11

Dey Krahom è un quartiere di baracche su un terreno di prim’ordine. Comodo per arrivare sul Lungofiume e al Palazzo Reale a nord, oltre che al nuovo distretto del Parlamento a sud, non dista molto, a piedi, dalle salubri strade suburbane e perfino dal ristorante di April a ovest. Per questo si progetta di abbatterlo e sostituirlo con vie di negozi.

Poung si ferma davanti a un piccolo spazio aperto di terra battuta da dove partono tre stradine fangose. Le abitazioni sono baracche di assi in legno e lamiere. Gli speculatori trattano con ogni singolo residente, un pacchetto di risarcimento in una mano e un bulldozer nell’altra. Appena una famiglia accetta il risarcimento, la casa viene demolita e lo spazio vuoto viene chiuso con il filo spinato. Il quartiere sembra una bocca sdentata. Distolto da una partita di calcio con gli amici, un ragazzo ascolta l’indirizzo che gli legge Poung e gli assicura di conoscere la via.

Nelle stradine ci sono persone che tornano o vanno al lavoro, bimbetti nudi che giocano nelle pozzanghere, bottegucce affacciate sul passaggio, dove si aggiustano motociclette o si vendono cibi fritti con bevande analcoliche, e bambini dappertutto. I ricchi diventano più ricchi e i poveri cavano ben poco. Il ragazzo si ferma davanti a una casa pulita con una fila di piante in vaso dentro una cassetta sul davanzale. La porta, poche assi inchiodate, si apre sull’ombra nera dell’interno. Al richiamo del nostro accompagnatore, compare una bambina, lo ascolta e di nuovo fugge dentro. Do qualche moneta al ragazzo che mi ringrazia e scappa via. Un’adolescente si presenta alla porta. La ignoro, aspettando Thida.

Poung mi guarda. «Okay?»

«Okay cosa?»

Infine ci arrivo. È lei Thida.

Sedicenne e, come ha detto April, dolcissima. Ci invita a entrare. In assenza di sedie, ci fa sistemare sui tappetini e manda la bambina a prendere una Coca alla bancarella in strada, ma rifiuta la mia offerta di pagare, scusandosi per il disordine. Non c’è disordine. Tutto è lindo, le coperte e i lenzuoli impilati contro un muro, i tappetini per dormire arrotolati accanto, uno sopra l’altro, i libri di scuola vicino a una lavagna bianca con quelle che sembrano lezioni di khmer per la bambina, gli abiti sulle grucce o in altre pile ordinate, le pentole appese ai ganci sopra la cucina in fondo. Thida abita qui con la sorella maggiore, che vende cibo sul Lungofiume, il cognato, proprietario di un mototaxi, e la nipotina. Attraverso Poung, le chiedo se posso farle qualche domanda.

Il signor Maurice? Era sui giornali cambogiani del mattino, è molto dispiaciuta per l’accaduto. Era un buon padrone, molto gentile, anche se non lo vedeva spesso.

Lavorava per lui la domenica e il mercoledì. Nulla d’insolito. No, la polizia non è venuta a cercarla.

La ringrazio ed esco con Poung.

«Cosa pensare?» domanda lui quando torniamo al tuk-tuk.

«Molto carina» rispondo senza sbilanciarmi.

«Già. È giovane» osserva, anche se la ragazza non ha molti anni meno di lui. Sorride. «Io dare mio telefono. Lei dire forse chiamare me.» Ridiventa serio. «Dove andare adesso?»

C’è tempo per una visita alla Jayavarman Security. Mi arrampico sul tuk-tuk, Poung mette in moto, ma il catorcio emette un lamento e spira. Lui mi chiede di scendere, solleva il sedile del passeggero per prendere gli attrezzi e io resto lì, mentre armeggia nelle viscere oleose del suo zombie meccanico.

«Quando riavrai il tuo tuk-tuk?» gli domando.

Poung non alza lo sguardo. «Polizia dire dovere pagare per cinquanta dollari. Tutti stessa cosa, dovere pagare per tuk-tuk.»

«E che cosa avresti fatto di sbagliato? Hai disobbedito forse a qualche legge?»

«Nessuna legge. Ma se polizia dire essere legge, allora essere legge. Polizia dire nessun tuk-tuk potere dormire su Lungofiume.»

«Da quando?»

«Da ora. Detto polizia. Io sapere una cosa» mi confida Poung, mentre continua a darsi da fare. «Su sorvegliante di notte? Io sapere. Lui molta, troppa paura, lui pensare polizia pensare lui uccidere signor Maurice, così lui non stare più qui, lui scappare.»

Lo fisso a bocca spalancata. «Come lo sai?»

Poung alza gli occhi con aria compiaciuta. «Stamattina io andare da polizia per tuk-tuk, molti molti guidatori di tuk-tuk, tutti volere tuk-tuk da polizia. Tutti aspettare e tutti dire questa cosa di signor Maurice: qualcuno fare lui morire.»

«Assassinato.»

«Sì, fare lui morire assassinato. Da polizia, un uomo dire me. Lui uguale-uguale come me, venuto per tuk-tuk. A volte lui guidare tuk-tuk, a volte lavorare come sorvegliante, stessa ditta sorveglianti. Quest’uomo dire me lui conoscere questo sorvegliante. Lui dire questa mattina di oggi sorvegliante lui venire ufficio, tutti uomo d’ufficio dire quest’uomo uccidere Maurice. Allora quest’uomo sorvegliante molta paura, perché lui sorvegliante casa signor Maurice, e lui scappare così polizia non prendere lui.»

«Perché non me l’hai detto?»

Poung scrolla le spalle. «Tu non chiesto.» Assestato un colpo finale con la chiave inglese, si pulisce le mani in un lurido straccio comparso da sotto il suo sedile. «Tu pronto, noi andare. Spiacente per aspettare.»

«Poung, io ho bisogno di un tuk-tuk che funzioni, non di questo mucchio di ferraglia. Ti darò io i cinquanta dollari.» Per un guidatore di tuk-tuk, è una bella somma, considerando che, se ne fa cento in un mese, è fortunato.

Lui mi guarda un momento e scuote la testa. «Non esserci bisogno. Io fare soldi guidando tuk-tuk, trovare clienti.»

«Ti assumo per una settimana. Pagamento anticipato.»

Poung sorride e slancia la gamba sopra la sella. «Okay, se come tu dire, okay.» Sorride e avvia il motore. «Ora andare fare visita ditta sorveglianti, eh?»

Gli uffici della Jayavarman Security occupano il pianterreno di uno scialbo edificio sul Monireth Boulevard, una strada movimentata, ma anonima e priva di qualunque attrattiva, vicino all’Intercontinental Hotel. All’esterno c’è un marciapiede ingombro di moto, all’interno una reception. Un’altra segretaria, sorella di quelle impiegate da Leo e dal colonnello Rong, abbigliata in modo impeccabile e trasudante superiorità, alza lo sguardo dal banco dove si dava da fare con le unghie. «Posso esserle utile?»

Ho preparato la battuta mentre arrivavo. «Sono proprietario di un bistrò sul Lungofiume e ho bisogno di un sorvegliante per il turno di notte. Mi domandavo se poteste aiutarmi.»

La segretaria mi rivolge un dolce sorriso. «Noi ci occupiamo della sicurezza per molti locali sul Sisowath Quay. Tutti i nostri sorveglianti ricevono un addestramento professionale e vengono scelti dopo accurati controlli. Possiamo fornirvi una sorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro con collegamento diretto alla base e rinforzi rapidi, oltre al collegamento con la polizia locale a Khan Daun Penh. Per la sola sorveglianza notturna, dalle 19 alle 7 di mattina, la nostra tariffa ordinaria è...»

Mi dice la tariffa ordinaria, e qualunque idea potessi avere di firmare un contratto con la Jayavarman Security si dissolve.

Tiro fuori la fotografia di Red avuta dal sorvegliante a casa di Maurice. «In effetti, vorrei quest’uomo. Mi è stato raccomandato da un amico.»

La segretaria prende la foto. Corruga la fronte. «Quest’uomo? Lei vuole quest’uomo?» Tiene la fotografia con il braccio teso, come se stesse esaminando un campione di feci. «Lei vuole quest’uomo?» Mi restituisce la fotografia. «La polizia lo sta cercando.»

Un deterrente non da poco per il prosieguo di una conversazione. Mi mostro stupito. «Ma il mio amico era molto soddisfatto di lui.»

La ragazza non si lascia smontare e arriccia le labbra con fermezza. «La polizia dice che ieri sera ha assassinato il suo datore di lavoro.»

Tento di esagerare lo choc e l’orrore. «No! La polizia dice così?»

La ragazza sta perdendo interesse per la conversazione e guarda con desiderio un flaconcino di smalto viola. «La polizia non l’ha detto» concede. «Loro dicono solo che il datore di lavoro di quel sorvegliante è stato ucciso e il sorvegliante è fuggito, quindi lo stanno cercando.»

«Quindi forse non ha commesso l’omicidio? Dopotutto, era stata la Jayavarman Security a fornirlo.»

La ragazza si arresta, intuendo la trappola. Considera le possibilità e decide di rinnegare Red. «Non è più con noi. Se vuole, posso darle il numero del suo cellulare. L’abbiamo già dato alla polizia.»

Preso un cartoncino da una pila, scrive un numero tratto da un registro e me lo porge con un dolce sorriso. «La prego, ci chiami se decidesse di assumere dei sorveglianti professionali per il suo locale.»

Torno al Civilisation proprio mentre una coppia di backpacker si avvicina alla porta, guarda dal vetro e si allontana. Già da un pezzo, mi attraversa il pensiero che sarebbe un’ottima idea avere un usciere che aprisse la porta ai turisti timidi con un sorriso incoraggiante, assicurando loro che, in fin dei conti, non saranno assassinati nel caso volessero entrare, né le loro interiora verranno servite come salsicce, perché se c’è una cosa che tutti i viaggiatori sanno della Cambogia, è che è un posto pericoloso, amico.

Champei e le tre ragazze sono impegnate a sistemare il locale per la sera. Al mio ingresso, mi salutano, ma poiché non c’è nulla da fare, mi siedo al banco. Fa parte del mestiere di chi possiede un bar: te ne stai seduto al banco perché non c’è un dissuasore di potenziali clienti più efficace di un bar vuoto.

Come previsto, i backpacker, un tizio giovane con la moglie, tornano dicendo che mi hanno visto entrare e hanno deciso che il locale dev’essere a posto, dopotutto. Un punto per me. Ordinano una Coca e mi domandano se posso garantire sul ghiaccio. Alla mia rassicurazione, ne ordinano a palate e scelgono un tavolo. Comincio le parole crociate del Post. Champei continua a piegare tovaglioli, mentre osservo come la cascata dei suoi capelli cattura la luce. Lei si accorge del mio sguardo. «Perché mi guardi sempre?» Dice in khmer qualcosa che non sembra lusinghiero e, quando vede che non capisco, mi fa un sorriso. Sta cercando di insegnarmi la lingua, ma non c’è niente da fare. Nulla sembra imprimersi nella mia mente. Conosco qualche parola, ma non saprò mai come pronunciarla. Champei non sembra avere questo problema. E neppure Poung. Devo essere io. Mi metto ad aiutarla con i tovaglioli.

«Perché così silenzioso?» mi domanda.

«Niente. Pensavo.»

«Pensare non buono. Diventerai pazzo.»

Molto khmer. L’introspezione non fa bene.

«Che cosa dice la canzone?» Champei ha messo su un pezzo di musica pop cambogiana. Una ragazza sta cantando qualcosa di zuccheroso con un lamento acutissimo. Peggio di Shake Your Money.

«Niente. Ragazza amare ragazzo, ma ragazzo non amare ragazza. Lei dire, perché tu non amare me, io credo di morire.»

«Mettine un’altra.»

Ne mette un’altra.

«Cosa dice questa?»

«Ragazza amare ragazzo, ragazzo non amare ragazza, lei dire perché non amare me, io credo di morire. Okay, ho capito.» Ne mette su una terza.

«Che cosa...»

«Mettere su tua musica, okay?»

Mette su la playlist di jazz. È Grant Green che canta I Wish You Love, il genere di jazz soft che si fonde con la tappezzeria. Grant può andare avanti per qualche pezzo.

«E allora, cosa stai pensando, capo?»

«Pensavo di trovarti un marito. Lo vorresti un barang ricco?»

«Ahaa! Un marito per me! Uomo no buono.» Questa è una risposta convenzionale. Nessuna ragazza khmer lascerà pensare di sé che voglia un uomo. Champei fa una pausa. «Ma se ricco, okay, mi piace.»

«E se è grasso?»

Champei mi guarda come un bambino che ancora non sa allacciarsi le stringhe nonostante le ripetute lezioni. «Se ricco, è grasso, no? Anch’io divento grassa se divento ricca.» Fa una risatina. Le getto un’occhiata. Di sicuro, grassa non è.

Sokanthea arriva con un vassoio di involtini primavera per i turisti e le chiede perché ride. A differenza di Champei, fisicamente potrebbe forse essere descritta come rassicurante. Va bene per una cuoca: rassicurante. Quando Champei glielo spiega, torna ridacchiando in cucina. È una buona battuta.

«Vi state di nuovo prendendo gioco di me, voi due? È il modo di trattare il vostro capo?»

Champei comincia a controllare le scorte dietro il banco. «No, capo, noi mai prenderci gioco di te, tu bravo capo.» Poi, in tono pensieroso: «Sokanthea dice che abbiamo bisogno di un po’ di pang per la festa sulla barca del tuo amico stasera. Credo tu dimenticato. Mando Poung?». Gli inglesi hanno lasciato alle loro ex-colonie il purè e il sugo grumoso, ma i francesi hanno lasciato i panini rotondi, chiamati pang dai khmer.

«Champei, tu sei il mio angelo. Perché non mi sposi?»

Ride. «Tu non ricco. Troppo magro. Ad ogni modo, tu non serio.»

Esce per dare istruzioni a Poung. Grant Green finisce. Segue Keith Jarrett. So che tutti amano Keith Jarrett. Le ragazze abbassano sempre il volume il più possibile, in modo da non doverlo ascoltare. Keith sta suonando De Drums. Può continuare così per ore, quell’uomo è l’equivalente musicale di Via col vento, le percussioni e il piano e tutto il resto vanno avanti e avanti. E avanti. Keith lancia un piccolo grido di estasi.

A Champei non ho detto a che cosa sto pensando perché non voglio allarmarla, ma si tratta di Maurice. Ristoratore, uomo d’affari, amato più o meno come il maiale a Gerusalemme, ma chi mai lo avrebbe voluto morto? L’omicidio implica un forte movente, ma non riesco a pensare a nessuno che volesse ucciderlo, non veramente.

I backpacker ordinano un’altra Coca.

Punto Due: direttrici per ulteriori indagini. Questo è più facile. Il sorvegliante è scomparso. Ho il numero di telefono. Ora sarebbe un buon momento per chiamarlo. Trovo il biglietto della Jayavarman Security nel mio portafoglio e compongo il numero scritto dalla ragazza. La suoneria modula una canzone cambogiana (ragazza amare ragazzo...) finché qualcuno risponde. Una donna. Una donna anziana che parla khmer, querula, irritata perché una voce in una scatola disturba la sua giornata. Non capisco una parola. «Un momento, un momento!» Faccio un cenno a Champei, che prende il telefono e ascolta, quindi parla e poi ascolta di nuovo.

«Che cosa dice?»

«Chiede che cosa vuoi. Dire tu telefonato lei. E allora, cosa vuoi?»

Giusto. «Chiedile se c’è suo figlio.»

Champei parla. La donna risponde. Parla ancora Champei, Riceve una lunga risposta. Ancora e ancora e ancora, finché Champei mette la mano sul telefono.

«Lei dire sì.»

«Solo sì? Dopo tutto questo tempo? Chiedile soltanto se posso parlare con lui, allora.»

Champei parla ancora. Copre il microfono, mi guarda con un sorriso. «Lei chiede se tuo nome Sokal. Anche se tu della polizia. Io dico no tutte e due le volte. Cosa avere fatto, capo?»

«Niente, continuo a dirlo a tutti. Chiedile ancora se posso parlare con il figlio.»

Di nuovo Champei parla, di nuovo riceve una lunga risposta. Stanno forse scambiandosi ricette o commentando la telenovela di ieri sera?

«No» dice Champei infine.

«No? Solo no? Cos’altro ha detto?»

«Dice suo figlio lui non lì.» Champei si ferma e si corregge: tutte quelle costose lezioni d’inglese non andranno sprecate. «Dice che suo figlio non sta lì!» Alza una mano: «So quello che tu volere dire. Aspetta». Parla di nuovo: la conversazione continua articolandosi in un cha-cha-cha.

Incoraggiante. Non è un invito a una danza latino-americana. È l’equivalente khmer per la parola “sì”. Qualche progresso è in corso. Il khmer ha due parole per dire “sì”, cha, usato dalle donne, e ba, usato dagli uomini. Perché una lingua abbia bisogno di due parole per dire “sì” va al di là della mia comprensione, ma gli Dei delle Diversità Culturali seguono vie misteriose.

Champei chiude la telefonata. «Okay, capo, tu domani mattina andare a suo villaggio. Suo figlio è fuori con gli amici adesso, pensa andato a giocare, ma domani sarà lì, lei fare lui promettere. Okay, sono una ragazza intelligente, no?»

«Tu sei una ragazza intelligente, sì!» rispondo, e le soffio un bacio. Non ho mai baciato Champei, neppure sulla guancia, perché le ragazze khmer rispettabili non si fanno toccare dagli uomini, non in pubblico, ma soffiare un bacio è okay se sei un pazzo straniero ignorante.

Champei sorride. «Già,» dice «ma è meglio tu sapere una cosa.»

«Che cosa?» domando con un tuffo al cuore. Tutte quelle chiacchiere avranno pur riguardato qualcosa, dopotutto.

«Bene, suo figlio, lui non volere vedere te. Non volere vedere nessuno. Lei pensare lui avere un problema, ma lui non dire lei. Così io dire lei tu volere dare lui lavoro qui. Dire tu pagare lui tanto-tanto. Per questo lui essere là domani. Sua mamma fa stare lui di sicuro. Sì, capo. Se io non dire questo, di sicuro lei e lui dire perché tu voler parlare con loro. Penso questo modo meglio, no?»

Capisco che ha ragione. «Champei, non so che cosa farei senza di te.»

«Neanch’io» ridacchia lei. «Ora tu dire me, come andare a questo villaggio? Perché con tuk-tuk di Poung impossibile. Troppo lontano.»

Le rispondo che chiederò a Crew di accompagnarmi. Nel frattempo i due viaggiatori finiscono le loro bibite e si apprestano a pagare. Domando loro che cosa hanno fatto oggi. «Stupefacente» dice il giovanotto. «Campi di Sterminio e Museo del Genocidio. Stupefacente.»

«Già» fa la ragazza. «Ma un po’ deprimente, no? Grazie al cielo la gente non viene più uccisa, eh?»

I due se ne vanno mentre Poung, tornato con i panini, li dà a Champei e mi sussurra: «Io parlare te? Non qui, fuori».

Fuori, vicino al tuk-tuk, mi dice che, mentre era alla panetteria, è arrivata una telefonata dalla sorella maggiore di Thida. La polizia è andata in Dey Krahom poco dopo che siamo usciti e ha portato via Thida. Ora l’hanno appena rilasciata. Thida ha chiesto alla sorella di dire a me e a Poung di andare da lei. «Signor Burl, questo non buono. Poliziotti bastardi. Tu venire casa Thida con me?»

Dico a Champei che resterò fuori per un po’.