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La Mercedes nera è posteggiata dietro l’angolo. Si direbbe che Crew non abbia afferrato il piano. È seduto alle spalle del conducente e sembra spaventato.

Junior apre la sua portiera. Mentre mi spinge dentro, vedo ciò che spero loro non abbiano visto. Poung è posteggiato una cinquantina di metri più avanti.

Junior sale dopo di me e sbatte la porta. Sokal sale dall’altra parte e sbatte la sua. Porky si issa a fianco del guidatore.

«Burl, mi hanno fatto male» bisbiglia Crew. «Vogliono la chiavetta. Costretto me dire che averla tu. Burl, io spaventato!»

«Ehi!» scatta Sokal. «Niente parlare-parlare. Zitti!» Sorride. «Presto molto parlare-parlare, uguale-uguale vostro amico Maurice.» Dice qualcosa a Junior, che tira fuori una pistola e me la pianta nelle costole. Junior è il tipico teppistello da due soldi che diventa coraggioso quando la situazione è favorevole. Coraggioso e cattivo.

Non c’è molto traffico in giro a quest’ora, solo pochi motocicli e tuk-tuk che portano barang nottambuli da un bar all’altro. «Burl,» sussura Crew «dove andare?»

Sokal sente e gli affonda il gomito nel plesso solare, strappandogli un gemito. «Niente parlare-parlare!» dice, e si mette a ridere.

Il cancello della casa di Sovann si apre quando ci avviciniamo, per poi chiudersi silenziosamente dietro di noi. Il custode alla guardiola non si è mosso. Tutto elettronico. Anziché andare verso l’ingresso sul davanti, svoltiamo a sinistra sul fianco della casa e ci fermiamo in un’area parcheggio. Vedo la Lexus dorata di Sovann di fronte a noi. Sokal ci spinge fuori. Crew si alza con un sussulto. «Attento» mi fa Sokal. «Non volere uguale-uguale al tuo amico, eh?»

Porky e il guidatore si dirigono verso la porta d’ingresso, mentre Sokal e Junior mi conducono con Crew dentro la casa da una porta laterale. Junior in testa, Sokal dietro.

La porta dà su un corridoio. Al di là di una seconda porta, dai pannelli di vetro, scorgo la cucina e una stretta scala in fondo, verso la quale Sokal ci spinge.

Poiché Crew rallenta, lo aiuta con una spinta. Crew inciampa, si aggrappa a Junior che risponde con un colpo al plesso solare. Crew si abbatte con un lamento sul primo gradino. Sokal dice a Junior qualcosa del tipo: «Perché diavolo l’hai fatto, ignorante bastardo!». Junior, confuso, replica con l’equivalente khmer di «Ma capo, lui mi ha attaccato!» Al che l’altro ribatte: «Sarebbe più semplice addestrare le scimmie», ordinandogli di sorreggere Crew. Saliamo i gradini alla velocità della luce.

In cima, ancora un corridoio, ampio, con costosi tavoli e specchi in cornici dorate e quel genere di mobili che riesce ad apparire al tempo stesso lussuoso e dozzinale.

Sokal ordina a Junior e Crew di fermarsi davanti a una porta. La apre, allunga una mano per accendere la luce, mi fa segno di entrare. Troppo lento per lui, mi becco una spinta e, inciampando, finisco nella camera da letto. Junior porta Crew all’interno e lo getta sul letto, dove rimane gemendo sommessamente, con le gambe serrate al petto. Mi siedo al suo fianco.

«Okay, signor Burl, lei buono, nessun problema, eh? Lei aiutarci un pochino, eh? Presto venire, okay?»

Da un’altra porta socchiusa vedo un bagno. «E il mio amico? Posso dargli un po’ d’acqua da bere?»

Sokal borbotta qualcosa a Junior che varca la porta e accende la luce. Armeggia, un rubinetto si apre, infine torna con un bicchiere per gli spazzolini pieno d’acqua. Lo tende a Sokal, ma non appena mi alzo e allungo una mano, me lo passa.

«Grazie» gli dico. Sokal grugnisce.

Sostenendo Crew, gli metto a forza il bicchiere tra le mani. Lui butta giù qualche sorso che sembra aiutarlo a riprendere un po’ di controllo sul suo corpo.

Altro grugnito di Sokal. «Okay, ora. Voi stare, lei, suo amico. Tutti stare. Io ora andare, presto presto venire.»

Se ne va chiudendo la porta. Junior rimane con noi, voltando le spalle alla porta.

La stanza è grande, ma con pochi mobili. Solo il letto e un comodino per parte. Oltre, naturalmente, l’obbligatoria TV al plasma con schermo panoramico. Junior trova il telecomando e mette un talent show cambogiano. Dev’essere una camera per gli ospiti, mai usata.

Junior è ipnotizzato dalla trasmissione dove appaiono diversi adolescenti che cantano davanti a un pubblico in studio scelto a caso tra un centinaio dei loro amici più intimi. Crew ora è tranquillo e se ne sta raggomitolato sul letto dove è disteso. Regge ancora il bicchiere. Lo aiuto a bere sussurrando: «Dobbiamo indurre quel tipo a venire in bagno con te. Fai finta di avere la nausea, okay?».

Crew mi lancia un’occhiata con un lamento un po’ più sonoro. Mi alzo, gli metto un braccio attorno alla spalla e comincio a tirarlo su. Subito Junior, allarmato, gli dice bruscamente qualcosa in khmer. Indico Crew con un dito, cercando di apparire samaritano: il mio amico ha la nausea. Junior sembra dubbioso, ma le deliziose pollastrelle del talent show catturano la sua attenzione. Non cerca di fermarmi, mentre trascino nel bagno Crew appoggiato alla mia spalla.

Una volta dentro, lo faccio appoggiare contro il lavandino. Lui si abbandona sul piano in marmo e si tiene su con le braccia. Vicino al lavabo ci sono due bottiglie di plastica a pressione, una piena di una sostanza appiccicosa verde, l’altra di una qualche robaccia beige. Schizzo un paio di getti nel lavandino sotto il naso di Crew. «Come va?» sussurro.

«Non troppo male.» Fa una smorfia. «Non troppo bene. Riposo un po’ e poi sarò a posto. Ma cosa facciamo adesso, Burl? Ci uccideranno!»

Junior appare alla porta. Ha avuto tempo di pensare e ha deciso che proprio non approva la nostra presenza nel bagno. Mi prende per il braccio e mi trascina fuori. «Fingi di stare male!» borbotto a Crew.

Crew imita un conato di vomito nel lavandino. Junior vede la poltiglia verde e beige e ha una reazione a scoppio ritardato. Lo vedo pensare: magari Sokal se la prende con me, se questo tizio sta male sul serio, che ingiustizia! Mollata la presa su di me, si avvicina a Crew. Mentre lo tiene per le spalle cercando di capire la gravità della situazione, scivolo fuori in silenzio attraverso la camera da letto.

Sto per lanciarmi di corsa in punta di piedi lungo il corridoio, quando sento un ruggito alle mie spalle e vengo abbrancato da dietro da un frigorifero arrabbiato.

«Lei cattivo» dice Sokal. «Lei per niente buono. Non buono! Cattivo!» E avendo esaurito i modi di esprimere il suo pensiero, mi schiaffeggia sulla guancia.

Non uno schiaffo cattivo, giusto uno schiaffo. Uno schiaffo con il palmo aperto non è un’aggressione, è un insulto: tu, che io schiaffeggio, per il fatto che io ti schiaffeggio, sei un bambino, una donna spregevole, non un uomo degno di un vero colpo. Se fossi un cambogiano, probabilmente, avvertirei l’insulto, ma non lo sono e semplicemente ringrazio gli Dei delle Diversità Culturali che lo Schiaffo Umiliante sia l’arma scelta oggi da Sokal.

Mi tiene seduto per terra con le mani sulla testa. Crew, disteso sul letto, cerca di non dare nell’occhio. Non è stato incolpato per il mio tentativo di evasione, né qualcuno ha pensato di controllare la poltiglia nel lavandino. Cerco di assumere un’aria contrita, gli occhi chini, evitando lo sguardo di Sokal. Uno schiaffo gli basta. E poi, è difficile schiaffeggiare in faccia qualcuno accovacciato a terra che guarda in giù, mentre stai in piedi sopra di lui. Vedo il pensiero di mollarmi un calcio passare per la sua testa e manifestarsi con un tremito nello stivale destro, finché non lo ricaccia indietro con un lieve sospiro di rimpianto. Qualcuno gli ha detto di non fare danni, non ancora.

Junior è nell’angolo. Anche lui ha avuto il trattamento con il ceffone. Sokal l’ha colpito più forte, e per lui la prospettiva culturale deve aver contato. Lo vedo con la coda dell’occhio, accigliato. Penso che aspetti solo che Sokal se ne vada, per avermi tutto per sé.

Il cellulare di Sokal squilla. Segue una conversazione in monosillabi khmer che, per quanto riesco a capire, è sulla falsariga di: «Sì, sono io. Che cosa? Tu che cosa? Ma non possono! Ma io non posso! Giusto, sì, ba-ba-ba, ok-ok-ok.» Sokal mette via il cellulare e mi fissa con uno sguardo malevolo. «Tu fare problema, io buum-buum te!»

Nel dialetto locale, buum-buum non ha niente a che vedere con le pistole.

«Presto tu incontrare capo. Stare tranquillo-tranquillo, incontrare capo.» Il vezzo di Sokal di raddoppiare le parole comincia a perdere il suo fascino.

Nel corridoio si sente un rumore. Sembra ci sia parecchia gente. Sokal apre la porta. Ride e si volta verso di me: «Amico-tuo-venire! Amico stupido!».

Sokal dà un ordine a qualcuno nel corridoio e il visitatore numero uno entra incespicando, ovviamente spinto da dietro. Premuroso, Sokal allunga uno stivale, e Red inciampa cadendo a faccia in giù sul bel tappeto morbido. Indossa ancora l’elegante uniforme nuova che gli abbiamo comprato come sorvegliante del Civilisation. Vorrebbe rialzarsi, ma Sokal lo spinge ancora con lo stivale, facendogli capire che deve restare seduto. «Stupido amico» dice. «Altri venire. Aspettare.»

Se Red è stato una sorpresa, le altre due persone sono un vero e proprio choc. Una è piccola, con capelli neri e ricci, rossetto lucido, ombretto viola e un vestitino rosso sexy, l’altra è molto alta, con una camicetta di organza dall’enorme gala su sudici blue-jeans, il tutto messo in risalto da un profluvio di vivide perline cremisi, verdi e gialle, oltre a una borsa in lamè dorato attaccata a una lunga catenella sulla spalla destra.

Red, Dracula e Annie ricevono l’ordine di sedersi sul pavimento con le spalle al muro. «Amici stupidi! Proprio amici stupidi!»

L’ultima ad apparire è Champei. Sembra spaventata, ma quando mi vede accucciato sul pavimento vicino al letto, si precipita e si butta giù accanto a me. «Oh, capo, capo, noi non sapere dove andare, noi così paura, noi seguire, noi venire, tu okay, non ferito?» E poi scoppia in lacrime. La prendo fra le braccia e le poggio la testa sulla mia spalla, accarezzandole i lucenti capelli neri e facendola calmare. Lei non oppone resistenza.

Sokal manda via l’autista con Porky e chiude la porta, quindi vi appoggia la schiena e sorride di nuovo. «Okay, voi stupidi, voi aspettare adesso. Non molto. Niente parlare-parlare, non muoversi. Tu!» dice, intendendo me. «Tu mano su testa, okay? Tu cattivo, tu niente buono!»

Loro sono in due, Sokal e Junior, noi in sei. Li schiacciamo per numero.

Red pratica kick boxe, anche se forse non sarà il migliore a Phnom Penh. Sokal probabilmente lo è. Tolto Red, il livello del gruppo precipita, i due ladyboys probabilmente più che inutili, ma ci siamo pur sempre Red, Crew e io. Ad ogni modo, come ha fatto Champei a scoprire dove ci hanno portato? E come sono arrivati qui così in fretta? Non importa. Le domande dopo. Ora devo rendere operative le nostre forze senza parlare-parlare, per dirla alla Sokal.

Crew è ancora disteso sul letto. Mi volto a guardarlo, come preoccupato per la sua salute. Sokal non obietta. Come carceriere, è trascurato quanto Junior. Crew si è ripreso. Disteso sulla schiena, guarda il soffitto. Voglio che guardi me. Riesco a dargli un colpetto con il gomito. Mi guarda. Guardo Sokal alla porta. Spero che Crew capisca. Affronteremo Sokal. Lui annuisce lentamente. Poi rivolge gli occhi verso Junior dall’altra parte della stanza e inarca le sopracciglia. Cosa ne facciamo di quello? Annuisco, come a dire, non preoccuparti, ho pensato a entrambi.

Red siede a gambe incrociate sul pavimento vicino alla porta del bagno, la schiena contro il muro, con Dracula e Annie da una parte e Junior di guardia dall’altra. Red non mi sta guardando. Tossisco per attirare la sua attenzione. Ancora non mi guarda. Tossisco più forte.

Ora ho la sua attenzione, ma anche quella di Sokal. «Tu, chiudi becco!» mi fa.

Ora che Sokal mi sta parlando, ho l’attenzione di tutti. Riesco a incrociare lo sguardo di Red. Concedo a Sokal mezzo minuto per perdere interesse, quindi sposto gli occhi ripetutamente da Red a Junior. Red fa un impercettibile cenno di assenso.

Poi rompo la regola niente parlare-parlare. Bisbiglio a Champei che se ne sta ancora accucciata contro la mia spalla, tirando un po’ su col naso: «Vai in bagno! Digli che devi andare in bagno! Dai modo a Red di cominciare una lotta!»

Lei alza la mano come una ragazzina a scuola. In un khmer molto rispettoso chiede il permesso, prego, signore, di andare a fare pipì. Sokal appare per un istante dubbioso per un momento, ma è chiaro che una semplice donna non può essere un problema. Fa segno con la testa verso la porta del bagno: in fretta. Non si muove, però, dalla porta.

Champei si alza e va verso il bagno. Cammina adagio, le spalle ingobbite, una ragazza con un urgente bisogno di svuotare la vescica. Inciampa sul piede proteso di Annie e cade. Lancia un grido, si drizza a sedere e si massaggia la caviglia. Una ragazza dolorante. Una scena così melensa che rabbrividisco. Ma la mamma di Junior ha insegnato al figliolo a comportarsi sempre da gentiluomo con le signore.

Tende la mano per aiutarla ad alzarsi.

Lei la morde.