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Come ho accennato, ho trascorso alcuni anni in prigione in Australia, ma forse dovrei spiegare che in realtà non ho fatto nulla di male. Certo, questo è ciò che dicono tutti. Mai incontrato nessuno, dentro, che avesse fatto qualcosa di male. Comunque, quello che feci fu aiutare mio padre a cavarsi dai guai. Lui era uno sbirro dell’antidroga, vita grama. Di solito, lavorava sotto copertura. Non si ha idea di che cosa passino quei tipi. Ad ogni modo, mio padre prese a sua volta l’abitudine di drogarsi. Me lo disse un giorno, una grande confessione. Giurò che voleva liberarsene e venirne fuori. Ma aveva bisogno del mio aiuto. Solo poche altre transazioni e sarebbe stato libero. Non volevo tenergli semplicemente la roba? Dissi di sì. Non vedevo come potessi dirgli di no. Il giudice lo vide però. Fu molto corretto sulla faccenda, disse che ero stato spinto dalla più alta motivazione, ma non aveva altra scelta, se non spedirmi per due anni in un alloggio a spese del contribuente. Quando infine uscii, la mia carriera nel giornalismo era finita. Così venni a Phnom Penh, ed eccomi a leggere il Post in attesa dei clienti.

Proprio mentre arrivo alle pagine di cronaca mondana, si ferma un taxi e ne scendono due barang, due stranieri occidentali. Entrambi indossano un completo, e la prima cosa che fanno appena toccano terra è di togliersi la giacca e buttarsela sulla spalla. Indossare un completo in Cambogia è una follia, ma quelli passeranno tutto il giorno a saltare dall’aria condizionata di un’automobile a quella di un ufficio, incontrando gente importante, convinta che completi e cravatte facciano la serietà di una persona. A mio parere, sono il segno di persone in cerca della morte, ma a me sta bene, se significa che cominceranno con una colazione nell’aria condizionata del Civilisation. Champei li fa sedere a un tavolo sul fronte, e quelli buttano le giacche sugli schienali delle sedie.

Faccio due chiacchiere con loro, dopo che Champei ha preso le ordinazioni. L’Asia Sud-Orientale è in pieno boom, mi dicono. I prezzi delle proprietà immobiliari sono alle stelle, e loro hanno un grosso affare in pentola, un nuovo resort con il golf su un’isola. Mi dicono anche quanti soldi sono in ballo, e io cerco di dare l’impressione che di solito in cassa ne ho più o meno altrettanti. In aggiunta alle nove buche (l’isola è piccola), dovranno esserci ville e appartamenti di lusso, una marina e una piattaforma per gli elicotteri per portare gli ospiti avanti e indietro dalla terraferma. Naturalmente, c’è un socio locale che si prenderà la fetta più grossa dell’affare, ma i margini di profitto sui resort di lusso nelle isole sono molto alti, quindi c’è qualcosa per tutti.

Mentre chiacchieriamo, un moccioso fuori dalla porta schiaccia il naso contro il vetro. Ha le costole come una strada di campagna, e i calzoncini strappati, di parecchie taglie più grandi, sono tutto ciò che si frappone tra lui e la completa nudità. È proprio il tipico bambino di strada di Phnom Penh. Champei mi guarda, faccio un piccolo cenno che un banchiere non noterebbe, e lei va fuori, dà al moccioso un involtino primavera e l’avverte di riferire ai suoi amici che il prossimo si beccherà uno scappellotto. Dopo di che, si china a bisbigliare qualcosa. So che cosa sta dicendo: la nostra cuoca, Sokanthea, mette gli avanzi nella stradina sul retro, quando chiudiamo. Sokanthea ha circa cinquant’anni, ed è una donna florida e allegra, il tipo più dolce e materno che possiate trovare. Il bambino se ne va, ma ha visto i banchieri, e so che, quando loro usciranno, lui sarà là fuori ad aspettare e girare in tondo come lo Squalo di Spielberg.

Mi rendo utile piegando i tovaglioli, ma ho appena cominciato, quando la porta si oscura. È il mio amico Donnelly. I suoi occhi fanno fatica ad abituarsi alla penombra interna dopo la luce abbagliante nella strada, così sbircia per il bar con aria preoccupata, prima di vedermi. La sua familiare faccia irlandese si apre in un sorriso. «Bastardo!» esclama. Colgo una traccia di imbarazzo.

I due banchieri alzano lo sguardo, e un’espressione turbata attraversa le loro facce quando vedono chi è in arrivo. Per me, Donnelly ha il solito aspetto di un nonno rugoso degli Hell’s Angels impegnato in uno sciopero della fame, con il cranio rasato decorato con un’aquila urlante e un drago sputafuoco che erutta fiamme giù dal collo, gli avambracci coperti di catene e di teschi. Tutto questo, in realtà, non significa nulla, ma tende a lasciare sconcertate certe persone. I banchieri, per esempio.

Uno della coppia alza due dita, e Champei porta il conto. Non è la prima volta che mi attraversa l’idea che Donnelly non giovi agli affari. Ai miei, perlomeno. Sui suoi, non sembra avere alcun effetto negativo. Lui ha un locale nella 136, il Donnelly’s Irish Bar, e il suo personale è decisamente meno vestito del mio.

Donnelly prende uno sgabello al banco. «Amico, che diavolo dobbiamo fare!»

Mentre si sistema, una seconda ombra più grande appare alla porta, e Smiff entra furtivo. Ha la stessa aria di sempre: un grosso pacco informe legato malamente con uno spago. Si guarda placidamente intorno, la placidità è la sua caratteristica peculiare. Nota i banchieri. Anche Smiff tende a sconcertare gli estranei, semplicemente per via della stazza, ma in realtà è molto amabile. È amico di tutto il mondo.

Va verso gli sconosciuti e tende una zampa. «Smiff» dice. «Smiff.» I banchieri lo guardano un po’ a disagio. Smiff sorride e annuisce, dopo di che torna verso il banco, Donnelly e il sottoscritto.

«Insomma, quel bastardo, è... è... un bastardo» sta dicendo Donnelly.

Donnelly è un uomo di poche parole che usa spesso.

«Maurice?»

«Già, il fottuto Maurice. Bastardo! Era uscito dalla clinica, sai.»

«Clinica?»

«Due birre» chiede Smiff a Champei. «Anchor alla spina, grazie tesoro.»

Dico a Champei che ci penso io e comincio a travasare le Anchor.

«Clinica? Che cosa ci faceva in clinica?» Ho deciso di giocare correttamente. Donnelly me lo dirà con i suoi tempi e a modo suo.

Lui inspira a fondo, e le ombre dell’Irlanda si addensano intorno, in attesa della storia.

«Ieri sera, amico. Tu non c’eri. Io e Foggy, siamo andati da quel fottuto bastardo e...» Donnelly scorge la mia espressione e si ferma. Qualcosa di simile all’imbarazzo l’afferra. «Già, lo so, amico, stai fuori dai guai, lo so. Tu mi conosci, amico, mai piaciuto andare a cercarmeli, ma dopo che io e Foggy avevamo bevuto un po’ ieri sera...»

«Un po’?»

«Io ne ho bevuti un paio. Tu mi conosci, amico, uno o due, giusto per fargli compagnia. Ma Foggy, lui potrebbe averne bevuti un certo numero. Ad ogni modo, ci siamo messi a parlare, e Foggy ha detto che andava al Satin Club a sistemare Maurice. Non sono riuscito a fermarlo, amico. Ci ho provato, ma lui se l’era ficcato in testa. Così sono andato con lui per assicurarmi che non ci fossero guai.»

I due banchieri la tirano in lungo con i caffè. Fingono di non ascoltare, ma Donnelly esercita un’orribile fascinazione, è come guardare da una collina lontana mentre una valanga cancella un paesino di montagna addormentato.

Metto giù le due birre e incrocio le braccia sul banco.

«E allora, dimmi, che cosa è successo?»

Donnelly è contento che abbia fatto quella domanda. «Beh, è stato un bene che fossi lì, perché Maurice, lui aveva sentito che Foggy era uscito di galera a Daun Penh e ha messo questo tizio con un manganello alla porta. Odio quei maledetti arnesi, una volta è successo che uno sbirro mi ha conciato di brutto a Brixton con uno di quelli, solo perché gli avevo pisciato sulla gomma. Così la guardia vede Foggy, controlla una fotografia che ha tirato fuori dalla tasca e blocca la porta.»

«Un momento, amico. La guardia aveva una foto di Foggy? E dove l’aveva presa?»

Donnelly è perplesso, ma non reputa la cosa importante. «Non so, amico. Foggy mi ha detto che gli sbirri a Daun Penh gli hanno preso la foto. Forse l’ha avuta da loro. Ad ogni modo...»

Così, una foto segnaletica di Foggy scattata ieri mattina dalla polizia a Daun Penh la sera stessa era nelle mani di una guardia davanti alla porta di Maurice. Ma Donnelly continua senza di me.

«Tuttavia, Foggy non se la fila, niente da fare. Così comincia a strillare al tizio di lasciarlo entrare o chissà cos’altro. Quanto a me, cerco di dirgli di andarci piano.» Il drago sembra un po’ imbarazzato. Potrei giurare che sta tentando di tendere una zampa e nascondere la cicatrice di coltello sullo scalpo nudo di Donnelly. «Amico, mai voluto problemi, io.»

«Come no. E poi?»

«E poi, Foggy cerca di farsi largo, la guardia lo prende per un braccio e Foggy, lì per lì, gli molla una sventola, così, senza perdere un colpo, bam, lo stende a terra, rincagnandolo nei suoi scarponi.»

«Oh, Gesù!»

«Lui non c’era, amico. Beh, io a quel punto volevo che ce ne andassimo all’istante. Dai, amico, dico a Foggy. Ricordati quello che ha detto Burl, gli faccio. Ma Foggy fa il gradasso con il tizio, gridando qualcosa su un gentile omaggio delle S.A.S. Lo sapevi che Foggy una volta era nelle S.A.S.? Io no. Neanche Maurice doveva saperlo, o avrebbe messo qualche muscolo in più sulla porta. Questo dà tempo alla guardia di alzarsi e usare il manganello. Colpisce Foggy dietro le ginocchia, Foggy traballa, ma sta ancora in piedi. Vedo, però, che è seccato. Così, gli molla una mazzata, un diretto, e spiaccica il naso del tizio sulla faccia, con il sangue dappertutto. E così eccoci lì, la guardia a terra, decisamente suonata, e niente tra noi e la porta d’ingresso.»

Donnelly mi guarda per vedere se sto afferrando tutto. In particolare, gli preme che capisca il suo ruolo di pacificatore o, perlomeno, di astante senza colpa. Annuisco. «Va avanti.»

«Bene, mi ricordo di quello che tu e Leo avete detto sulla faccenda di tenere Foggy fuori dai guai, mi metto tra lui e la porta e gli dico: No, amico! Ricorda quello che ha detto Burl! Perché so che lui ti rispetta, amico. Ma lui non vuole saperne, fila avanti a me e non c’è niente da fare, salvo seguirlo e cercare di contenere i danni.»

«Contenere i danni! Dov’era Maurice?»

«Ci sto arrivando. Entriamo ed ecco Maurice in fondo al bar, che ride come se non avesse un solo pensiero al mondo. Finché vede Foggy. Avresti dovuto vedere la sua faccia. Una delle cose più buffe che abbia mai visto, date le circostanze, solo che nelle circostanze non avevo tempo di ridere. Così Foggy...» Donnelly si ferma per bagnarsi il becco.

«...va verso Maurice» finisco per lui.

«No, amico. Verso il biliardo!»

«Ti prego, dimmi che non ha preso una stecca.»

«Ha preso una stecca. Dalla parte più smilza. È a quel punto che abbiamo cominciato ad avere un problema.»

«Oh, a quel punto avevate un problema! La guardia fuori combattimento era solo un pour parler

«Già, si può dire che era un fai-da-te. Un fai-da-te per Foggy, ad ogni modo. È stato come al cinema, amico. Foggy prende la sua stecca e carica Maurice e Maurice si accuccia dietro il banco, e Foggy avventa la stecca sul banco un po’ di volte, ma non riesce a beccarlo e comincia a buttare giù le bottiglie dallo scaffale usando la parte grossa. Ha fracassato lo scaffale in alto, amico!»

Donnelly scuote la testa incredulo, e anch’io resto impressionato: lo scaffale in alto del Satin Club rappresenta un bel po’ di soldi.

«In ogni caso, tutte le ragazze urlano e corrono e i tipi sono tutti allineati contro i muri e lanciano una grande ovazione, e Foggy si arrampica in cima al banco e ruggisce e si batte il petto come King Kong, ed è a quel punto che Maurice spunta fuori da sotto il banco con una mannaia per la carne.»

«Madre di Dio! E Hendryk, dov’era?» Hendryk è il direttore di Maurice, un uomo con i nervi saldi in grado di far sbollire una situazione complicata con una sola parola. Il particolare di essere fatto come un dio vichingo, per altro, gli è d’aiuto.

«Hendryk era nell’ufficio sul retro, quindi non poteva fare niente, amico. Dio sa che cosa sarebbe successo, se gli sbirri non fossero arrivati proprio allora. Sembra che la guardia di Maurice avesse una di quelle cose per avvisare la base. Veramente utili, quegli aggeggi. Lo sbirro a Brixton ne aveva uno, il bastardo. Comunque sia, gli sbirri arrivano, ed è allora che Maurice fa un errore. Smette di guardare la palla. Si drizza e guarda gli sbirri e indica Foggy, e il vecchio Foggy, beh, non ha niente da perdere, così stringe la stecca a tutta forza e la cala sul cranio di Maurice.»

Donnelly mi guarda per vedere se sto afferrando tutto quanto, mentre Champei porta il resto ai banchieri. Non penso che li rivedremo.

«Va avanti, cos’è successo dopo?»

«Dopo, Maurice cade in avanti sul banco e poi scivola a terra. Comincia a torcersi come quella rana che abbiamo sistemato nell’ora di biologia quando eravamo bambini. Ti dico che faceva paura, amico. Ero sicuro che Foggy l’avesse fatto fuori.»

«E poi hanno arrestato Foggy.»

«Già, poi hanno arrestato Foggy. Ci crederesti? Voglio dire, perché non hanno preso Maurice?» Donnelly scuote la testa per le incomprensibili procedure della polizia.

«Non ha tentato di lottare con gli sbirri, eh?»

«Macché. Aveva avuto quello per cui era venuto. Se n’è andato tranquillo come un bambino, con un sorriso da un orecchio all’altro, mentre lo portavano via. Dritto a Prey Sar, questa volta, inutile gingillarsi a Daun Penh.»

«E tu dov’eri, mentre succedeva tutto questo?»

Donnelly prende un’espressione innocente e stupita: come posso fare una domanda del genere?

«Io? Tu mi conosci, amico, io cercavo di calmare le acque, ecco. Sai, penso che Maurice mi sia stato grato, in un certo senso, per la mia presenza, quel bastardo mi ha perfino sorriso, un sorriso fatto e finito, proprio mentre sbucava con la testa da sotto il banco con la mannaia per la carne, ha incontrato il mio sguardo e mi ha fatto quel sorriso. Poi Foggy l’ha steso. Io volevo fermarmi a vedere se potevo essere d’aiuto, ecco, ma Hendryk ha detto che probabilmente era meglio se me ne andavo a casa a dormire. Avevo avuto una giornata piuttosto dura.»

«Spero che tu abbia dormito bene.» Cerco di mettere una nota sarcastica nelle mie parole, ma Donnelly non la rileva. «E allora, dov’è Maurice adesso?»

«Hendryk ha chiamato la Naga Clinic, e stavano mandando un’ambulanza quando sono venuto via. Sono andato da quelle parti stamattina, ma mi hanno detto che il bastardo era già tornato a casa.»

«Che cosa? Per l’amor del cielo, perché sei voluto andare alla clinica?»

Donnelly mi guarda come se gli avessi domandato perché porta i pantaloni. «Perché, amico, dobbiamo convincere Maurice a ritirare la denuncia.»

«La denuncia? Quale denuncia?»

«Aggressione, amico! Smiff era lì, ha visto quello che è successo dopo. Maurice ha ripreso conoscenza proprio mentre arrivava l’ambulanza, ha detto agli sbirri che stava compilando una denuncia per aggressione contro il povero Foggy, il bastardo. Così noi chiederemo scusa a nome di Foggy e lui ritirerà la denuncia. Sembra ragionevole.»

Il candore di Donnelly mi lascia esterefatto. «Ragionevole? Che cosa ti fa pensare che Maurice ritirerà la denuncia?»

«Perché Foggy non voleva farlo, amico. È stato l’alcool. Non è responsabile per le sue azioni. Smiff e io ne abbiamo discusso. Spiegheremo tutto a Maurice, e lui ritirerà la denuncia. Tu sai dove abita il bastardo?»

Gli rispondo che non lo so, ma penso che abiti in Boeung Keng Kang, oltre il monumento all’Indipendenza.

«Bum Bum King Kong!» strilla Smiff. «Ah! Bum Bum King Kong! Ah!» Smiff ha scoperto un gioco di parole. Si guarda intorno per condividerlo con i suoi nuovi amici banchieri, ma è troppo tardi. La porta sul fronte oscilla, e vedo i banchieri ignorare il bambino di strada che allunga una mano sudicia, tenendo su con l’altra i luridi calzoncini, mentre i due salgono nel taxi in attesa, pronto a rimettersi in marcia e svanire sul Lungofiume. Smiff è deluso. «Bum Bum King Kong» ripete sottovoce e torna alla sua birra. Ha già finito la prima ed è passato alla seconda. Questa la berrà un po’ più lentamente, gustandola e facendola durare. «Bum Bum King Kong.»

«Sì» mi fa Donnelly. «Mi sembra che sia proprio lì che vivono i bastardi come lui. Merdose carrettate di soldi. Ma noi dobbiamo assolutamente metterlo al suo posto, vero Smiffy?»

Smiff annuisce. «Metterlo al suo posto» ribadisce.

Le parole scelte mi riempiono di inquietudine. «Che cosa intendete fare, esattamente?»

La faccia di Donnelly prende un’espressione risoluta. «Noi andremo da lui e faremo ragionare il bastardo. Solo una piccola chiacchierata, sai? Per questo siamo venuti da te. Vedi, Smiff e io non siamo bravi come te con le parole. E quello svitato di Maurice è un maledetto esempio di squilibrato. Quindi vogliamo che tu venga con noi.» Posa con fermezza il bicchiere pieno, convinto di avere trovato l’unica soluzione possibile a una difficile situazione.

Dal canto mio, non sono affatto convinto. «Sei sicuro che sia una buona idea?»

«Sì, amico, tu hai avuto un brillante scambio di opinioni con il bastardo.»

«Un’al-l-tva birra?» fa Smiff.

«No, Smiffy, non abbiamo tempo» dice Donnelly. Smiff sospira. Donnelly si volta verso di me. «Tu e il bastardo siete più o meno amici, capisci.»

La fiducia di Donnelly è commovente, ma poggia su basi molto fragili. Ieri pomeriggio sono andato da Maurice al suo bar. L’ho avvertito che Foggy era uscito di galera e si stava ubriacando e minacciava sfracelli, e lui mi ha chiamato finocchio perché ho un bar che si chiama Civilisation. Gli ho detto che non è un bar, ma un bistrò, e lui ha risposto che un bistrò è il pretesto di un finocchio per avere un bar.

È stato allora che gli ho domandato perché era un rompicoglioni professionale.

La domanda è sembrata sorprenderlo. Ci ha pensato seriamente per mezzo minuto. Perché è quello che faccio meglio, mi ha risposto.

«Non un granché come scambio di opinioni» faccio osservare a Donnelly.

«Sì, è vero, ma devi venire! È per Foggy, amico! È tuo amico, amico!»

«E se non vengo?»

Donnelly corruga la fronte e mi guarda confuso: ovviamente, l’idea non rientra nella sfera del possibile. «Immagino dovremo andare senza di te. Ma tu verrai, ragazzo mio!»

Guardo l’uomo in nero nello specchio del bar e lui conferma che Donnelly andrà da Maurice con o senza di me. Maurice probabilmente sarà ancora meno incline a un brillante scambio di opinioni con Donnelly che non con me, e dubito che l’atteggiamento ragionevole di Donnelly durerà molto, se Maurice s’innervosirà.

Prendo gli occhiali da sole e dico a Champei di subentrare al mio posto per un po’. Lei mi rivolge un grande sorriso: «Certo, capo, vai a divertirti. Non fare cose che io non farei, d’accordo?».