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Poung arriva poco dopo la partenza Pov, consegnando Thida al suo nuovo lavoro nella cucina del Civilisation. Con un timido sorriso, la ragazza comincia a prepararsi per l’arrivo di Sokanthea atteso a breve. A quanto dice la cuoca, si sta inserendo bene.

A destarmi qualche preoccupazione rimane solo uno dei nuovi membri del personale.

Nonostante ciò che ho detto a Pov stamattina sulle superbe doti mostrate con i nostri visitatori, Red deve ancora rispondere a qualche domanda. Ad esempio, chi è venuto a trovarlo ieri sera e perché sua madre ha chiesto a Champei se mi chiamassi Sokal.

Mando Poung sul retro perché svegli il ragazzo e lo conduca da me al bar.

Red arriva con gli occhi assonnati, ma sorridente. Ha indossato la sua uniforme e sembra più che pronto ad assumere i suoi compiti di custode del Civilisation. Mentre lo guardo, lì in piedi con gli stessi occhi fiduciosi del cane che mi adorava quando avevo dieci anni, non posso fare a meno di ricordare come, in effetti, abbia già dimostrato a chi vada la sua fedeltà.

Ma dobbiamo ugualmente fare questa conversazione.

«Tutto a posto?»

Red annuisce e sorride.

«Bene. Splendido. Voglio dirti che sono veramente soddisfatto di come ti sei mosso ieri notte, cioè stamattina.»

Il sorriso di Red, se possibile, si allarga.

«Lui non capire» interviene Poung, rimasto nel ruolo di osservatore. «Lui non parlare inglese.»

Red sta ancora sorridendo felice.

Do a Poung la fotografia avuta dal sorvegliante nella guardiola a casa di Maurice e gli dico di condurre fuori Red e fargli qualche domanda a mio nome.

Pochi minuti dopo Poung mi fa cenno di uscire. Red, vicino alla porta, la schiena diritta, oscilla dai talloni alle punte delle dita dei piedi, gli occhi rivolti in avanti. Poung mi ridà la fotografia e si siede con me nel tuk-tuk mentre mi racconta la storia della vita di Red.

«Red mi dice essere venuto a Phnom Penh perché vuole essere grande kick boxer. Alla kick boxe incontrare un certo Eng Sokal, quest’uomo nella fotografia. Eng Sokal grand’uomo per kick boxe in Cambogia. Io conosco quest’uomo di nome, tutti cambogiani conoscere. Sokal lui trovare lavoro per Red. Casa Maurice, per fare guardia. Così una sera Sokal dire Red dover fare kick boxe quella sera, grande occasione per lui. Red dire cosa fare per casa. Sokal dire nessun problema, Sokal dire lui trovare uomo per lavorare a casa Maurice.

«Quella volta ladro venire di notte casa Maurice. Red lui paura dire qualcuno lui non là, lui pensare tutti pensare Red essere ladro. Dopo un giorno, due giorni, Sokal dire ancora Red dover fare kick boxe un’altra volta. Questa volta Red non volere andare, ma ora Red paura di Sokal, così Red andare a kick boxe.

«Questa volta Maurice morire ucciso. Red lui paura polizia, paura Sokal, paura tutto uomo dire lui fare morire per omicidio Maurice, e lui correre casa in villaggio. Poi tu venire, dire lui venire Phnom Penh. Red lui non volere venire, ma mamma dire dovere venire. Red dire lui molto felice lavorare per te, è buon lavoro questo posto, a lui piacere te, anche Champei, lui volere stare per sempre.»

Red ci guarda ansioso dalla porta. Gli faccio un gran sorriso. Sembra sollevato, ma ancora un po’ impaurito.

«Ed è stato Sokal che è venuto a cercarmi ieri sera?»

«Lui dire sì, Sokal. Sokal domandare se tu qui, a che ora tu venire, a che ora chiudere bar. Red dire Sokal detto lui di andare via ieri sera, non stare per guardia, ma lui stare, non andare. Lui dire spiacente non detto te questo, ma lui paura Sokal.»

Guardo Red. Sta chiacchierando con un bambino di strada vestito di stracci, forse gli sta dicendo che, se lavora duro e si tiene pulito, può diventare un venditore di giornali come Mickey Mouse o un guidatore di tuk-tuk come Poung, o chissà, perfino il sorvegliante alla porta di un locale come il Civilisation.

«Dì a Red che è una brava persona. Digli che mi fido di lui. E digli che se vede ancora Sokal deve riferirmelo subito.»

La mattina prosegue. Arriva Mickey Mouse. Si arrampica su uno sgabello e chiede un succo d’arancia, poi resta a guardarmi da sotto le sopracciglia sudate mentre succhia dalla cannuccia. Le ultime gocce spariscono gorgogliando, ma lui non mostra alcuna intenzione di andarsene, continuando a giocare con l’ombrellino da cocktail, fino a che non ce la faccio più.

«Okay, cosa c’è?»

Mickey sta studiando se è possibile dividere l’ombrellino e poi rimetterlo insieme. Finora se la sta cavando bene con la prima parte.

«Tu pro-blema?»

La voce sta girando. «Un problema da poco, niente di grave.»

«Mio amico dire me due uomini loro venire.»

«Sì, due uomini.» Un sospetto attraversa la mia mente. «Tu non ne sai nulla, vero?»

Lui scuote la testa vigorosamente. «Non sapere nien-te» risponde, ma se ne sta lì seduto, aspettando la domanda giusta.

«E allora cosa sai?»

«Nien-te.»

La ricomposizione dell’ombrellino richiede tutta la sua attenzione, così Mickey smette di guardarmi.

«Forse, se io dire te, tu non dire io dire te?»

Scompongo la domanda nella mia testa e la rimetto insieme come sta facendo lui con l’ombrellino, dopo di che prendo lo sgabello tra lui e la porta, nel caso cambiasse idea e cercasse di andarsene.

«Mickey, se sai qualcosa, sarà meglio che me lo dici.»

«Ma tu non dire io dire?»

L’ombrellino non tornerà mai intero. Mickey lo lascia cadere sul banco e mi guarda. Poteva essere bello, se avesse avuto più fortuna nella vita. Ora ha un’aria al contempo ansiosa e giuliva, il profondo impulso di farmi una confidenza frenato da un’altrettanto acuta paura delle conseguenze.

«No, è una cosa tra noi. Di che si tratta?»

Mickey stropiccia i bordi della pila di giornali che consegna su e giù per il Lungofiume e ai bar della 136.

«Io andare Barracuda Bar. Tu sapere. Tuo amico Fog-gii, lui in pri-scione.»

«Sì, lo so. Ebbene?»

«Una ragazza lavorare bar signor Fog-gii, lei dire me lei in stanza signor Fog-gii una volta.»

«E cosa ci faceva nella stanza di Foggy?»

Mickey mi guarda ancora e scuote la testa.

«Tu pro-messo non dire? Perché signor Fog-gii, questa ragazza in stanza signor Fog-gii una volta...»

Ci arrivo. «Prometto. Nessuno lo saprà mai. Ma che cosa ti ha detto?»

«Lei dire lei stanza signor Fog-gii. Fog-gii lui uscire, lei guarda-guarda. Solo guarda-guarda, capisci?»

Capisco. C’era sempre la possibilità che Foggy avesse lasciato un po’ di contante in giro, abbandonato e incustodito. Il mio amico dovrebbe stare più attento a chi si porta in camera.

«Capisco. Così lei ha trovato qualcosa?»

Mickey annuisce. «Lei trovare. Lei dire me qualcosa fare signor Fog-gii assassino signor Mo-riis.»

Mickey sta facendo molta attenzione all’ombrellino, ma mi lancia un’occhiata per vedere come reagisco.

«Lei dice che Foggy ha ucciso Maurice? Ma come, che cosa avrebbe trovato?»

Mickey scuote la testa. «Lei dire solo poco poco. Lei dire qualcosa che venire da signor Mo-riis.»

«Che genere di cosa?»

«Qualcosa come foto. Dire venire da signor Mo-riis. Lei dire questo fare di signor Fog-gii sas-sino signor Mo-riis.»

«Una fotografia di che cosa?»

Ma questo è tutto ciò che Mickey mi dice o vuole dirmi.

«Non dire. Già. Io andare, ora, ciao!»

Presi i giornali, balza verso la porta dove si ferma a rivolgermi un ultimo, impudente sorriso. «Non dire io dire, okay?»

Agendo in base all’informazione ricevuta, risalgo il Sisowath Quay verso la 136. I podisti e i fanatici dell’aerobica, per non parlare degli artisti dell’effrazione, se ne sono andati tutti a casa e ora le strade appartengono a cittadini rispettosi delle leggi che vanno in giro per le loro lecite faccende. Proseguo oltre l’Irish Bar di Donnelly fino all’incrocio e mi fermo all’angolo, a guardare la porta del Barracuda Bar di Foggy.

Momm, intenta a gestire il personale dietro il banco, alza gli occhi e mi fa un sorriso mentre mi avvicino. «Ciao, Burl, cosa vuoi per colazione?» Un’anonima ragazza khmer, che non degnerei di una seconda occhiata, le dà una mano. Ordino un uovo su pane tostato. La mia seconda colazione della giornata, non richiesta dal mio girovita, ma utile per pensare a cosa dire.

Mentre mangio, chiacchiero del nulla con Momm. È andata ancora a fare visita a Foggy. Non sta bene, ma lei si assicura che sia ben nutrito e abbia tutto il necessario. Fortunato Foggy. Beh, in un certo senso. Gli dèi sono capricciosi. «Ti dispiace se vado un momento di sopra?» le domando, dopo aver ingurgitato di quell’uovo viscido quanto il mio stomaco era in grado di sopportare. «Foggy mi ha chiesto di prendere una cosa per lui.» Bugie, bugie, bugie, ma Momm mi dà la chiave senza fare domande, perché si fida di me.

Foggy ha una grande stanza che divide con Momm al piano di sopra. E mentre il mio appartamento è spartano, al limite del minimalismo, il suo esibisce l’allegra anarchia della vita, cioè un autentico caos. Me ne sto lì cercando di pensare a come una cameriera in cerca di contanti, con pochi minuti a disposizione, si muoverebbe. L’ipotesi esclude la possibilità di squarciare il materasso o tastare il pavimento in cerca di assi staccate. Guardo nell’angolo, dove una scrivania sembra fungere anche da tavolo da toilette per Momm. Tre cassetti, due aperti. Le circostanze escludono quello chiuso: la ragazza non avrebbe potuto aprirlo. Dentro il primo, un insieme di oggetti disparati: batterie di varie dimensioni, forbici e pettini, una scatola di latta che risuona quando la scuoto. La ragazza l’avrebbe aperta. La apro: un po’ di penne e chiavi. Sto per rimetterla a posto e aprire il secondo cassetto, quando un’idea mi colpisce: chiavi!

Di certo una apre il terzo. Chiudere il terzo cassetto con una chiave tenuta in una scatola di latta nel primo. Fedele al suo soprannome nebbioso, Foggy è davvero nebbioso.

Il terzo cassetto è pieno fino all’orlo di pile di carte tenute insieme da elastici. Conti e lettere, si direbbe. La ragazza in cerca di contante non si sarebbe interessata a pile di lettere. Avrebbe supposto che il contante fosse nascosto in fondo al cassetto, sotto la corrispondenza. Sollevo le pile di carte e al di sotto intravedo una grande busta color cuoio che, a una cameriera frettolosa, avrebbe potuto suggerire l’idea del contante.

Ma, naturalmente, come ha detto Mickey, non contiene affatto denaro.

Momm è occupata quando attraverso il bar, ma alza lo sguardo e sorride. «Trovata la cosa per Foggy? Tutto a posto?» Tutto a posto, le dico, anche se non lo è, e me ne vado come un uomo con delle promesse da mantenere. La busta è dentro la mia camicia, a contatto con la mia pelle.

Il barman di Hendryk si ricorda di me. «Cosa posso fare per lei, signoria?» È decisamente il barman più educato di Phnom Penh. O forse alla sua scuola di lingue c’è un insegnante con un pessimo senso dell’umorismo.

«C’è Hendryk?»

«È nell’ufficio. Devo chiamarlo?»

Dopo un minuto Hendryk esce dal retro «Burl! Che cosa ti porta qui? Ho sentito che hai avuto un po’ di emozioni stanotte?»

Le notizie viaggiano in fretta. «Chi te l’ha detto?»

«Mickey Mouse, quando è venuto per consegnare i giornali. Cos’è successo?»

Gli racconto la storia. Quando ho finito, scuote la testa.

«Stai attento, quei tipi potrebbero essere pericolosi. Cosa conti di fare adesso?»

Mi assicuro che il barman educato sia intento a pulire i bicchieri all’altro capo del banco, prendo la busta e la metto sul piano. «Dai un’occhiata a questa, ma prima promettimi che la cosa resterà fra noi.»

Hendryk mi guarda stupito e tira fuori il contenuto. C’è solo una foto, e in realtà non è affatto una foto, ma piuttosto la stampa della schermata di un computer. Hendryk spalanca gli occhi e trattiene il fiato. «Gesù!» esclama. Non è da lui.

Riprendo la busta e la rimetto dentro la camicia. «Hendryk, ti dispiacerebbe se dessi un’occhiata nell’ufficio di Maurice? Ho come la sensazione che potrebbe esserci qualcosa d’importante.»

«Sicuro. Non c’è granché, ma sei il benvenuto per un giro d’ispezione.»

Hendryk mi fa strada verso l’ufficio. Do uno sguardo in giro, ma ha ragione, non c’è niente d’interessante. Considerando ciò che ho trovato da Foggy, però, non penso che Maurice avrebbe nascosto qualcosa dove potessero trovarlo gli addetti alle pulizie. Poi scorgo una seconda porta in una nicchia nell’ombra. Sulle prime non l’avevo notata perché è più piccola di una porta vera, più simile alla porta di un grande armadio. «Cosa c’è lì dentro?»

«Il suo ufficio privato. Lo tiene sempre chiuso. Io non ci sono mai stato.»

Maurice ha creato il suo ufficio privato istallando un chiavistello e un lucchetto sulla porta di un armadietto delle scope sotto le scale. Hendryk scrolla la serratura. «Dio sa che cosa tiene lì dentro. Non ha mai lasciato entrare nessuno e custodiva sempre la chiave. Hai visto qualche chiave quando...»

«Quando gli ho frugato le tasche? L’ultima volta che ho visto Maurice non aveva delle tasche, e tanto meno delle chiavi. Forse le ha chiuse in quella cassaforte. Okay, scassiniamo la serratura. Tu sai come scassinare una serratura?»

«No. Chiederemo al barman di farlo. L’ho pescato in una ONG che educa i bambini di strada, era un delinquente minorenne, sa tutto sullo scasso di serrature.»

Hendryk dà una voce ed entra il barman educato, asciugandosi le mani bagnate con uno strofinaccio. Hendryk spiega la situazione.

«Vuole questa porta aperta?» domanda il barman. «Quando?»

«Ora andrebbe bene.»

Il barman si avvicina al muro opposto, si gira, ruota su se stesso e assesta un calcio di kung fu allo stipite della porta. Si sente uno schianto, e la porta pencola contro il muro. Il barman lancia uno sguardo professionale al suo lavoro, annuisce verso di me e Hendryk, quindi se ne torna dietro il bancone, zoppicando leggermente. Per una frazione di secondo valuto se chiedere a questo ragazzo di venire al Civilisation e dare un’occhiata per me alla cassaforte.

Una pallida luce azzurrina proviene dall’interno del buco di Maurice.

Infilo la testa oltre il telaio della porta. Da dove arriva quella luce? Poi: «Merda!».