«Chi sono i tuoi amici?» domanda Leo. Quasi hanno travolto il suo autista mentre filavano via per il vialetto, troppo in fretta per notare che il passeggero sul sedile posteriore era un barang sovrappeso vestito con un completo. Ora se ne sta seduto con il finestrino abbassato e l’aria condizionata al massimo. Ondate d’aria fredda soffiano nell’afoso pomeriggio di Phnom Penh, ma Leo continua a sudare.
«Non amici» dice April. «Falsi poliziotti.»
«Veri poliziotti» la contraddico.
April mi guarda stupita. «Tu hai detto che erano impostori!»
«Non penso che fossero qui ufficialmente per conto della polizia, ma erano veri poliziotti. Avevano le uniformi, le pistole e perfino le manette di ordinanza.»
Leo mi guarda con aria compassionevole. «Amico, chiunque può procurarsi delle uniformi della polizia e anche delle pistole e delle manette. Basta sapere dove fare spese.»
«E avevano paura del colonnello Rong» aggiunge April.
«Certo, quindi questo significa che non li aveva mandati lui. Ma Heng li ha identificati come suoi uomini.»
Leo assimila l’informazione. «Così» osserva «li ha mandati Heng. Mi domando che cosa abbia in mente. È un piccolo bastardo corrotto ma, per quanto ne so, finora non era mai stato coinvolto in faccende del genere. Ad ogni modo, devo andare. Voi siete a posto?»
«Tu mi conosci» rispondo. «Sono come Donnelly, mai un guaio con nessuno.»
«Già» grugnisce Leo. «Provane un’altra, la prossima volta.»
Comincia ad alzare il finestrino per tornare in ufficio, ma io lo fermo. «Leo, grazie per essere venuto.»
«Non pensarci. Quando ho sentito quelle parole...»
«Parole? Quali parole?»
«Qualcuno che gridava in khmer. Sai cosa stava gridando? Il fottuto barang ha un telefono, fermalo! A quel punto, ho pensato che avessi bisogno di aiuto. Dovresti imparare un po’ di khmer, Burl, sarebbe un bene per te.»
L’autista di Leo entra a marcia indietro nella strada senza urtare il cancello e scivola via. «Anch’io devo andare» dice April. «Devo tornare al ristorante.»
«Non vuoi scoprire che cosa c’è nella cassaforte?»
«Okay» risponde con un sorriso.
Torniamo di sopra e raddrizziamo il piedistallo, ma quando April preme i tasti dei numeri, non succede nulla. Lei si ferma incerta, quindi li preme ancora con maggiore attenzione. Ancora nulla. Si mette a sedere. «Ha cambiato la combinazione» dice con aria sorpresa e abbattuta.
La piastra della cassaforte è lunga più o meno come metà del mio avambraccio e larga altrettanto. Il biglietto da visita è incollato proprio sotto la tastiera.
«Che cos’è?»
«Non lo so» risponde April. «Non c’era l’ultima volta che ho visto la cassaforte. Ma questo è stato mesi fa. Ad ogni modo, che cosa pensi di fare?»
«Chiederò a Donnelly di venire. Non ha niente di meglio da fare.»
«Questo posto mi dà i brividi.»
Posso capirlo. Donnelly non è tornato qui da quando Maurice ci ha inseguiti per il vialetto. Gli mostro la cassaforte e la sua posizione alla base del tavolino, che ho di nuovo raddrizzato. Lui emette un rispettoso grugnito. «Intelligente il bastardo, ma non gli è servito a granché, no? Come l’apriamo?»
«April dice che ha un numero di sei cifre.»
«Sei? Sei cifre? Un numero tra uno e un milione?»
«No, amico, non è così tragica. Nessuno zero, tanto per cominciare, e poi un milione ha sette cifre.»
Donnelly sta guardando il cartoncino rettangolare sul davanti della cassaforte, diviso in una griglia di nove riquadri, ognuno con un gruppo di lettere dell’alfabeto, seguito da un numero, da uno a nove. «Che cos’è?»
«È la chiave del codice. Il gruppo ABC corrisponde a 1, DEF a 2 e così via.»
Donnelly alza lo sguardo con la speranza negli occhi.
«Quindi possiamo aprirla?»
«No. È inutile, senza la password.»
«Bastardo. E allora, qual è la password?»
«Non ne ho la minima idea. Per quella, dobbiamo entrare nella mente di Maurice.»
Donnelly mi fissa. «Maurice? Vuoi dire quel pazzo bastardo che ci ha inseguiti completamente nudo? L’uomo che butta fuori i clienti dal suo ristorante agitando una mannaia per la carne? Quello che ha corrotto il tuo amico Heng per incastrare Foggy senza alcuna altra ragione se non il fatto di essere un bastardo? Mi stai domandando di entrare nella mente di Maurice? No, amico, non posso dire di esserne capace.»
Prendo il bloc-notes che gli ho chiesto di portare. «Io farò i primi cento e tu il centinaio successivo. Prendila come se fosse un picnic. Poung porterà la sua ragazza e dopo ci faremo un caffè con la torta.»
Donnelly sospira e si accuccia davanti alla cassaforte. «Caffè. Splendido.» Poi si ferma e mi guarda. «Rong non ti ha detto di stare alla larga dalla casa?»
«Sì.»
Donnelly sogghigna. «Okay, andiamo avanti.»
Dopo un po’, arriva Thida con il caffè appena fatto in una brocca. Insieme a lei c’è Poung, a quanto pare indispensabile per portare il latte e lo zucchero.
Mentre Thida ci serve, faccio notare a Donnelly che, usando le tazze di Maurice, entreremo a contatto con le sue labbra. Donnelly squadra la tazza, il drago in apparenza inorridito, l’aquila, si direbbe, consenziente.
«A che numero siamo?» domanda lui.
«Ne abbiamo coperti circa trecento.»
«Non un granché.»
Thida se ne va, ma Poung trascina i piedi, traccheggiando intorno alla porta.
«Cosa c’è, Sherlock?»
«In cucina c’è quell’altra ragazza, la cameriera della porta accanto.»
«È qui? Spero che tu sappia cosa stai facendo.»
«Certo, nessun problema. Lei e Thida amiche. Lei dire vista ragazza che veniva a casa Maurice di tanto in tanto. Ragazza venuta quando nessuno qui.»
«Quando?»
«Molte volte. Lei dire questa ragazza forse fidanzata di Maurice. Buono?»
«Buono. Grazie, sei un grande Sherlock.»
«E Thida ora nessun problema con polizia?»
«Credo che abbiamo fatto un grande passo in quella direzione.»
Poung esce con aria compiaciuta.
«E allora che significa?» domanda Donnelly.
«Significa che Maurice aveva una ragazza, e Poung è felice perché questo scagiona Thida. Dovremo cercare di trovarla. Comunque sia, andiamo avanti.»
Infine Donnelly suggerisce di usare un trapano.
«Conosci qualcuno che ha un trapano?» domando.
«È vero. Conosci qualcuno?»
«Sicuro, la polizia. Dirai che sono antiquato, ma non voglio che Heng ci metta il becco. No, facciamo una sosta e pensiamoci.»
Donnelly si alza e cammina lentamente per la stanza. Esamina i mobili, corruga la fronte davanti ai dipinti, dà un’occhiata nello spogliatoio e vaga per il bagno. Infine, esce sul balcone e accende una sigaretta. Mentre ammira la vista, ispeziono il letto, sollevando un angolo dopo l’altro del materasso, un pesantissimo futon di stile giapponese leggermente macchiato. Sotto il terzo angolo, trovo una scatoletta metallica. La mostro a Donnelly. «È il caricatore della pistola di Maurice. April l’ha nascosto sotto il materasso.»
Donnelly sbuffa. «Quasi mi dispiace per il bastardo. Qualcuno irrompe in casa sua per ucciderlo e lui ha una pistola, ma la sua ragazza ha nascosto le munizioni. Peggio che sparare con le cartucce a salve.» Scuote la testa. «Proprio non riesco a entrare nella testa di quell’uomo. Viveva in questo modo, ma era un vero rifiuto umano. Quante combinazioni ancora?»
Guardo la tastiera. In teoria, se continuiamo a premere i numeri, alla fine dovremmo arrivare alla combinazione giusta. Ma non sono ottimista circa la possibilità di riuscirci questo pomeriggio. O anche questo mese. Dico a Donnelly che ce ne andiamo.
«Che cosa, lasciamo qui la cassaforte?»
«No. La porterò da me. Prendi il piedistallo da una parte.»
Donnelly fa un passo, poi esita.
«Non preoccuparti, non te lo lascerò cadere sulle dita.»
Ma non appena lo sollevo da un lato, la cassaforte scivola sul pavimento come una mano da un guanto: senza dubbio Maurice ha fatto costruire il tavolino su misura, e il rude trattamento inflitto da me e Junior l’ha fatta allentare. In realtà, è leggerissima. Sollevandola, sento qualcosa spostarsi dentro. Lasciamo il piedistallo dove si trova. Porky e Junior schiumerebbero di bile se sapessero quanto poteva essere facile.
Mollo Donnelly nella 136 e proseguo per il Civilisation. Davanti al locale, trovo la Lexus dorata di Sovann, seduto a bere un caffè con Crew all’interno. Sulla porta, dico a Red di prendere il carico e metterlo nella stanza sul retro.
«Una nuova cassaforte?» domanda Sovann.
«Non mia. L’ho trovata da Maurice. Sembra che per qualcuno sia molto interessante, anche se al momento non so proprio perché.»
«Forse dell’oro» risponde Crew. «Forse è una fortuna in oro!»
«Niente oro. Troppo leggera, e sento qualcosa che scivola, quando la muovo. Qualcosa di piccolo. Un po’ di musica?»
Metto su del jazz e mi faccio un caffè.
«Mi piace il tuo locale» si complimenta Crew. «La prima volta venuto qui, piaciuto. Veramente di classe, è un po’ come New York. Che ne dici, Sovann? È come New York?»
«Beh, un po’, forse un pochino» risponde Sovann.
«Bella musica» continua Crew. «Mi piace la musica. Tromba?»
«Già. Vecchio jazz.» È Tom Cat, l’album di Lee Morgan. Grande trombettista, morto ancora giovane, tragicamente ucciso dalla ragazza. «Come in Frankie e Johnny» dico. «Era il suo uomo, ma la trattava male.»
«Frankie e Johnny?» mi fa eco Sovann. «Non mi sembra Frankie e Johnny questo motivo.»
La tromba si ferma e parte un assolo di batteria. «È Lee Morgan, morto a soli trentatré anni.»
«Non lo sapevo. A New York andavo in qualche club, ma non si sentiva molto jazz. È un pezzo vecchio?»
«Come me. Ti piace il jazz? Il blues?»
«Certo che mi piacciono, ma preferisco il genere moderno.» Sovann sorride timidamente. Ha visto l’America, dove la gente non fa mistero dei suoi sentimenti, e qui si ritrova in Cambogia, dove ognuno avvita il coperchio e sorride e sorride finché un giorno la pentola esplode e tutti in cucina vengono imbrattati da ciò che c’è dentro. Credo che lui abbia avvitato per bene il suo coperchio.
«Mi piace Michael Jackson» continua. «Sono stato ai suoi concerti. Conosci Billie Jean?»
L’asessuato Michael Jackson, mano sull’inguine e bacino in fuori, un altro mistero, ma grande uomo da palcoscenico.
L’album è passato a qualcosa di morbido, dolce e delicato. «Anche a me piace Michael Jackson» dice Crew. «Come questo. È romantico. Si dice romantico?»
«Certo, romantico. Va bene per quando fai le ore piccole con la tua ragazza.»
Crew ride. «Io non posso permettermi una ragazza. Una ragazza è costosa, devi comprarle le cose, o si trova un altro.»
«E il romanticismo, Crew? Le ragazze khmer non vanno con un ragazzo solo perché lo trovano di loro gusto?»
«Certo, ma se non ha i soldi, loro mamma dire non più questo ragazzo, trova ragazzo con soldi e grande automobile. Ragazza può essere romantica, ma sua mamma mai!»
«Pensavo che il buddismo insegnasse che l’attaccamento e il desiderio sono la causa di tutti i problemi. Ora mi dici che non riesci a farti una ragazza in questo paese, a meno che tu possa garantirle un’automobile per impressionare sua madre?»
Crew ride. «Tu ragione. Non siamo più buoni buddisti.» Ci scherza, ma Sovann non sorride.
Un taxi passa di fuori. «Sovann, ho sentito che c’è la tua compagnia di taxi dietro questo divieto ai tuk-tuk di sostare la sera sul Lungofiume. Lo sai che cosa succede ai proprietari? Non è una buona cosa per loro.»
Sovann sussulta. «Non la mia compagnia di taxi, ma quella di mio padre. Io mi limito a dirigerla. È stata sua l’idea di spingere il consiglio municipale a mettere il divieto per i tuk-tuk. Io sto cercando di fargli cambiare idea.»