Vikki la punzecchiò. “O almeno non in quelli che ho visto io.”

“Un tempo avevo un bravo insegnante”, disse Tatiana con un sospiro.

Erano sulla via principale quando un’auto accostò al marciapiede. Esther saltò fuori con il trucco sfatto. “Mi dispiace”, disse. “Vederti è stato uno choc. Non ho mai ricevuto notizie da mio fratello, da quando ha lasciato l’America. Non sapevo che cosa gli fosse accaduto. Al Dipartimento di Stato non ci hanno mai detto niente.”

Tornate a casa, le ragazze mangiarono pane, prosciutto e zuppa fino a scoppiare e poi bevvero un caffè mentre di sopra Anthony, sistemato in un letto in modo che non cadesse, faceva un sonnellino.

Nonostante avesse covato rancore per oltre un decennio, Esther pianse come la moglie di un condannato a morte quando Tatiana le raccontò del fratello, della cognata e di Alexander.

Tatiana la trovò molto gentile. Esther non aveva figli. Aveva sessantun anni, uno in meno di Harold, ed era l’unica Barrington ancora in vita. Il marito era morto cinque anni prima, perciò viveva sola con Rosa, la sua governante da quarant’anni.

“Era qui che Alexander abitava?” Tatiana non staccò gli occhi da Esther temendo che, guardandosi intorno, potesse notare qualche traccia di Alexander bambino.

Esther scosse la testa. “La sua casa è a un chilometro da qui. Non parlo con le persone che ci vivono ora, sono degli snob, ma se ti va posso accompagnarti a dare un’occhiata.”

“Ci sono i boschi dietro la casa?”

“Non più”, rispose Esther. “Hanno costruito ovunque. Erano bei boschi. Alexander aveva due amici...”

“Teddy e Belinda?”

“C’è qualcosa della sua vita che non sai?”

“Sì”, disse Tatiana. “Il presente.”

“Teddy è morto nel ‘42, nella battaglia di Midway. Belinda fa l’infermiera al fronte e ora dovrebbe essere in Nord Africa. O in Italia. O dove si trovano le truppe. Povero Alexander. Povero Teddy. Povero Harold.” Esther scosse la testa. “Stupido Harold. La sua famiglia distrutta e quel ragazzo, quel ragazzo straordinario... hai una sua foto?”

Tatiana fece segno di no con la testa. “È rimasto tale e quale ad allora, Esther. Non ha avuto sue notizie?”

“Certo che no.”

“Non sa niente di lui?”

“No. Perché? Non hanno voluto dirmi che era morto, non mi hanno detto niente.”

Tatiana si alzò a fatica. “Dobbiamo proprio andare.”

Anche Esther si alzò. “Ho una cosa per te.”

Le diede un sacchetto di tela chiuso da uno spago. All’interno c’erano tre cordoncini di pelle, intrecciati per metà, tre chiodi arrugginiti, un piccolo pestello, due conchiglie scheggiate e la foto di Alexander a otto anni, in piedi nell’oceano accanto a un ragazzino tarchiato (Teddy?). Alexander aveva un sorriso luminoso.

“Guarda, ho anche una sua foto da piccolo.” Lì, all’età di due anni, Alexander aveva un viso scuro e rotondo e sorrideva: era identico ad Anthony. Esther le porse la foto, ma Tatiana non riuscì a prenderla, tanto le tremava la mano. Vikki se ne accorse e distolse lo sguardo. Lo notò anche Esther e, infilata la foto nel sacchetto, le diede una pacca gentile sulla schiena.

“Dobbiamo tornare”, sussurrò Tatiana.

Sul treno per New York Vikki guardava fuori dal finestrino.

“Cosa c’è che non va, Vik?”

“Niente”, rispose l’amica. “Pensavo che la prima volta che ti ho vista, a parte la cicatrice sbiadita sul viso, mi sei sembrata la persona meno complicata che avessi mai conosciuto.”

Con lo sguardo rivolto al figlio Tatiana appoggiò la mano sulla gamba di Vikki. “Non sono complicata”, disse. “Ho solo bisogno di scoprire quello che è successo a mio marito.”

“Hai detto a me e a Edward che è morto.”

“E se fossi stata troppo affrettata?” replicò Tatiana, guardando fuori dal finestrino mentre il treno sfrecciava nella campagna bagnata del Massachusetts.

“Mi stavi cercando?” gli aveva chiesto una volta, e lui aveva risposto: “Da sempre”.

Tatiana non aggiunse altro, si appoggiò al sedile e, accarezzando la testa di Anthony, chiuse gli occhi finché non arrivarono a destinazione.