Sono il proprietario del Civilisation. È un bistrò sul Lungofiume di Phnom Penh, la capitale della Cambogia. Le persone a volte mi domandano perché viva qui, a Phnom Penh. Rispondo che ci vivo perché nessuno fa domande. Così è stato negli ultimi anni, da quando mi hanno buttato fuori da Mannus, una struttura correzionale aperta di Tumbarumba, e ha funzionato abbastanza bene.
Quindi eccomi qui, in attesa della folla per la colazione, mentre il sole mattutino accende la sua lampada da saldatore sopra il Lungofiume. Non succede nulla. Un cane seduto contro la lavagna all’esterno del bistrò si alza, si volta e si rimette giù guardando dall’altra parte. Di nuovo non succede nulla. L’asfalto sulla strada si scioglie un po’ di più. Il cane si alza e se ne va. Compare Mickey Mouse e spinge la porta. Infila la testa e si guarda intorno. Mi individua al banco, fa un sorriso sbilenco, si porta dentro con tutto il corpo e si trascina avanti. «Foggy è in prigione» dice. Molla una pila di giornali sul banco e si issa su uno sgabello. «Dammi uno screwdriver.»
Che cosa bisogna fare per avere la folla a colazione? Il menù nel tabellone all’ingresso propone frittelle di banane e muffin con müsli. Io ho caffè francese, jazz suadente per l’atmosfera mattutina, una squadra di prim’ordine con personale altamente specializzato – e qui alludo alla splendida Champei pronta a servire con un sorriso –, e tutto ciò che mi ritrovo è Mickey Mouse. Questo non è il vero nome di Mickey, ma tutti sul Lungofiume lo chiamano così perché ha le orecchie a sventola, e fino a che non ha cambiato voce l’anno scorso, parlava esattamente come il più famoso roditore al mondo. È il ragazzo dei giornali.
Quello che dice, in realtà, è: «Fo-gii (pausa) in (pausa) prii-scione (pausa) uuh». Mickey ha un serio difetto di pronuncia, senza contare che è spastico. La diagnosi corretta è paralisi cerebrale, ma chiamare una zappa strumento per scavare azionato a mano non cambierebbe la vita di Mickey. «Da-mi uno scuu-di-yah!» È uno scherzo ricorrente tra noi, Mickey e il suo screwdriver.
«No.» Prendo i giornali dalla pila di Mickey: Phnom Penh Post, Cambodia Daily, Cambridge Soir e il Globe, un mensile patinato per cui un tempo scrivevo a Sidney.
«Perché no?»
«Sei troppo giovane.»
E lo è, non ha più di 16 anni. Fa tutto parte del rituale mattutino. Mickey chiede della vodka per il suo succo di frutta, io dico no, lui dice perché no, e io gli dico che è troppo giovane. Lo facciamo da tre anni, e non se ne stanca mai.
Prendo un bicchiere, lo riempio con OJ e ghiaccio triturato, vi infilzo una cannuccia e glielo metto davanti. Lui mi guarda e scuote delicatamente la testa: servizio incompleto. Prendo un ombrellino da cocktail da sotto il banco e glielo allungo. Mickey tira il bicchiere verso di sé, apre l’ombrellino e lo posa sul bordo, mentre passo dal lato dei clienti. Sposto uno sgabello accanto a Mickey e guardo noi due, fianco a fianco, nello specchio del banco: Mickey che succhia il suo succo di frutta, io nella camicia nera che porto sempre, forse leggermente in sovrappeso rispetto a prima, i capelli lunghi ma ancora neri quasi come gli occhiali da sole di Mickey sul banco, vicino alla ciotola della frutta tropicale. È l’aria alla Johnny Cash. Johnny e io abbiamo qualcosa in comune.
«E allora, cos’è questa storia di Foggy?»
Mickey si pulisce la bocca con la mano buona. «I-in priscione. Lui va da Mo-rii, lui e Do-na-lii, fa a bote, viene la po-li-sia, va in pri-scione, Prey Sar.»
Traduzione. Foggy è andato nel locale di Maurice e ha attaccato briga e la polizia l’ha arrestato. Deve esserci qualcosa di più, perché una rissa in un bar ti porterebbe alla prigione circondariale di Daun Penh, non fuori città nella prigione di Prey Sar. Lo so perché Foggy ieri mattina ha passato qualche ora in una cella a Daun Penh, dopo che la polizia aveva fatto irruzione nel suo locale all’alba e aveva trovato nella cassetta del bagno una borsa di plastica con una sostanza illegale.
Inoltre Mickey ha menzionato Donnelly. «Donnelly? Anche lui è a Prey Sar?»
«No. Po-lisia porta signor Fo-gii che va a Prey Sar, signor Do-na-lee non Prey Sar.»
Resto di sasso. Nel senso di esterrefatto, ecco. Ieri sera ho lasciato quei due al bar di Donnelly sulla 136, e Donnelly doveva assicurarsi che Foggy non facesse esattamente ciò che sembra avere fatto. Sapevamo che il pericolo c’era perché, dopo che l’avvocato Leo, l’Arrangiatore Solitario, l’aveva fatto rilasciare da Daun Penh, lui aveva passato il resto della giornata a ubriacarsi con Donnelly, dicendo a tutti come avrebbe sistemato Maurice.
«Cosa c’è scri-to qui?» Mickey sta puntando un sudicio dito verso il titolo di testa del Phnom Penh Post.
«Adulterio.»
«Oh. Cosa è?»
«Sei troppo giovane.»
Non mi sento di dare spiegazioni. L’adulterio è un crimine in Cambogia, o perlomeno lo è quando a commetterlo è il capo del primo partito di opposizione. La Cambogia è una democrazia, c’è la libertà di stampa, abbiamo appena avuto libere elezioni e ci servono leggi come questa per essere sicuri che tutti capiscano chi è al potere. Il capo del primo partito di opposizione se n’è andato in Malesia non appena è stato chiaro che aveva perso le elezioni. A mio avviso, dev’essere un po’ lento di comprendonio, perché la sconfitta non è stata una sorpresa per nessuno, salvo che per lui. Con sé, ha portato una danzatrice del Royal Ballet e ora ha intenzione di divorziare dalla moglie e sposare la danzatrice, e il governo lo farà processare per adulterio, ma solo se lui sarà così sciocco da tornare.
«Tu di-sci sempre co-sì» borbotta Mickey.
Ragazzo sveglio, questo Mickey. Mai andato a scuola in vita sua, ma legge l’inglese e supervisiona tutti i ragazzi dei giornali sul Lungofiume. Sa gli affari di tutti. Forse perfino la risposta alla prossima domanda.
«Chi ha messo la roba nel bagno di Foggy?»
Mickey scuote vigorosamente la testa. «Non sapere.»
«Sì che lo sai! Sputa fuori!»
Mickey guarda il bicchiere e mi fa un sorriso sgraziato.
«Non puoi. Vuo-to. Da-mi un altro skuu-drai-va all’arancio e io sputo fuori!»
A volte Mickey è fin troppo precoce. Considero l’idea di dargli un piccolo scappellotto, ma Champei, che ammira il suo capo come fosse un protettore degli orfani e ha un debole per Mickey, mi sta osservando dalla sua postazione un po’ più giù lungo il banco, perciò le faccio segno di portargli un altro succo di frutta. Intanto Mickey continua a succhiare ciò che resta sul fondo del bicchiere, producendo lo stesso fracasso di un elicottero in stallo. Gli piace il rumore.
«E allora, cosa sai?»
Mickey scrolla le spalle e smette di succhiare. «Io non sapere, ma un tizio dice po-li-sia portare per trovare.»
Portare per trovare. Di certo aiuta, quando stai cercando qualcosa, portarla con te.
«Quale tizio te l’ha detto?»
«Un tizio che fa il moto, anche po-lisia. Lui sapere. Io non sapere.»
La fonte di Mickey sembra affidabile, un poliziotto che fa il doppio lavoro come moto, taxista in moto. Le moto e i tuk-tuk, quelle motociclette che hanno agganciato dietro un trolley coperto a due ruote per i passeggeri, sono la forma di trasporto pubblico più importante a Phnom Penh. I taxi convenzionali stanno prendendo piede, ma lentamente.
Mentre Mickey mi parla, Champei mette un po’ di musica. Mickey ascolta. «Cos’è canzone?»
Non stavo facendo attenzione. È Kermit Ruffins, con un jazz vicino al blues e parecchio simile a qualcosa che piacerebbe al suo omonimo Kermit la Rana, ha un che di allegro con un sottofondo macabro. Kermit dice che molto presto saremo tutti morti e che la cosa, probabilmente, durerà per un pezzo, perciò tanto vale cavare il meglio qui e ora. L’uomo delle pompe funebri, dice, ci sta aspettando, e sa esattamente il da farsi.
«Si chiama L’uomo delle pompe funebri. Ti piace?»
«No. Cosa significa uomo pompe fu-be-ri?»
«Sei troppo giovane.»
Mickey se ne va e io chiedo a Champei di portarmi un caffè. Ho fatto arrivare una nuova macchina da Bangkok lo scorso mese. Ho avuto perfino un barista thai che, per una settimana, ci ha insegnato a usarla, e Champei è molto fiera di saper fare un espresso macchiato decente. Quanto a me, sono molto fiero di lei, di certo è l’elemento più decorativo del Civilisation. Più alta di una testa rispetto alla maggior parte dei khmer, e cioè di media statura per un occidentale, ha zigomi alti e puri che fanno pensare a un bronzo levigato e capelli neri lucenti che si sciolgono in una cascata sulla schiena. Il sorriso è quello di Angkor, come lo si vede scolpito sulle torri dei templi a Siem Reap, che restituisce l’impressione di venire messi a parte di un qualche segreto celestiale, che Champei potrebbe rivelarvi se vi ritenesse pronti. Mentre porta il caffè, intona sotto voce una melensa canzone khmer. Lo posa davanti a me e s’inchina. Un’altra cosa a proposito di Angkor. Se mai ci andrete, vedrete le apsara scolpite sulle pareti dei templi. Sono fanciulle celestiali che danzano per compiacere gli dèi, sfoggiando elaborate pettinature e poco più. I loro seni, naturalmente, sono il meglio che il cielo possa fornire, ma a giudicare da quanto vedo da queste parti, sono ispirati a un modello terrestre.
«Che cos’hai da essere così contenta?» le domando.
Mi fa un sorriso. «Io sempre contenta. Non come te. Vuoi zucchero?»
Mi passa un barattolo di zucchero, e ancora una volta mi meraviglio che qualcuno possa avere polsi così sottili. Champei viene da un villaggio da qualche parte vicino a Siem Reap. Proprio non riesco a immaginare quelle braccia, sottili come due matite, mentre arano le risaie e raccolgono i chicchi. Suo padre, a quanto pare, era della stessa idea, dato che la mandò a Phnom Penh a imparare l’onorevole professione di cameriera. È stata con me fin da quando ho aperto, cominciando al banco, e ora è amministratrice e caposala, e a volte si direbbe che sia lei a dirigere il locale, più che il sottoscritto.
«Chi è il capo, Champei, tu o io?»
«Tu il capo, perché mi fai domande sciocche?» Fa una smorfia e una ruga divertita le increspa la fronte.
«Tanto per scherzare. Dov’è la folla della colazione oggi?»
«Oggi non ancora venuta.» La sua fronte si corruga ancora di più e perde il sorriso. «Per questo ti preoccupi, capo? Non preoccuparti, verranno, quando diventerai un po’ famoso.»
Va a mettere all’opera le altre ragazze. Lavorano bene, insieme. Champei ha un atteggiamento rilassato che induce tutti a fare le cose apparentemente senza alcuno sforzo o disciplina. Molto cambogiano. Mentre lei provvede, io leggo il Phnom Penh Post, il giornale in lingua inglese.
Quando prima dicevo che abbiamo una stampa libera, non scherzavo. Ce l’abbiamo, anche se, naturalmente, ci sono dei limiti. Da noi, i limiti sono definiti dalle leggi contro la diffamazione. In Cambogia, i reporter e i direttori scoprono di aver oltrepassato il limite quando gli capita qualcosa di spiacevole mentre vanno al lavoro.
Ho messo un annuncio pubblicitario, ma mi domando se qualcuno lo vedrà mai, con tutte quelle notizie.
Nelle pagine internazionali, c’è la solita roba. Da qualche parte in Africa è avvenuto un colpo di Stato, e in Thailandia il governo è impantanato in uno scandalo per un reato finanziario. In Cambogia non abbiamo colpi di Stato da dieci anni, dopo che il primo ministro disse che ne aveva abbastanza, e nei giornali non si fa mai un accenno alla corruzione nelle alte sfere.
Sul fronte locale, sembra che ieri sera ci sia stata una rissa. La zuffa è scoppiata in una birreria all’aperto, quando due guardie del corpo fuori servizio hanno cominciato a discutere. A quanto pare, i due ragazzi erano stati appena pagati e volevano fare festa, e hanno cominciato a litigare per una cameriera. Uno dei due ha tirato fuori una pistola e ha sparato un colpo per terra colpendo una bottiglia, e un pezzo di vetro volante ha ferito, al tavolo vicino, qualcuno che fino a quel momento non era stato coinvolto. È chiaro che si tratta di uno sfortunato incidente, dice un portavoce della polizia. I due responsabili sono stati arrestati e sono sotto sorveglianza a Prey Sar. Il ragazzo ferito, ricoverato all’Ospedale Calmette, dice che non è stato il vetro volante a fargli un buco nella gamba, e i suoi genitori stanno sporgendo denuncia. Il capo delle guardie del corpo vuole indietro i suoi uomini, ma la polizia non è sicura di quanta influenza abbiano i genitori del ragazzo.
Altrove, i funzionari del ministero dell’Agricoltura hanno ammassato trenta tonnellate di cavallette marroni, un tipo di insetti nocivi che aggredisce le pianticelle di riso. Mi riesce difficile credere che qualcuno, da qualche parte, stia raccogliendo e pesando insetti a tonnellate, ma a quanto pare l’hanno fatto. Sembra un risultato di gran lunga migliore rispetto a quello che vanterà, nel campo degli arresti, la polizia di Daun Penh. Ad ogni modo, nel Phnom Penh Post, c’è tutto.
Tutto tranne Foggy.