Porto di Phnom Penh, poco dopo l’alba. Il sole cerca di emergere dalle nubi, pronto per il lavoro della giornata. Le folle sono già uscite di buona lena in cerca della colazione.
Crew tende qualche banconota stropicciata a una venditrice con un buffo cappello di paglia, prende tre uova bollite dal suo vassoio, me ne passa una e getta l’altra a Sovann, seduto in automobile con il finestrino abbassato e l’aria condizionata accesa. Rompiamo i gusci sulla ringhiera di ferro e li lasciamo cadere nel fiume, dove ondeggiano insieme a bottiglie di plastica schiacciate e fradici gusci di noci di cocco. Crew ne acquista tre da un altro venditore che trancia via la parte superiore con il machete e vi infila una cannuccia di plastica.
Durante la guerra i khmer rossi aspettavano nascosti sull’altra riva del Mekong e lanciavano i razzi contro le chiatte provenienti da Saigon con gli approvvigionamenti. Se giungevano al porto di Phnom Penh, erano salve.
La traversata del mattino è meno avventurosa di questi tempi. All’arrivo di un traghetto bianco e blu, i veicoli risalgono a tutto gas la riva in una nuvola di polvere, circondati dai pedoni con ceste di pesci e verdure per i mercati cittadini. Mi piacciono i nomi dei mercati. Psar Chas, Psar Kandal, Psar Thmei. Suonano più romantici delle traduzioni: Mercato Vecchio, Mercato Centrale, Mercato Nuovo. Anche se Mercato del Boschetto di Bambù ha un tocco di classe.
Quando la folla si disperde, il capitano del traghetto fa cenno a Sovann, al volante del suo SUV dorato, di salire a bordo per primo. In testa alla coda, si capisce. Dietro di noi, un camioncino mal ridotto, ragazzi in motocicletta, uno o due carretti a pedali e, ultimi, i pedoni – donne di ritorno dal mercato, bambini di strada, vecchi in libera uscita per una giornata di pesca.
Stiamo per partire, quando un’automobile della polizia arriva a tutta velocità e si ferma con la sirena ancora ululante. Tutti rimangono a guardare. La porta del passeggero si apre, e Champei salta fuori correndo verso di noi. «Ehi, capo, vengo anch’io! Accidenti, tu grosso pasticcio!»
Il capitano Pov compare lentamente dal posto del guidatore, come una lumaca che esce dal suo guscio. Una lumaca rabbiosa, una lumaca con una rimostranza. Appoggiato alla portiera, mi fa cenno: vieni! In Asia, si fa cenno a qualcuno con il palmo rivolto in giù e muovendo quattro dita, come per grattare la pancia di un cane. Un modo educato. Il capitano Pov tiene il palmo voltato verso l’alto, usando solo l’indice. Che non è educato.
Avanzo per il sentiero polveroso tra venditori, massaie e scolari intenti a osservare il barang con cui il poliziotto vuole parlare, tutti senza dubbio grati che non tocchi a loro.
Pov aspetta che arrivi, sdegnoso, questa volta, di venirmi incontro a metà strada. Ma stranamente, quando mi avvicino, rivela un’aria più stanca che incollerita. Sposta il suo peso sul telaio della portiera. «Signor Burl, io volere parlare con lei.»
Tendo la mano. Lui l’ignora e mi dà un colpetto nel torace con l’indice. «Capitano Heng venire vedere me presto stamattina. Lui molto arrabbiato con lei. Anche colonnello Rong molto arrabbiato con lei. E io anche. Perché lei fare così?»
Inutile fare il finto tonto.
«Mi dispiace, veramente. Ho solo pensato che forse avrei potuto scoprire qualcosa se fossi andato a dare un’occhiata alla casa. Non ho toccato niente.»
«Lei pensa tornare in quella casa e non significare nulla? Ora io dire da parte di me, di capitano Heng e colonnello Rong, lei non andare vicino a quella casa, capito?»
«Sì, ho capito, sono davvero spiacente.»
A quanto pare, ingoiare il rospo è l’approccio giusto. La faccia del capitano Pov si rischiara leggermente, mentre il suo tono si fa più civile.
«Bene, okay. E allora, cosa fare lei là?»
«Non molto. Ho parlato con il giardiniere, ma immagino che i suoi uomini abbiano fatto altrettanto.»
«Non miei uomini. Uomini capitano Heng. Cosa detto giardiniere?»
«È sordo, non sente. Non sapeva nulla.»
Pov annuisce. «Che altro?»
«Nient’altro.»
Il capitano scuote la testa. «Lei non andato dentro?»
«Non volevo lasciare le mie impronte dappertutto.»
Questa non è proprio la verità, ma non è proprio una bugia. La mia risposta soddisfa il capitano Pov. «Okay, signor Burl, okay per adesso. Ma lei non andare più a quella casa o problema per lei. Grosso, grosso problema per lei. Un’altra cosa. Il colonnello Rong detto lei non lasciare Phnom Penh, eh?»
Oddio, è vero. Onestamente, me n’ero dimenticato. «Solo oltre il fiume» dico. «Tornerò per l’ora di pranzo.»
Il capitano sembra stranamente poco interessato alle mie scuse e alza una mano per fermarmi. «Okay, okay, signorina Champei detto me, lei andare solo per trovare quest’uomo. Lei trovarlo, tornare Phnom Penh, dire me. Subito. Capito?»
Annuisco. «Capito.»
«Questo è mio biglietto.» Pov mi dà il biglietto da visita preso dal portafoglio, quindi sale sull’automobile e si allontana senza più voltarsi.
Il traghetto salpa e scende verso il Mekong. Il fiume è quasi deserto, ma i pescatori vietnamiti stanno gettando le reti dai sampan, quando doppiamo il punto dove il bruno Tonle Sap incontra l’azzurro Mekong. Una draga è duramente impegnata a togliere dal fondo la sabbia che viene pompata verso la riva di Phnom Penh per interrare il Boeung Kak, il lago al centro alla capitale, prediletto dai backpacker con pochi soldi.
Un nuovo lussuoso complesso sorgerà al posto dello specchio d’acqua prossimo a sparire, così i turisti dovranno trovare qualche altro posto per fumare la roba, mentre si vantano della loro capacità di vivere con noodle e spiedini di pollo per un dollaro al giorno. Anche l’acqua del monsone dovrà trovare un altro posto dove andare e dubito che un posto del genere esista, ma questo è un problema di un altro giorno.
Immessi nel Mekong, risaliamo verso la riva più lontana, ancora rurale, ma non per molto. Il nuovo ponte progettato sul fiume sta facendo lievitare i prezzi. Crew dice che vuole fare un sopralluogo per un affare.
«Sicuro, già che siamo qui, ve lo faccio vedere, magari buono per voi, se lo volete. Mettete giù mille dollari per tenere terreno, trovate compratore, prendete commissione e forse fate diecimila dollari. Usate mio nome. In fretta, però.» Sogghigna. «Sicuramente tutto questo pazzo. Sicuramente tutto quanto crollare un giorno. Ma oggi facciamo un po’ di soldi, okay?»
Le ultime parole sono rivolte a Sovann. Appoggiato alla battagliola, Sovann osserva muto il fangoso Mekong che porta l’Himalaya fino al Mar cinese meridionale. Dubito che diecimila dollari abbiano un qualche valore anche come spiccioli, nel suo mondo.
Le barche del villaggio galleggiante di pescatori sono raccolte attorno all’approdo, capanne in lamiera su chiatte e sampan, tra le quali i bambini giocano nell’acqua. La rampa in ferro del traghetto atterra nel fango, la catena viene tirata, e Sovann spinge la Lexus a tutto gas su per la salita verso la fila di negozi in cima. Rimontiamo a piedi dietro di lui e saltiamo in automobile.
«E adesso dove andiamo?» domanda lui in inglese.
«Tu già stato qui prima?» s’informa Crew, anche lui in inglese.
«Macché. È la prima volta che vengo da queste parti. Sono stato troppo in America. Ora devo imparare a conoscere il mio paese.»
Passando al khmer, Crew ci guida per una strada parallela al Mekong. Oltre il fiume, scorci di Phnom Penh, le tegole arancioni e le guglie bianche del Palazzo Reale occhieggiano tra gli alberi, insieme alle nuove costruzioni innalzate più dietro.
Dopo un po’, svoltiamo in una strada laterale e ci fermiamo a una baracca di assi e lamiere vicino a un lungo lago stretto, probabilmente un canale di scolo del fiume nella stagione delle piogge. Crew entra nella baracca dove lo vedo parlare con un vecchio, finché, al suo cenno, scendiamo a dare un’occhiata.
«È questo» ci dice. «Questo terreno. Il proprietario vuole quarantamila. Io potere avere opzione per mille per tre. Penso cinquanta non problema. Conosco alcuni tipi coreani.»
«Vuol dire» traduce Sovann «che lui pagherà un deposito di mille dollari per tenere il terreno per tre mesi e nel frattempo cercherà di venderlo per cinquantamila. Se ci riuscirà, ne darà quarantamila al proprietario.»
«E se non ci riuscirà?»
«Perderò un mille» sogghigna Crew. «E prossima volta proprietario volere cinquanta e io cercare vendere per sessanta. Questa è Cambogia oggi, pazza, ma quando tutti sono pazzi anch’io devo essere pazzo.»
Champei dice qualcosa in khmer con tono irritato, ma Crew ride. «Io dire lui di sicuro essere pazzo» mi spiega la ragazza. «Questi non affari, gioco d’azzardo.»
Crew ride ancora, ma Sovann fa un quasi impercettibile cenno di assenso.
«E quest’uomo è il proprietario?»
Guardo il vecchio. Sembra che abbia ottant’anni, ma ne avrà cinquanta, minuscolo, la pelle di un marrone scuro quasi nero, rinsecchito dagli anni sotto il sole, i piedi nudi screpolati e duri come radici. È la generazione dei khmer rossi. Forse lui li ha visti sparare i razzi alle chiatte sul fiume quando era ragazzo, forse li ha sparati lui stesso. Ora non fa differenza.
Crew sorride. C’è compassione nel suo sorriso, è un giovane sinceramente gentile. «No» risponde. «Lui custode. Penso che questo vecchio riceverà un salario, forse. Nulla di più.»
Proseguiamo in automobile. Guidati da Champei, avanziamo sulla strada lungo il fiume fino a un grande tempio fittamente decorato, scintillante di bianco e d’oro tra le palme. Un tempio ricco, dice Crew, ma il villaggio che si estende lungo la strada è palesemente povero, con le sue capanne di legno costruite su pali, sotto le quali al fresco le donne lavorano ai telai. Lo faccio notare a Crew che ride. «Tu pensare queste persone povere? Loro ricche! Questa terra valere milioni quando arriva il ponte per Phnom Penh. Loro vogliono tutti vendere ai coreani e trasferirsi in città!»
«E cosa faranno con il denaro ricevuto dai coreani per la loro terra?»
«Comprare motociclette e condurre mototaxi. Pazzi.»
Svoltiamo a sinistra, allontanandoci dal fiume lungo una strada sterrata che segue il perimetro del tempio fino a congiungersi a una strada asfaltata. Champei, al telefono, ascolta le istruzioni dalla madre del sorvegliante e ci conduce oltre risaie asciutte, dove alcuni ragazzi pascolano il bestiame, e attraverso un altro grande villaggio.
Continuiamo su strade più piccole e sconnesse, a malapena distinguibili dai campi circostanti, salvo che i campi sono spesso più pianeggianti. La Lexus si sta guadagnando la sua pagnotta.
«Per questo ci piacciono i SUV in Cambogia» dice Crew tra uno scossone e l’altro. «Strade non buone. Abbiamo bisogno di sviluppo, come America.»
Infine la strada arriva a un villaggio. Champei telefona ancora alla madre del sorvegliante e ci dà le indicazioni fino a un’abitazione oltre l’emporio, dopo altre dieci case. Costruita come le sue vicine su pilastri in cemento, costruita con assi da poco dipinti di fresco blu e un nuovo tetto di tegole con decorazioni di terracotta. Grandi giare d’acqua sono disposte vicino a una motocicletta dall’aria nuova e scintillante.
Seduto su un’amaca appesa fra due pilastri, un giovanotto con al suo fianco una piccola borsa nera in vinile osserva il nostro arrivo. Una piccola vecchia con un sarong intorno alle anche e un telefonino in mano compare in cima alle scale, ricambiando il saluto di Champei. Red scende dall’amaca e prende la borsa.
Red è intimidito dalla Lexus dorata, da Sovann e da Crew, e di certo dal pensiero di dover fare ritorno a Phnom Penh, ma dopo un dolente addio alla madre sale a bordo.
«È un po’ spaventato, capo» dice Champei. «Ma sua madre dire lui dover venire con noi.»
La madre ha già recuperato il suo buon umore mentre lo saluta, circondata da un branco di mocciosi attorno alle ginocchia. «Suo marito coltivatore riso, non tanto denaro; così lei contenta Red tornare a Phnom Penh.» Povero Red: la sua mamma non lo consegnerebbe mai agli sbirri, ma l’offerta di un lavoro è tutt’altra faccenda.
Una volta partiti, il ragazzo comincia a sentirsi più a suo agio, incantato da tutto: l’aria condizionata nella Lexus, il generoso stipendio che, a quanto ho detto a sua madre, gli pagherò (lei mi ha chiesto due volte conferma) e la descrizione fatta da Champei della splendida uniforme nuova per lui, camicia azzurra e pantaloni neri, con una cintura marrone di autentico vinile, due stivali nuovi, uno per piede, e due paia di calze. E il costo non sarà dedotto dal suo stipendio, come con la Jayavarman Security. Fantastico. Quando Champei gli dice che anche i pasti saranno gratis, si dà un colpetto sul magro ventre. E per tutto questo dovrà solo aprire la porta ai clienti e cercare di tenere i bambini di strada abbastanza lontani dal vetro, perché non vi lascino tracce. Quasi convinto di essere morto e di trovarsi nel Nirvana, dice qualcosa a Champei la quale traduce: «Lui dire non uguale uguale come vecchio lavoro, lui dire meglio. Lui domandare se tu dire vero. Io dire tu sempre dire vero. Giusto, capo?».
Giusto.
Per strada, telefono al capitano Pov e riferisco che sarò in città tra poco più di un’ora. Lui mi chiede di richiamarlo quando arriveremo al Civilisation. Ancora non ho detto a Red di questa parte dell’accordo.