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«Spero che tu l’abbia messa in qualche posto sicuro» dice Donnelly un po’ più tardi. Intende la chiavetta. Dopo che Leo se n’è andato, gli ho telefonato e gli ho detto di venire per un consiglio di guerra. Lui mi ha preso un po’ troppo alla lettera e ha portato anche Smiff nel caso avessimo bisogno di qualche muscolo in più. Smiff è pericoloso come un bignè al cioccolato, ma fa impressione.

«Se ti dicessi dov’è, dovrei ucciderti.»

Champei ridacchia. Forse non ha mai sentito questa battuta. Mi stupisce che la trovi divertente. Dicono che si possa capire molto di un paese dalle battute dei suoi abitanti.

«Champei, conosci qualche barzelletta cambogiana?»

Lei scuote la testa e si sposta verso l’estremità opposta del banco, dove comincia a tagliare i limoni.

«Io conosco una barzelletta irlandese» dice Smiff. «Che cosa devi fare se un irlandese ti tira uno spillo? Correre, perché ha una granata in bocca. Questa è una barzelletta irlandese.»

«Io sono irlandese» osserva Donnelly con tono un po’ sostenuto.

«Già» riconosce imparzialmente Smiff.

Donnelly sta per aggiungere qualcosa, ma si lascia andare sul suo sgabello. Inutile cercare di spiegare le cose a Smiff. Suggerisco di andare a mangiare sul Lungofiume. Potremmo mangiare al Civilisation, come Pov vuole che faccia, ma al diavolo Pov, al diavolo Cheng, al diavolo tutti i bastardi che pensano che si debba vivere al ribasso.

Quando Red ci apre la porta, Donnelly gli allunga un biglietto e si ferma ad ammirare il negozio di bare. «Li dipingono» dice. «Dipingono i fiori sulle bare. Perché?»

«Io conosco una barzelletta su un impresario di pompe funebri» interviene Smiff.

Donnelly lo ignora. «Che cos’hai lì?» mi domanda.

«Una busta.»

«Che cosa c’è dentro?»

«Te lo dirò dopo che avremo mangiato qualcosa.»

«È venerdì sera» considera Donnelly. «Potrebbe essere difficile trovare un tavolo.»

Ci avviamo per il Lungofiume. I caffè sono affollati, automobili e motociclette bloccano il marciapiedi, sciami di turisti, tuk-tuk, ragazzi dei giornali e mendicanti percorrono Sisowath Quay in cerca di un tavolo.

Anche Mickey Mouse.

Mi sta urlando dal tuk-tuk di Poung che percorre la strada contromano. Mickey balza a terra prima che ci raggiunga. Ansima, senza giornali. «Signor Burl, venire!» grida, e salta di nuovo sul tuk-tuk con la gamba buona. Do un’occhiata a Donnelly e salgo a bordo, seguito da Donnelly e poi da Smiff.

Poung fa inversione e ci conduce oltre La Croisette e il Metro e gli altri caffè, tutti affollati. «Ve l’avevo detto che avremmo avuto difficoltà a trovare un tavolo» dice Donnelly. Passiamo il Crossroads of Death all’altezza del Wat Ounalom e scendiamo verso il Pink Elephant. Era un posto famoso una volta, tutti i corrispondenti stranieri venivano qui, quelli veri, che ci mettevano piede dopo settimane nella giungla a schivare le pallottole dei Khmer Rossi. Quelli che vivevano come se non ci fosse un domani e, per molti di loro, non c’è stato. Ecco la strada «Qui!» dice Mickey. Poung la imbocca e frena davanti all’Elephant. Due banchieri siedono a un tavolo sul marciapiede con due ragazze del bar, circondati da una folla di spettatori. La folla è tutta costituita da guidatori di tuk-tuk o di mototaxi e bambini di strada. C’è anche una gran quantità di stranieri in giro, ma quelli si limitano a proseguire con uno sguardo di disapprovazione.

Non sono i banchieri l’oggetto dell’attenzione generale. È un ragazzo dei giornali, un membro della ciurma di Mickey. Un sudicio ragazzo ossuto di tredici anni, seduto al tavolo con i banchieri e le ragazze, davanti a un piatto di peperoncini rossi.

«Signor Burl, questi uomini dicono questo ragazzo lui mangiare ognuno peperoncino, loro dare un dollaro, un dollaro un peperoncino.»

Un mucchio di dollari in banconote stropicciate è posato sul tavolo, di fianco al vassoio di peperoncini.

Poung si volta sul sedile. «Ragazzo lui chiedere acqua, ma loro dire no, prima lui dovere finire peperoncini. Tutte queste persone...» fa un ampio gesto della mano verso i guidatori di mototaxi e tuk-tuk «...non d’accordo, ma ragazzo lui dire avere troppo bisogno questi dollari, troppo molto denaro per lui.»

Sceso dal tuk-tuk, mi faccio strada a forza tra la cerchia di spettatori. Donnelly mi segue a ruota. I banchieri non si accorgono di me fino a che non afferro il vassoio di peperoncini e lo getto in strada, dove finisce spiaccicato sotto le ruote di un Hummer di passaggio.

Il ragazzo alza gli occhi sbalordito con la faccia grondante di sudore, la bocca aperta, la lingua e le labbra gonfie, gli occhi rossi e lacrimanti. Anche i due banchieri alzano gli occhi, le birre a metà strada dalle loro bocche, per un momento troppo stupiti per parlare. Poi uno comincia ad alzarsi vacillando. «Chi cazzo pensi di essereee» attacca, ma il suo amico lo tira giù sulla sedia. Donnelly gli sta di fianco, senza fare nulla, salvo calmare l’aquila, mentre il tuk-tuk barcolla liberandosi del peso di Smiff.

Prendo la pila di dollari e la caccio nella mano del ragazzo. «Sparisci!» Il ragazzo sembra confuso, così afferro la bottiglia d’acqua e gliela metto nell’altra mano. «Vattene, ragazzo, sparisci!»

Mickey lo spinge via tra la folla, i dollari in una mano, l’acqua nell’altra, già in direzione della bocca.

Resto a guardare il tavolino, i due barang ubriachi e le ragazze spaventate. Alla mia destra Donnelly comincia a sorridere, mentre il drago e l’aquila lasciano intendere che non sarebbero contrari a un po’ di movimento. Smiff, alla mia sinistra, ha un’aria cupa e solo io so che, probabilmente, sta cercando di capire quale barzelletta gli ricorda tutto questo. Mi domando che impressione stia facendo io stesso, l’uomo in nero. Phnom Penh ha una reputazione da rispettare, e non mi dispiace che lo faccia.

Le ragazze dei banchieri balzano in piedi e trascinano i loro uomini nella strada. I banchieri protestano, ma penso che siano felici di cavarsela così stasera. La folla si apre lasciandoli passare e poi comincia a disperdersi.

Donnelly si siede. «Ecco un tavolo» dice. «Facciamoci una pizza.»

Ordiniamo pizza e birra e, mentre mangiamo, osserviamo la folla e teniamo il nostro consiglio di guerra.

«E così questo Cheng» dice Donnelly. «È stato lui a fare fuori Maurice?»

«Sicuro.»

«E ha rapito Pawpaw?»

«Si direbbe.»

«E allora, che cosa farà Rong?»

«Non lo so. Ma qualunque cosa voglia fare, ci vorrà tempo.»

All’improvviso mi rendo conto di una cosa: Rong continua a dirmi che la Cambogia è un paese basato sulle regole, e questo è esattamente ciò che sta facendo, sta seguendo le regole. Alcune puoi scorgerle, altre non le conoscerai mai, ma ci sono.

Osservo Poung. Se ne è andato verso un carretto poco più in là sulla strada e ha preso dei noodle che sta consumando su un vassoio di plastica, mentre chiacchiera con i colleghi. Questo è l’angolo tra il Lungofiume e la 178, dove c’è una tra le più alte concentrazioni di mototaxi e tuk-tuk di tutta Phnom Penh, e Poung ha una quantità di amici nel ramo. Aspetto che finisca i noodle.

«Cosa mi dici di Foggy?» domanda Donnelly.

«Leo dice che Heng sarà felice di rilasciarlo quando le acque si saranno calmate.»

«Quanto ci vorrà?»

«Fino a quando Rong non avrà chiuso il caso Maurice.»

«Ma Rong vuole arrestare April per l’assassinio di Maurice.»

«Leo dice che a Rong non importa un accidente di chi ha ucciso Maurice. Lui fa la posta a Heng. Secondo Leo, Rong è uno sbirro onesto e vuole cacciare Heng perché rappresenta una macchia. Ma a Rong non importa granché di chi ci va di mezzo nel caso delle operazioni.»

«Ma che cosa c’è nella busta?»

Poung getta il piatto vuoto nel canale di scolo e torna con calma verso l’Elephant. «Io finito» afferma. «Trovato uomo per te.»

«Cosa dice?» domanda Donnelly confuso.

«Ho chiesto a Poung di fare alcune indagini per me.»

«Già» conviene Poung. «Quest’uomo lui telefonare adesso a capitano Heng. Capitano Heng in ufficio, adesso.»

«Il capitano Heng ci sta aspettando» spiego a Donnelly. «Prenditela comoda, a Heng farà bene aspettare.»

Donnelly finisce la pizza e butta giù l’ultimo sorso di birra. «Sono pronto.» Guarda Smiff. «Anche Smiff è pronto. Su, Smiffy, ce ne andiamo.»

Sto per seguirli sul tuk-tuk, quando Poung mi prende da parte. «Altro uomo chiede di te» mi dice. «Autista su mototaxi, mentre parlavo mio amico. Lui vedere te seduto lì, domandare se tu chiamarti signor Burl. Io dire non sapere.»

«Quale uomo?»

«Non qui adesso. Lui già andato via, lui prendere uno straniero, andato bar.»

«Perché voleva sapere chi fossi?»

«Io non sapere, non domandato. Ma io vedere lui telefonare dopo avere parlato me, sentire lui dire visto signor Burl.»

«Che c’è?» domanda Donnelly.

«Niente. Qualcuno ha chiesto se mi chiamo Burl.»

Poung scende dal marciapiedi e svolta l’angolo per la 178, mentre io comincio a spiegare a Donnelly la faccenda della busta.