Maurice si tratta bene. Siamo all’esterno di una villa coloniale francese. Oltre uno schermo di foglie, si scorgono muri intonacati di giallo con grandi persiane, sormontati da un tetto di sbiadite tegole arancioni. Non sono molti gli edifici del genere al giorno d’oggi: i cambogiani preferiscono lo stile thai tropicale moderno, ispirato a Legoland e a Disney World.
Vicino al cancello c’è una piccola garitta bianca sotto un vecchio albero di frangipani dai rami contorti e nodosi come le dita di Donnelly. Mi avvicino, seguito da Donnelly, seguito da Smiff. Un sorvegliante con una pesante uniforme blu e spessi scarponi di cuoio siede all’interno su uno sgabello. Sembra accaldato e di cattivo umore. È come con i poliziotti, se portano sandaletti di gomma e una vecchia maglietta sporca è molto più facile andare d’accordo. Il sorvegliante, intento a leggere un giornale aperto sul tavolo di fronte, lo spinge da parte a malincuore e ci chiede i nostri nomi. Li scrive con cura in un libro, solleva la cornetta del citofono e parla con qualcuno dentro la casa che gli dice di farci aspettare. Aspettiamo. Qualcuno gli dice di confermare i nostri nomi. Il signor Ives, il signor Donnelly e il signor Smith. Segue un’altra lunga attesa. Donnelly guarda incuriosito una zona della città dove capita di rado, mentre Smiff si mordicchia le punte commestibili delle dita simili a rape. Infine, ci sentiamo dire: «La signora vi aspetta». La signora? Quella non è una signora, quello è il folle Maurice.
Il sorvegliante ci apre il cancello, rivelando una Mercedes bianca nel vialetto. Più in là, sulla sinistra, la ghiaia segue il muro della proprietà vicina, costeggiata da alberi simili ai fronzuti alberi della cuccagna. Sulla destra, un prato accuratamente rasato con una piscina nel centro, colma di un’acqua del colore del cielo. Un giardiniere spinge una carriola piena di rifiuti del giardino attorno all’angolo più lontano della casa. Non si accorge di noi.
Avanziamo in fila sulla ghiaia scricchiolante, oltre la Mercedes («Non toccarla, Smiffy!») fino alla porta d’ingresso. Una giovane donna sta sulla soglia, sotto un rampicante dai fiori rossi. Il viso ovale, incorniciato da lunghi capelli neri, ha zigomi alti, senza per questo essere veramente asiatico. Al nostro arrivo, tende la mano, fresca e tranquilla, in apparenza, nonostante il caldo.
«Sono April» dice. «Chi di voi è il signor Donnelly?» C’è una traccia europea nell’accento.
Donnelly si presenta, lei annuisce pensosa. «Prego, togliete le scarpe ed entrate.» Le parole amichevoli sono smentite da un tono neutro quasi ostile.
Tolte le scarpe, le lasciamo sulla porta e seguiamo April. «Senti,» dico sussurrando a Donnelly «noi non vogliamo guai di nessun genere, d’accordo?»
Donnelly è stupefatto. Lui, dei guai? Scuote la testa energicamente. «No, amico, io no di certo. Io non vado mai in cerca di guai!»
Ci ritroviamo in un ingresso rettangolare, ammobiliato con due sedie cinesi per il culto degli antenati, ma April non ci invita a prendervi posto. Tra l’una e l’altra, un tavolo da anticamera in legno scuro lucidato a cera, sotto il ritratto di un qualche burocrate cinese da lungo tempo defunto. Sul piano, tra vasi di orchidee, una ciotola di porcellana cinese verde-grigia piena di frutti tropicali. Nel complesso, è evidente che Maurice ha gusti costosi.
Smiff, dal canto suo, vuole un assaggio, così prende un rambutan e addenta la rossa scorza pelosa. «Mettilo giù, Smiffy!»
Mi guarda sbalordito.
April gli lancia la stessa occhiata che rivolgerebbe a un pechinese che facesse pipì su un tappeto di Aubusson. «Glielo lasci» concede.
Smiff pela il frutto con i denti, si guarda intorno e, non vedendo dove buttare le bucce, le tende ad April, che le prende con tutta la grazia possibile.
«Aspettate, prego» ci dice, e sparisce nell’ombra dell’interno.
Aspettiamo. Non ci ha invitato a sederci, quindi stiamo in piedi. Donnelly non sa che fare delle mani che intreccia dietro la schiena, poi davanti, prima di metterne una in tasca e l’altra sul mento, accontentandosi infine di tenere le braccia conserte. Intanto si guarda intorno per la stanza, palesemente intimidito. «Merda» bisbiglia. «Voglio dire, merda! Maurice non se la passa affatto male, eh?»
Nulla può intimidire Smiff. Dal tavolo, prende una statuina in bronzo di un re-dio khmer messa vicino alla ciotola di frutta e se la rigira tra le dita. Donnelly gliela strappa, la posa, arretra per giudicare l’effetto e la sistema in quello che, secondo lui, è il punto esatto in cui si trovava. La ragazza, ricomparsa, gli lancia un’occhiata come se lo sospettasse capace di intascarsela. Donnelly dà ostentatamente un buffetto sulla testa della statuina. «Roba carina qui, eh?» osserva in modo insinuante.
April risponde con un cenno brusco, quello che la moglie di un senatore romano avrebbe potuto rivolgere a un barbaro interessato all’argenteria di famiglia, quindi si volta, dicendomi: «Seguitemi».
Entriamo in una vasta sala. Divani dagli eleganti cuscini circondano costosi tavoli cinesi intagliati e, in un angolo, un aggraziato torso di donna in pietra arenaria è discretamente illuminato dai faretti. Un enorme arazzo di seta, di cui riconosco la provenienza tibetana, decora una parete vicino a una scala. Ne ho visto uno simile una volta in un negozio di antiquariato a Bangkok, con un cartellino a cinque cifre. Sotto, una composizione con un uccello del paradiso vicino a una televisione piatta. Contro un muro, alcune librerie, una comoda sedia da lettura, una lampada a stelo vecchio stile con un paralume ornato di frange. Un grande stipo a vetri contro un’altra parete ospita una collezione di porcellane cinesi. Diversi dipinti astratti sui muri conferiscono una nota moderna.
April non ci incoraggia a esaminare l’arredamento, e ci conduce al piano superiore; io a chiudere la fila, Smiff e poi Donnelly in testa, né l’uno né l’altro minimamente interessati alle curve strette nell’abito attillato della nostra guida.
Ci ritroviamo in un ufficio dotato di una scrivania con l’avvolgibile e di un’antiquata sedia girevole davanti alla finestra. Un’ampia arcata dà accesso a una grande camera con un elaborato letto cinese nel centro. Tutto è antico, salvo un tavolino in un angolo con un piano ricavato da un albero tropicale, abbastanza grande da fornire Hong Kong di bacchette per un anno intero. Aperte nonostante il caldo, le portefinestre lasciano vedere un balcone e mobiletti con morbidi cuscini foderati di batik affacciati sul vialetto e la piscina. Sopra il ronzio dell’aria condizionata, sento gli uccelli sugli alberi.
April ci dice di aspettare lì, si avvicina a una porta chiusa dall’altro lato e bussa. «Sono arrivati» avverte, e apre senza aspettare risposta, dopo di che si fa da parte e ci indica di avvicinarci con un cenno della testa. Attraversiamo la stanza in punta di piedi.
Il bagno è grande quasi quanto la camera da letto. I bagni della maggior parte delle persone sono un disastro, ma questo è impeccabile, con gli oggetti da toilette ordinatamente disposti vicino allo specchio, gli asciugamani impilati, una lampada a olio profumata accesa su un davanzale. La finestra è aperta, e fuori minuscoli uccelli guizzano tra i rami di un mango. Vicino alla lampada a olio si trovano uno specchio e una ciotola di cristallo con una polvere bianca e una lametta da barba. L’Eden, dopo che il serpente vi si è trasferito.
Il serpente è a casa. La vasca è piena di una candida schiuma; sopra la schiuma galeggia una fasciatura bianca con un po’ di sangue essiccato; e tra la schiuma e la fasciatura si trova Maurice.
Di solito, un uomo nudo si troverebbe in svantaggio davanti ad altri tre completamente vestiti che conosce appena. Maurice, evidentemente, non la vede così. Ha il cranio calvo come un monaco buddhista, ma non per motivi religiosi, e un sigaro piantato in bocca. Muto, ci fissa con due occhi da sogliola, ma molto più malevoli.
Già sopraffatto dalla casa, Donnelly ora è del tutto confuso alla vista di Maurice nudo nella schiuma. Perfino Smiff sembra avere perso la consueta disinvoltura. Se ne stanno fianco a fianco sulla soglia, le mani sui genitali, mentre io mi tengo indietro. Posso avvertire la presenza di April che, alle mie spalle, osserva.
Vicino alla vasca, un fantasioso tavolino di servizio in legno nero, probabilmente indiano, sorretto da un groviglio di gambe scolpite terminanti in quattro zampe di ottone con gli artigli, poggia su un vasto telo da pavimento interamente zuppo, reggendo quei pochi oggetti necessari a un uomo che si rilassa a mollo: un portacenere, un morbido e spesso asciugamano bianco, un romanzo tascabile e una bottiglia di whisky.
Maurice fissa Donnelly con uno sguardo penetrante. Nessuno dice una parola. Infine, Maurice toglie il sigaro di bocca e lo posa con cura sul portacenere. La voce, quando parla, è calma e sorprendentemente chiara, considerando il livello del whisky nella bottiglia.
«E allora, cosa fate qui?»
Il pomo d’Adamo di Donnelly sussulta. È in procinto di parlare, ma Smiff lo batte sul tempo. «Buongiorno» esordisce. «Come va?»
Maurice sposta lo sguardo da Donnelly a Smiff. Lentamente, una mano coperta di bolle emerge dall’acqua, la schiuma scorre in rivoletti tra i fitti peli dell’avambraccio. Maurice la porta al cranio, accarezza la medicazione, quindi prende il sigaro, aspira a fondo e soffia il fumo. Esamina lo sbuffo e, poi, esamina Smiff. Ho l’impressione che non riesca a vedere una grande differenza. «Bene» dice infine. «Tutto sommato.»
«Mi fa piacere!» esclama Donnelly. C’è speranza nella sua voce: vede aprirsi una strada. «Splendido! Voglio dire, voglio dire, noi, noi volevamo solo venire a dirti quanto siamo, voglio dire, quanto io sia veramente dispiaciuto per ieri sera, veramente. Le cose sono sfuggite un po’ di mano. Ma ad ogni modo tu stai bene, splendido quindi, veramente. Veramente, tu stai bene?»
Maurice si volta adagio a guardarlo. Posa il sigaro. Sul tavolino c’è un bicchiere, ma sembra che non l’abbia usato. Prende la bottiglia, butta giù un lungo sorso e la posa. «E dunque?»
«E dunque, bene, noi, ecco, noi siamo venuti a vedere come te la passi, voglio dire, se è tutto a posto.»
Segue una lunga pausa in cui Maurice guarda Donnelly come se fosse una sorta di sgabello, e Donnelly sta su un piede nudo, tenendo l’altro appoggiato nell’incavo del ginocchio.
«Io sono a posto,» grugnisce Maurice. «Non grazie a voi.»
Donnelly è sollevato. «Già, bene, ci tenevo proprio a scusarmi. Veramente. No, voglio dire, sono veramente dispiaciuto per tutto quello che sai. Solo, ecco, volevo scusami e domandarti se...»
Maurice non parla né batte ciglio, e la voce di Donnelly si prosciuga lentamente. Fuori, sull’albero, gli uccelli incalzanti cinguettano, e dentro sento il silenzio vibrare per la tensione.
Infine Maurice emette un grugnito sdegnoso, si volta a cercare la bottiglia e beve un’altra, lunga sorsata. Questa volta non posa la bottiglia. «Se cosa?»
«Voglio dire, ecco, se non c’è nessun rancore, ecco.»
«Nessun rancore» dice lentamente Maurice.
Difficile capire se sta dicendo che non ha alcun rancore o sta solo ripetendo le parole di Donnelly, ma l’inveterato ottimismo di Donnelly prende il centro della scena.
«Eh, beh, splendido. Voglio dire, splendido! Voglio dire, noi siamo tutti dispiaciuti, veramente...»
«Anche il Neanderthal?» Maurice guarda Smiff.
Donnelly non sembra accorgersene e continua a blaterare. «E anche Foggy, anche lui è dispiaciuto, voglio dire, so che lo è!»
«Lascia perdere Foggy» dice Maurice agitando la bottiglia.
«Ehi, amico, è veramente fantastico!» Donnelly si volta verso Smiff e me. «Nessun rancore, eh? Non avevo detto che Maurice è un uomo che non ne serba mai? Non l’avevo detto?»
Smiff annuisce vigorosamente, gli occhi puntati sulla bottiglia in mano a Maurice.
D’improvviso, Maurice mi nota dietro la massa di Smiff, si appoggia all’indietro nella vasca e sbuffa. «Burl! Che cosa ci fai qui con questi clown?»
«Tengo d’occhio la situazione» rispondo. «Mi assicuro che non succeda qualche guaio.»
«Guaio?» Donnelly è incredulo, si volta verso di me e scrolla la testa. «No, amico, nessun guaio. Non hai sentito che Maurice vuole far uscire Foggy di prigione? Non gliel’hai sentito dire?»
«Macché» fa Smiff.
Donnelly s’immobilizza e fissa Smiff a bocca spalancata. Il capitano del Titanic poco prima dell’impatto con l’iceberg non deve essere stato più sbalordito. Un intero mezzo secondo passa prima che recuperi la voce: «No? No? Ma... L’ha detto! L’ha detto...». Donnelly si volta verso Maurice: «L’hai detto!».
Maurice beve un’altra sorsata. «No» risponde distintamente e si asciuga la bocca con il dorso di una pelosa mano insaponata. «Il Neanderthal ha ragione. Non l’ho mai detto.»
Donnelly si gira verso di me e ancora verso di lui. «Ma...»
«Balle!» ruggisce Maurice d’improvviso. «Può marcire a Prey Sar! E se non uscite di qui in cinque secondi potete andare a raggiungerlo! Tutti quanti! Perché io ho il più grosso fottuto cazzo nella stanza!»
Dopo di che, comincia ad alzarsi. Masse di schiuma si riversano lungo il suo grasso corpo bianco, come un verme che si fa lo shampoo, le acque della vasca tremano e uno tsunami si rovescia sulle mattonelle, ed ecco Maurice davanti a noi in tutta la sua nuda gloria, la bottiglia di whisky stretta in mano, le ginocchia piegate per mantenere l’equilibrio, mentre oscilla delicatamente sui piedi instabili. «Il più grosso fottuto cazzo!» ripete. «E quel figlio di puttana può tirare le cuoia nella fottuta Prey Sar! Ora andate a farvi fottere! Via, muovete il culo, fuori da casa mia!»
Si china, si afferra al bordo con una mano e comincia a uscire, tenendo stretta la bottiglia nell’altra. Si muove con prudenza perché è ubriaco, ma anche da sobri non è il caso di muoversi troppo in fretta su una superficie scivolosa se si è fradici e saponosi. Orrendamente affascinato, guardo prima un grasso piede roseo e poi l’altro piombare sul telo bagnato di fianco alla vasca. Maurice alza la testa e ci lancia un’occhiata di puro, assoluto odio. Poi fa qualcosa che non mi aspetto: si accuccia a quattro zampe, posa con cautela la bottiglia sul pavimento di fianco a lui e comincia a frugare tra le pieghe dell’asciugamano sul tavolo. Gli occhi fissi su di noi, si muove così piano che sembra nuotare nella melassa. Con un piccolo grugnito di soddisfazione, la sua presa si stringe intorno a qualcosa dentro le pieghe, e la mano esce impugnando una piccola pistola maligna dal muso rincagnato.
Ansimando rumorosamente, comincia ad alzarsi adagio, la pistola penzolante nella destra. Prendo per un braccio Donnelly e Smiff e li caccio fuori dal bagno.
April è ancora in camera da letto. Sembra aspettarci, perché indica le scale: «Andate! Presto!».
Instrado Smiffy e Donnelly attraverso l’ufficio davanti a me. Sento Maurice urlare, dire a qualcuno di togliersi di mezzo, poi uno schianto e un’imprecazione come se fosse inciampato su qualcosa, ma non mi fermo a guardare mentre scendiamo di volata le scale.
Irrompiamo nel portico e ci fermiamo a recuperare le scarpe. Smiff vuole fermarsi a mettere le sue, ma Donnelly e io l’afferriamo e lo spingiamo di corsa per il vialetto. Il sorvegliante apre il cancello quando arriviamo a metà strada, seguiti da un urlo di rabbia. Mi fermo, mi volto. Maurice è apparso sulla porta, ancora nudo, ancora insaponato, ancora armato. Con un altro ruggito, punta la pistola contro noi tre, anche se probabilmente ne vede sei.
April appare sul balcone della camera da letto. «Non preoccupatevi per me, correte» grida. «Lui ha la pistola, ma io ho i proiettili! Filate!»
Maurice si ferma, alza gli occhi verso di lei, ci guarda di nuovo con aria perplessa, punta la pistola al cielo e tira il grilletto. Click. Con un’imprecazione soffocata, si volta verso casa.
Mentre scompare all’interno, ci ammucchiamo nel tuk-tuk di Poung già in moto. «Vedo Maurice» dice Poung. «Lui pistola, niente vestiti. Voi guai?»
«Guai?» gli fa eco Donnelly. Posate le scarpe sul sedile, si massaggia i piedi nudi, doloranti per la corsa sulla ghiaia. «Non io, amico. Io mai niente guai.»