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Tornato al Civilisation, vado nella stanza sul retro e brucio il contenuto della busta nel lavandino, spando le ceneri con il dito e le faccio scivolare nello scarico. Poi prendo la cassaforte dallo scaffale e la poso delicatamente sul tavolo.

Ecco le mie riflessioni:

April mi ha detto che il codice è un numero di sei cifre.

La password cifra il numero come se fosse una parola di sei lettere.

La chiave è una griglia con nove riquadri con le lettere dell’alfabeto scritte all’interno, tre per ogni riquadro, ogni terzetto di lettere equivale a un numero, salvo Y e Z che equivalgono a 9.

La chiave è inutile senza la password. Ma Maurice ha incollato il biglietto da visita di Sovann a rovescio sulla cassaforte e vi ha scritto sopra la chiave. Maurice ama i suoi giochetti.

Il nome di Sovann ha sei lettere.

Trasformate S-O-V-A-N-N in numeri e otterrete 7-5-8-1-5-5.

Domanda: davvero così facile? Digito 758155 sulla tastiera.

Risposta: no, non lo è. La cassaforte rimane chiusa.

Non c’è dubbio. Maurice era un subdolo bastardo.

«Cosa fai, amico?» Non avevo notato che Donnelly mi osservava dalla porta. Mi spiega che è venuto perché ha sentito dei visitatori di stanotte. «Perché non mi hai chiamato, amico? Due di noi, due di loro.» Il drago mi guarda con aria di rimprovero.

«La prossima volta ti chiamerò. Promesso.»

L’aquila si illumina pregustando l’occasione. Donnelly fa un cenno con la testa verso la cassaforte. «Sei riuscito ad aprirla?»

«Non ho avuto tanta fortuna. Ho creduto di avere un’intuizione, ma non è andata bene.» Gli spiego che cosa avevo pensato o sperato. «Credevo che dovesse esserci un motivo per cui Maurice teneva lì il biglietto.»

Donnelly lo afferra, lo gira e scuote la testa. «Compagnia dei taxi. Probabilmente Maurice l’ha preso da qualche parte. Era un uomo d’affari, dopotutto. Doveva incontrare ogni genere di persone.»

Già, ogni genere, dai banchieri ai clienti nel suo bordello domestico. Un uomo con un’ampia cerchia di conoscenze, ma che questa sia una coincidenza mi sembra un po’ troppo.

Gli dico che cosa Hendryk e io abbiamo trovato al Satin Club, senza menzionare il ruolo da protagonista di Foggy. Lui mi guarda tutt’a un tratto profondamente preoccupato. «Amico, queste cose, io non c’ero... voglio dire... io c’ero...?»

«No, amico, non nei video che ho passato.»

Mai visto un drago così sollevato.

Conveniamo di portare la cassaforte nel bar e di continuare a lavorare là dentro. Venti numeri ciascuno, a turno. Solo altri novecentomila.

Dopo un po’ riconosciamo che dieci ciascuno è una dose ragionevole e sostenibile.

«Cosa fate, capo?» Champei, come Donnelly, è intenta a osservare con crescente perplessità.

Le spiego che vogliamo aprire la cassaforte e stiamo provando tutti i possibili numeri, uno dopo l’altro.

«Non ci arriverete mai» conclude seccamente, non appena sente quanti ne abbiamo provati e quanti ne restano. «E questo cos’è?» continua, indicando il biglietto da visita sulla piastra anteriore.

«Oh, Mr Golden Boy!» fa quando glielo dico. «Ragazzo simpatico. Mr Golden è un buon nome per lui.»

«Mr Golden Boy?»

«Sicuro, suo nome. Sovann volere dire Oro. Lui avere automobile d’oro, taxi d’oro. Buon nome, portare fortuna a lui.»

È commovente come i cambogiani comuni continuino a pensare che basti avere il nome giusto per diventare ricchi. Secondo me, i genitori ricchi sono molto più utili. Signor Golden-boy, conducente della Lexus dorata, amministratore delegato della Golden Taxi Company. Prendo il notes da Donnelly e lo poso sul banco del bar. «Diamo retta ancora alle intuizioni.»

G-O-L-D-E-N.

3-5-4-2-2-5

La porta scivola dolcemente verso l’alto sul suo cardine.

«Funziona» dice Donnelly.

Quindici minuti dopo, ecco che cosa abbiamo:

W11bmA3NGAyZWNvb2tgNjlgNjVMinVgNjlgNinVkZWA30E9gNjYoYd1ybWA20WVgNm1gM2QxYDlyKWAzY2AzMGAyOWAyNmAyNih0eXB1b2ZgMjh6c (e così via).

«Che cos’è!» esclama Donnelly. Colgo un singhiozzo nella sua voce.

«Un codice.»

La cassaforte di Maurice conteneva due oggetti. Uno era un’agendina con la copertina di vinile nero, che ho sfogliato rapidamente: sembrava un registro di conti. L’altro, una sorpresa a metà, era una chiavetta USB con un cordino. Esattamente come le altre del Satin Club, salvo che questa non era numerata.

L’abbiamo inserita nel computer del bar, quello con la famosa scaletta di classici di jazz e blues del Civilisation, dopo aver mandato via tutti, per timore che comparisse ancora Foggy, ma invece si è aperta una schermata di scritte incomprensibili.

«Già, un codice, questo lo vedo, amico, ma che significa?» Il drago sembra stranito, mentre l’aquila, la gemella votata all’azione, è indignata.

«Non ne ho idea. Ma questo è ciò che cercavano quei tipi ieri sera. Ciò per cui Maurice è morto.»

Donnelly si guarda intorno per il bar deserto. «Non vorrai dire che...»

«Che sono da queste parti? No, amico, non possono sapere cosa abbiamo trovato.» Stacco la chiavetta dal computer e la rimetto in cassaforte. Non so ancora bene che farne.

Donnelly si rilassa, benché l’aquila sembri delusa nel vedere che Porky e Junior non sono disponibili per una ripassata. Presa la chiavetta, Donnelly se la rigira tra pollice e indice. «Che cosa pensi che sia, amico? Hai qualche idea?»

Sto pensando che dev’esserci un collegamento diretto con quanto ho visto al Satin Club. Ma qui c’è qualcosa di diverso. Le chiavette del Satin Club non avevano un codice, tanto per cominciare, né erano in cassaforte nella camera da letto di Maurice. Scrollo le spalle. «Non saprei, amico.»

«E allora come lo scopriremo?»

Me lo sono domandato anch’io, e la sola risposta realistica è Crew. «Sarà alla Build Bright. Gli chiederò di fare un salto.»

Crew arriva con Sovann circa un’ora dopo. «Ti sarei grato se dessi un’occhiata a questa» gli dico, porgendogli la chiavetta. «Viene dalla cassaforte.»

Mentre parlo, osservo Sovann. Noto che ha strabuzzato leggermente gli occhi, ma tace.

«È in codice. Pensi di poterlo decifrare?»

Crew risponde di sì, anche se non sa quanto gli ci vorrà.

«Forse un’ora, forse un giorno, dipende dall’algoritmo. Ti chiamo.»

«Prima» mi dice Champei quando se ne sono andati «dimenticato avvertirti che un ladyboy cercato te ieri sera.»

Sembra che metà Phnom Penh mi volesse ieri sera.

«Prima o dopo Sokal?»

«Prima. Detto volere parlarti. È una cosa importante.»

«Davvero? Come si chiama?»

«Lei non dire.» Champei si ferma con una pila di piatti in mano e aggrotta la fronte. «Non ha detto» ripete, sistemando la grammatica.

«Non l’ha detto» le vengo in soccorso.

«È quello che ho detto, perché mi copi?» Champei sembra seccata, poi sorride di nuovo. «Ad ogni modo, perché parli sempre con i ladyboys? Non ti piacciono le ragazze?» Fa una risatina. «Ma questo ladyboy molto grande qui» prosegue, e mette giù i piatti per indicare un balcone che soddisferebbe l’ego di Mussolini.

«Sembrerebbe Pawpaw.»

«Pawpaw? Non è nome cambogiano. Inglese? A scuola d’inglese mai insegnato quel nome.»

«Non esattamente un nome di persona, è un frutto. Questo.» dico, prendendo una papaja dalla scodella di frutta tropicale in fondo al banco.

«Quello? Quello lo conosco. È una papaya.»

«Ha anche un altro nome, pawpaw.»

«Oh?» fa educatamente Champei, ma ben presto perde interesse per la ricchezza della lingua inglese, prende i piatti e comincia a posarli sui tavoli. «Ad ogni modo, questo ladyboy dire verrà cercarti stasera. E forse anche venire cercarti adesso. Perché piaci a tutti ladyboys, capo?»

Voltato di spalle verso la porta, non ho visto arrivare la persona che ora compare nello specchio dietro il banco.

Entra una visione. Una visione singolare. Un groviglio di ispidi capelli neri, la faccia dall’ossatura forte con una mascella squadrata, occhi ombreggiati di viola e un rossetto rosso fuoco, una camicetta d’organza con merletti e gorgiere messe in risalto da molteplici cascate di perline, una borsa su una spalla con una lunga tracolla. Sotto, un paio di jeans macchiati di grasso e pesanti stivali da lavoro.

«Annie!»

«Oh, tu conosci tutti i ladyboys!» esclama Champei.

Annie se ne sta intimidita sulla porta, senza entrare. Ovviamente non trova che questo sia il genere di locale adatto a lei. Sorride, nervosa, a Champei e attacca, in khmer, un lungo e complicato discorso che sembra non finire mai, con occasionali osservazioni di Champei e lunghi passaggi esplicativi in risposta dall’altra parte.

«Che cosa dice?» domando quando sembra che abbia finito.

«Lei dire buongiorno» ridacchia Champei, soddisfatta del suo piccolo scherzo. «Okay, capo» si corregge subito, vedendo la mia faccia. «Lei dire volere tu andare Salt Lounge stasera alle dieci. E tu pagare tempo di sua amica a Donnelly Bar. Lei dire nome sua amica Pawpaw, come tu detto me. Lei dire questa Pawpaw volere tu portare lei a Salt Lounge. No, non detto perché, lei dire solo tu venire. Dire per favore. Lei molto educata.»

«Bene. Rispondile che ci sarò.»

Annie fa un piccolo inchino e se ne va ancheggiando, mentre schiva delicatamente i tuk-tuk sotto i nostri occhi, verso le barche per i turisti sull’altro lato del Sisowath Quay.

«Quel ladyboy non tanto ladyboy. Troppo grosso qui e qui.» Champei scuote le spalle e piega uno snello bicipite. «Questa parte da ragazzo, eh, capo?»

«Non sarà la sola. A meno che non se ne sia già separata.»