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Il fuoco ha attecchito bene, ma il giardiniere se n’è andato. Lo troviamo in una stanza del bungalow, un deposito pieno di ramazze, carriole, ceste e altri arnesi da giardinaggio, intento a riparare una scopa di rametti che lega da capo con una cordicella. Poung inizia a parlargli sottovoce in tono rispettoso, poiché lui è giovane e il giardiniere è vecchio, e i giovani non parlano a voce alta con i vecchi. Poco dopo, sta gridando. Il vecchio è sordo come una campana.

«Lui dire vivere qui» spiega, indicando la seconda porta. «Lui sempre qui. Dormire, lavorare, mangiare, tutto qui.»

«Domandagli se la polizia ha parlato con lui.»

Poung grida la domanda in tono rispettoso, illustrandola con una pantomima. Il giardiniere annuisce e gli dà una lunga risposa, fermandosi a riflettere di tanto in tanto.

«Lui dire polizia parlare lui» riferisce Poung. «Ma non tanto. Lui dire polizia chiedere lui dove essere, cosa vedere. Lui dire polizia lui dormire a quell’ora, non sentire nulla. Lui, anche, non sentire molto bene. Problema orecchie. Una sola volta polizia parlare lui.»

Non mi stupirebbe che la sordità del giardiniere fosse perfino peggiore, quando la polizia è venuta da queste parti.

«Domandagli se possiamo dare un’occhiata nella villa.»

Poung avanza la richiesta, ma il vecchio scuote la testa.

«Lui dire non potere. Lui dire polizia mettere sai cosa per porta, mettere cartello, nessuno potere entrare dentro ora.»

Il giardiniere dice ancora qualcosa e passa nella seconda stanza del capanno.

«Lui dire aspettare» riferisce Poung con riluttanza. «Lui dire mostrare qualcosa a noi.»

Il giardiniere torna in un attimo, agitando una chiave.

«Lui dire questa per la porta dietro. Polizia messo cartello solo su porta davanti.»

La villa ha un’unica porta posteriore di fronte alla casetta del giardiniere. Una gallina sta considerando se deporre un uovo sul gradino della porta, ma ci ripensa mentre ci avviciniamo e corre via tra l’erba. La porta è chiusa con un grosso lucchetto. Il giardiniere lo apre e si fa da parte.

«Lui dire noi potere entrare in cucina. Lui dire noi non dire a polizia, okay?»

La cucina è decisamente meno imponente delle stanze sul fronte. Gli impianti sembrano risalire agli anni Sessanta. Non penso che Maurice abbia mai cucinato. Io non mi occupo della cucina al Civilisation, dopotutto.

Un breve corridoio ci conduce alla stanza principale. Nulla è stato toccato, la scena è ancora quella del Tifone Maurice. Mi guardo intorno, cercando la cassaforte come mi ha detto April, ma non c’è niente. In ogni caso, la gente non tiene le casseforti nel soggiorno.

Dove le tiene? In tutti i migliori libri e film, di solito in camera da letto, in uno spazio astutamente mascherato dietro un quadro che l’eroe scopre solo grazie a una combinazione fortunata e a un colpo d’occhio.

Saliamo al piano superiore. Nello studio le carte e le pratiche sono di nuovo ammonticchiate sopra la scrivania, tornata sulle sue gambe. Dev’essere stata la polizia quando è venuta qui ieri sera, ma per il resto il riordino è stato minimo.

«Forse non vorrai venire nella camera da letto» dico a Poung, ricordando come ho visto Maurice.

«Ok, io venire» dice lui. «Forse uomo cattivo qui, io aiutarti.»

Ma nella camera da letto non c’è nessun uomo cattivo. Di fatto, non c’è nulla. Il grande letto cinese sta nel centro, ma le lenzuola sono sparite, lasciando solo il materasso. Scabri segni marcano il legno in corrispondenza delle manette, per altro scomparse insieme alla scatola per la pizza e alla pistola.

«Penso polizia non piacere noi qui» osserva Poung a voce più alta.

«Polizia non sapere se tu non dire.»

Poung sorride. «Io non dire.»

Sto solo guardando intorno, senza toccare nulla. Poung allunga una mano verso il montante del letto per appoggiarsi a qualcosa, ma io gli dico bruscamente di non farlo e non toccare nulla. Non so quanto sia abile la polizia scientifica cambogiana, ma sospetto che sappia rilevare le impronte digitali.

Dipinti, in apparenza di pittori asiatici moderni, pendono dai muri. Ricordando ciò che ho letto in tutti i migliori romanzi polizieschi, stacco i quadri e li appoggio alle pareti, intonacate sopra i mattoni. È chiaro che nessuno ha nascosto una cassaforte qui. Rimetto i quadri a posto.

«Cosa cercare?» domanda Poung.

«Una cassaforte.» Non riesco trovare nessun altro nascondiglio sensato. Forse nel bagno.

Poung mi segue. «Cosa essere cassaforte?»

«Una cassa di ferro. Dove tenere dentro le cose.»

«Oh, io conoscere. Dov’è cassaforte?»

«Non lo so. È nascosta.»

«E allora, come sapere dove trovare?»

«Non lo so. Per questo sto cercando.»

Poung sospira e siede sul bordo della vasca, preparandosi ad aspettare. Non condivide con me il ricordo di Maurice che emerge come Afrodite dalla schiuma. Mi guardo intorno, ma neppure qui c’è traccia di una cassaforte, per quanto posso vedere.

Ispezioniamo lo spogliatoio dietro la camera da letto, un vano grande come la cucina. Probabilmente in origine era una camera da letto, divenuta per Maurice la stanza degli ospiti. Le persone che hanno messo a sacco la camera da letto e le stanze di sotto sono venute anche qui, ad aprire i guardaroba e buttare camicie, pantaloni e scarpe per terra. C’è un unico abito scuro che Maurice, immagino, teneva nel caso di un funerale. Sono sicuro che, di tanto in tanto, apprezzava un po’ di svago. Nessuna cassaforte. Comincio ad aprire i cassetti. Nulla, se non calze e biancheria personale. Quanto sarà grande questa cosa, ad ogni modo?

«Tu trovato?» domanda Poung.

Scuoto la testa e mi avvicino a un guardaroba che scopro essere l’armadio della biancheria. Tra asciugamani e altri capi di cotone, balza agli occhi una coppia di lenzuoli neri. Li tocco: seta. Per i momenti più intimi di Maurice, senza dubbio.

«Andiamo presto?» domanda Poung. È chiaro che il posto non gli piace. Neanche a me: l’eccitazione di fare qualcosa che non dovrei fare sta svanendo.

Per il sollievo del mio compagno, torniamo giù e usciamo dalla porta della cucina. Il giardiniere sta raccogliendo le foglie morte tra i gigli lungo il muro laterale della casa. Restituita la chiave con i miei ringraziamenti per l’assistenza, invito Poung a chiedergli di non parlare alla polizia del nostro ingresso. Se la polizia glielo domanderà, lui dirà che abbiamo passato il tempo bevendo un bicchiere di tè e spettegolando su Maurice.

«Che facciamo adesso?» chiede Poung quando torniamo al cancello davanti. Sembra dare per scontato che siamo complici in questa faccenda. In realtà, non avevo pensato a un ruolo per lui, ma dato che è disposto a collaborare, gli chiedo di domandare ai vicini se hanno visto qualcosa. Io mi informerò dal sorvegliante se sa qualcosa di ieri sera, a cominciare dal motivo per cui non c’era un sorvegliante notturno in servizio.

L’inglese di Poung può essere descritto come un fluido ragazzese-di-strada, ma quello del sorvegliante è di scuola inglese. Mi dice che si è diplomato al liceo: in effetti, è un poliziotto che per arrivare alla fine del mese lavora come sorvegliante. Sebbene sia in congedo illimitato, riscuote ancora lo stipendio, ma la paga da sorvegliante è molto più alta di quella da poliziotto.

E allora, cos’è successo ieri sera?

Lui è smontato come al solito alle sette, quando è arrivato il sorvegliante notturno.

Il sorvegliante notturno, quindi, è arrivato?

Sì, certo. Altrimenti, grosso problema. Ma non era il solito.

Non il solito?

No. Il solito non è venuto. L’altro, il sostituto, gli ha detto che il titolare stava male. L’ufficio l’aveva mandato come sostituto.

Ha controllato la carta d’identità del sostituto?

Non ce n’era bisogno, lo conosceva. Era uno dei sorveglianti alle dipendenze della ditta.

E dunque, come si chiamava il sostituto?

Non lo sa, lo conosce solo di vista.

Sa qualcosa di più sul sorvegliante notturno titolare, quello che si è sentito male?

«Eccolo.» Il ragazzo indica una delle fotografie attaccate alla parete dietro di lui e me la porge.

La foto mostra due giovani appoggiati contro il muro macchiato di muffa di quella che sembra una palestra molto malandata. Uno è un giovane e magro contadino dalla pelle scura, rivolto verso la macchina fotografica con un’espressione intensa, vestito con un paio di calzoncini rossi dalla cintura elastica e munito di due guantoni da boxe egualmente rossi in cui tiene i pugni, accostati nocca contro nocca sul petto ossuto. Sembra sui vent’anni. L’altro è più grande, ma non può avere più di trent’anni. Bello, disinvolto, vestito con un paio di pantaloni chiari e una camicia di seta dal fiorito disegno batik, tiene il braccio attorno alle spalle del pugile. D’istinto, sento che non mi piace.

«Qual è il sorvegliante?»

Il ragazzo indica il pugile in pantaloncini rossi.

«Come si chiama?»

Il ragazzo scrolla le spalle. «Red» dice, ma intende il colore dei pantaloncini.

«Fa il pugile, oltre che il sorvegliante?»

«Sì. A volte tira di boxe, a volte fa il sorvegliante. Lo conosco poco.»

«Sai dov’è ora?»

«No, mi spiace. Ma credo che il mio ufficio abbia il numero di telefono.»

«Grazie. Per che ditta lavori?»

«La Jayavarman Security. Le scrivo l’indirizzo.»

Si rivolge al poliziotto, rimasto ad ascoltare in silenzio. Per la prima volta noto che ha un’agenda e sta prendendo appunti. Con la sua penna, il sorvegliante scrive in khmer e in inglese sul dorso della fotografia e poi me la ridà.

Poung torna con calma, l’aria soddisfatta. Ha parlato con la cameriera della casa accanto, incontrata per caso sul vialetto mentre tornava dal mercato con la spesa. Sembra che la casa appartenga a una qualche ONG barang. La ragazza, che abita lì, dice di avere visto una Mercedes posteggiata nel vialetto di Maurice ieri sera sul tardi, quando è venuta al cancello d’ingresso. Poung sa perfino l’ora, poco prima di mezzanotte.

«Che cosa faceva la cameriera al cancello d’ingresso a mezzanotte?»

«Lei avere fidanzato. Fidanzato lui viene dentro, si ferma, esce mattina presto.» Il datore di lavoro della cameriera è single e lavora spesso nel Nord del paese.

Okay, un’ultima domanda al sorvegliante: conosce la cameriera di Maurice?

Thida? Sì, viene due volte alla settimana a fare le pulizie. No, niente cucina. Maurice non cucina mai in casa. Niente bucato, neanche. Maurice manda alla lavanderia. Solo pulizie.

Sa dove abita?

A Dey Krahom. Il sorvegliante scrive ancora l’indirizzo sul retro della foto, sotto l’altro.

«Tu hai visto me e i miei due amici qui, ieri, con Poung» gli dico. «Ti ricordi che Maurice ci ha inseguiti nel vialetto?»

Lui sorride: come potrebbe dimenticarsene?

E ti ricordi che April è uscita più tardi?

«Sì, è andata via non molto dopo.»

«E cos’è successo dopo che April e n’è andata? È venuto qualcuno?»

Certo. Maurice ha ordinato una pizza per telefono. Il ragazzo delle consegne è venuto verso metà pomeriggio e l’ha data al sorvegliante. Lui l’ha pagato con denaro suo, quindi l’ha portata a Maurice che gli ha restituito i soldi. Maurice ordinava spesso la pizza così. Questo succedeva alle tre. Il sorvegliante ha scritto tutto nel suo registro, sarebbe felice di farmelo vedere, se la polizia non l’avesse preso stamattina.

«La polizia ha fatto qualche domanda?»

Oh sì. La polizia del capitano Heng. Il capitano Heng è il suo capo. Un ottimo capo, sempre sollecito per i suoi uomini. Lui, il ragazzo, gli paga solo qualcosa per il tè e può avere tutto il tempo che vuole per fare il sorvegliante. Sono venuti due poliziotti, a cui ha detto esattamente quello che ha detto a me.

«Quindi i poliziotti che ti hanno interrogato erano tuoi amici?»

Sì, si potrebbe dire così. Non che li conosca bene, quei due. Anche se è strano che io glielo domandi, perché uno di loro era lo stesso che è venuto a sostituire il sorvegliante ieri sera. Poliziotto e sorvegliante, esattamente come lui.