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Qualcuno bussa alla porta della mia cella. «Avanti» rispondo. «Non è chiusa a chiave.»

La porta si apre. «Ehi, Burl, come stare stamattina?»

È Pov, il capitano della polizia, indistruttibilmente allegro fin da quando l’ho conosciuto, ieri sera tardi o stamattina molto presto, di fianco al letto di Maurice. Agita la mano. «Lei venire, qualcuno volere vedere, qualcuno di importante. Pettinare capelli, okay?» Il capitano sorride del suo piccolo scherzo.

Lo seguo lungo il corridoio con i cartelli che ricordano agli agenti di appendere ordinatamente i manganelli ai chiodi previsti e lasciare in ordine la sala da tè quando hanno finito gli interrogatori. Saliamo quindi in ascensore al piano di sopra, dove c’è un tappeto (esile), una sedia per i visitatori (ancora più esile) e una segretaria (esilissima) che si dipinge le unghie. Tra le ragazze cambogiane vige la moda delle unghie decorate con complicati disegni, ogni ditino una piccola opera d’arte, così passano ore a curarle con amore. Sollecitata da Pov, la segretaria si distoglie a malincuore dai suoi artigli e schiaccia un bottone nell’interfono, dove dice qualcosa in khmer, quindi annuisce a Pov che annuisce a me. «Okay, prego, venire.»

L’ufficio è di quelli che appaiono nudi qualunque cosa ci mettiate dentro. Un tavolino nel centro, circondato da quattro sedie; una palma in vaso con un disperato bisogno d’acqua, una libreria con svariate pratiche contro un muro, fronteggiato da una parete con una finestra; di fianco, una grande scrivania con un telefono, una ciotola di caramelle, una comoda sedia in cuoio dietro e due sedie di plastica davanti; ai pioli di un attaccapanni, una giacca e un cappello di una divisa, con così tanti galloni da provocare una corsa all’oro.

Le fotografie del re e dei genitori del re, in cornici dorate, si accompagnano sul muro alle spalle della scrivania a una collezione di diplomi e a una grande foto di Tiger Woods, in piedi di fianco a un khmer dall’aria gagliarda, munito come lui di una scintillante mazza dorata da golf. Accanto a loro, un uomo in uniforme voltato di schiena guarda fuori dalla finestra verso la cima di un albero. A un educato colpo di tosse di Pov, l’uomo si gira, rivelando un paio di occhiali dalla montatura dorata e una pancia considerevole, quasi avesse inghiottito un paio di massi per colazione. I suoi stivali scintillano, scintilla la fibbia della cintura, ma non la sua faccia. Squadrato, compatto, con due occhi piccoli e neri, è lo stesso uomo della fotografia. No, non Tiger Woods. L’altro, il khmer. Con un cenno indica le sedie di plastica e torna a contemplare l’albero.

C’è polizia e polizia. C’è la polizia per l’immigrazione, che spreme i turisti all’aeroporto perché hanno tentato di ottenere un visto senza una fotografia valida; c’è la polizia addetta al traffico che li spreme in città perché viaggiano in moto senza una patente valida e c’è la polizia per il turismo, che li spreme nei loro alberghi perché hanno portato le ragazze in stanza senza un valido certificato di nascita. Il tutto il primo giorno in città. I benefattori internazionali pagano considerevoli somme in denaro per progetti volti a migliorare la qualità della polizia cambogiana, ben consapevoli di come la creazione di una società prospera e democratica poggi sull’applicazione della legge. Soprattutto, i donatori ci tengono a fornire la polizia di computer. Nelle campagne, ci sono forze di polizia che usano i computer ricevuti per reggere la tazza del tè (su quel piccolo, comodo aggeggio rotondo che esce fuori quando premi quel bottone); forze di polizia cittadine li usano per guardare le partite di calcio; forze di polizia di frontiera li usano per gestire casinò e bordelli, mentre le forze di polizia di Phnom Penh, erudite in materia di fogli di lavoro e PowerPoint, tengono conferenze e presentazioni a Ginevra e a New York, spiegando ai benefattori internazionali le buone cose che hanno fatto con i loro soldi. Questo poliziotto rientra da qualche parte nello schema, ma non so ancora dove.

Il capitano Pov batte la mano sullo schienale di una sedia. «Sedere, prego» mi invita con garbo.

Mi siedo. L’atteggiamento che voglio assumere è di dignitosa compostezza. So che ho la barba lunga, i capelli dritti, gli abiti stazzonati e l’alito cattivo, ma la dignità è qualcosa per cui vale la pena di lottare. Pov rimane in piedi, le mani dietro la schiena, in un atteggiamento tranquillo, rilassato, ma non troppo. La sua uniforme è impeccabile, il suo alito profumato di dentifricio alla menta. L’ufficiale superiore si gira a controllare che le cose procedano come previsto e annuisce. Pov avvicina l’altra sedia e il superiore ritorna a qualunque tipo di pensiero l’affliggesse riguardo all’albero.

Pov mi guarda, si schiarisce la gola. «Signor Burl» mi dice. «Veramente molto spiacente di tenerla qui. Ma noi avere problema. Lei trovato Maurice ieri sera.»

«Questo è vero, l’ho trovato. E poi ho chiamato Leo, e Leo ha chiamato voi. Sono stato collaborativo. Quindi perché mi trattenete? Pensate che sia stato io?»

Il capitano Pov sembra addolorato. «Io non pensare, signor Burl. Io avere ordine, tenere voi qui. Noi...»

Il poliziotto alla finestra si volta e alza una mano: «Grazie, Pov».

Abbandonata la finestra, si avvicina alla scrivania e si lascia cadere sulla sedia di cuoio, quindi apre un cassetto, tira fuori una pratica e la mette di fianco alla ciotola di caramelle. La apre. In cima, vedo il mio passaporto. So come è arrivato qui. Pov ieri sera è andato al Civilisation e l’ha portato via per tenerlo in custodia. Ora ha preso rigidamente posto sul bordo della sua sedia, in attesa. Il grosso orologio sulla porta dice che sono passate da poco le otto del mattino. Osservo la lancetta dei secondi avanzare a sbalzi, mentre il poliziotto, borioso, guarda le carte davanti a lui, cercando qualcosa che potrebbe avere trascurato.

Infine alza lo sguardo e mi fissa negli occhi. Non sorride. Il sorriso, all’Accademia di polizia, rientra in un corso facoltativo che lui ha evitato.

«Il capitano Pov rappresenta ciò che si potrebbe definire l’ufficio avanzato della polizia per gli stranieri. Io sono il capo. Colonnello di polizia Im Rong. Ho ascoltato tutti i suoi scherzi, si senta libero di sorridere, se crede.»

Il colonnello non sorride. Decido di trascurare l’invito.

«Non conosce la polizia per gli stranieri? No? Molto bene. Colmerò la lacuna.»

Per qualche motivo la mia mente, se per metà considera le parole del colonnello Rong, per l’altra metà studia le sue unghie. Il colonnello ha unghie pulitissime, tagliate corte, con grosse macchie di nicotina attorno ai polpastrelli della destra, per quanto non vi siano portacenere in vista. Quella metà della mia mente trova tutto ciò affascinante, mentre l’altra metà sta dicendo alla metà meno impegnata di chiudere il becco e fare attenzione all’ufficiale che, stabilisce la metà più frivola, parla un inglese britannico con un accento che puoi acquisire solo se i tuoi genitori hanno pagato una quantità di soldi perché tu possa fare amicizia con gli altri bambini delle classi alte, allenando la tua mente e guastando la tua personalità. Per qualche motivo, una quantità di australiani trova quel genere di inglese leggermente irritante, soprattutto quando è privata del sonno e tenuta in cella durante la notte senza alcuna ragione valida, sia pure con la porta aperta.

«La polizia per gli stranieri è una forza molto ridotta. Noi non ci occupiamo di risolvere i crimini» sta dicendo il colonnello. «Il nostro compito è di controllare i casi in cui sono coinvolti gli stranieri. Noi ci assicuriamo che i casi in questione vengano trattati in modo efficiente e con una procedura corretta. Lo facciamo perché vogliamo chiarire agli stranieri che la Cambogia è un paese dove viene applicata la legge. Mi capisce?»

La metà impegnata del mio cervello mi dice di annuire, quindi faccio un cenno convincente.

«Bene. Ora, noi dobbiamo considerarla come il nostro testimone principale. E, a essere franco, lei non può aiutarci granché. Noi non abbiamo ancora idea di chi sia l’assassino.»

Il demonio o forse l’inglese impeccabile del colonnello Rong mi fa aprire la bocca. «È sicuro che non sia stato un dentista folle venuto a esigere un conto delinquenziale?»

Mi pento subito.

Il colonnello mi fissa per tre lunghi secondi che conto in base agli spasmi della seconda lancetta nell’orologio sulla porta. Quando parla, ha un tono molto sostenuto. «Signor Ives, non ho dormito nelle ultime trentasei ore e sto cercando di smettere di fumare. E sono sicuro di non aver bisogno di ricordarle che ci stiamo occupando di una faccenda seria. Pensa che sia il momento di scherzare?»

Neanch’io ho dormito troppo bene, grazie a lui e a Pov. «Assolutamente no. Porgo le mie scuse a lei e al capitano Pov e all’intera industria dentaria cambogiana.»

Oh Cristo, da dove mi esce questa! Quando ho aperto bocca, non avevo nessuna intenzione di finire così.

Grazie al cielo, il colonnello decide di passarci sopra.

«Signor Ives, se è irritato perché l’abbiamo trattenuta qui così a lungo, mi permetta di esaminare i fatti. Un uomo è stato assassinato. Prima dell’omicidio, è stato aggredito da una persona che si trova ora nella prigione di Prey Sar.»

«Foggy? Pensa che Foggy abbia ucciso Maurice?»

Il colonnello alza una mano. «La prego, signor Ives. Perfino un poliziotto cambogiano può dirle che un uomo non evade da Prey Sar, commette un omicidio e poi torna in prigione a richiudersi in cella. Mi riconosca un po’ di intelligenza.»

«Allora, perché mi tiene qui?»

La voce del colonnello è bassa e controllata. «Mi permetta di ricordarle il corso degli avvenimenti. La vittima, a quanto pare, è stata assassinata ieri a mezzanotte. La sera prima, questa persona, il signor John Fogarty, ha aggredito il defunto nel suo locale. In quell’occasione, il signor Fogarty è stato arrestato e condotto a Prey Sar. La mattina dopo lei è andato a casa della vittima con altri due amici, di cui uno coinvolto nell’aggressione della sera precedente, anche se non con un ruolo attivo. Tra voi quattro c’è stata una discussione, durante la quale è comparsa un’arma da fuoco. Un’arma da fuoco illegale, aggiungerei. La discussione riguardava il signor Fogarty, o ruotava attorno a lui. Secondo quanto lei ci ha detto, voi avete chiesto alla vittima di ritirare la denuncia per aggressione contro il signor Fogarty, e la vittima si è rifiutata.»

«Sì, ma...»

Il capitano Pov tossisce, e il colonnello Rong mi lancia un’occhiata che fermerebbe il Niagara. Chiudo il becco.

«Nel pomeriggio» continua Rong, come se nulla fosse successo e io fossi il nulla, «lei ha fatto visita al signor Fogarty a Prey Sar, da solo. La sera ha fatto una seconda visita a casa della vittima, di nuovo solo, e ora noi troviamo quell’uomo ucciso.»

Ho bisogno di qualche istante per assimilare il tutto. Quando lo faccio, avverto una fredda sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco.

«Lei intende dire che io ho qualcosa a che vedere con tutto ciò? Ma è assurdo! Sono io quello che ha scoperto il corpo! Io vi ho informati!»

Il colonnello non perde un colpo. Prende un foglio dalla pratica e ne legge alcune parole. «Morte al bastardo.» Posa il foglio, congiunge le dita macchiate di nicotina al mento e mi guarda da sotto le folte sopracciglia. «Se ne ricorda, signor Ives? Queste sono le parole che il signor Fogarty le ha detto a Prey Sar ieri pomeriggio. Pronunciate davanti a due testimoni, uno dei quali è il vicedirettore della prigione.»

Il senso di vuoto è un gelido vento che soffia su e giù lungo la spina dorsale. Dev’essere uno scherzo! Rong sembra mortalmente serio. Guardo Pov che, però, evita il mio sguardo. Mi ricordo di Leo. «Non dovrei avere il mio avvocato con me, quando mi interrogate?»

Nella stanza scende il silenzio. Forse è la mia immaginazione, ma il capitano Pov è dispiaciuto per me. Infine, il colonnello chiede: «Lei ha un avvocato, signor Ives?».

Non riesco a dire nulla. Leo, come senza dubbio il colonnello sa, è specializzato in diritto commerciale, non penale. È lì che stanno i soldi.

Il colonnello Rong parla lentamente.

«Può darsi che lei voglia cercare assistenza legale, signor Ives. Lei, però, non è sotto interrogatorio. Non in questo momento.»

Il colonnello ha un dono per le affermazioni cariche di risonanze. Lascia questa in sospeso, guardandomi fisso. Conosco il fottuto trucco, non dici niente e ti tieni abbottonato, fino a che l’altro poveretto si prende una paura maledetta e sputa fuori qualcosa. Non rispondo nulla a questo suo nulla.

Dopo circa un minuto, Rong raggiunge una decisione e tira un profondo sospiro. «Signor Ives, lei aveva il movente e l’opportunità, e per di più si trovava sul luogo del delitto all’ora corrispondente.»

Fa una pausa e mi guarda negli occhi. Resto impassibile, aspettando che arrivi al punto, qualunque esso sia.

«In considerazione di questo, io dovrei consegnarla immediatamente alla polizia giudiziaria» continua lui. «Non dovrei parlare con lei, ma dovrei preparare invece una relazione per il magistrato, dicendo che lei ha assassinato quell’uomo per aiutare un amico. Ma l’istinto mi dice che lei non è il tipo. L’istinto mi dice che lei è un codardo, un narciso egocentrico che non muoverebbe un dito per aiutare chicchessia, a parte se stesso. No, non discuta. So di cosa sto parlando. Sono nato con l’istinto dello sbirro e ho anni di esperienza. Le dirò, quindi, che cosa faremo. Ora siamo a mercoledì mattina. Le concederò fino a domani sera per darmi un motivo per non scrivere quella relazione. No, non mi ringrazi, non lo faccio per lei, lo faccio perché lei potrebbe essere utile. E sa come?»

Scuoto la testa. In nessun modo voglio tirare a indovinare con il colonnello Rong.

«Glielo dirò. Ho bisogno di sapere chi odiava la vittima abbastanza da fare questo. È una faccenda tra stranieri. Lei ha i contatti, ne sa più di me o di Pov sulla comunità degli expat in città. Ed ecco la proposta: lei tiene gli occhi e le orecchie aperti e mi riferisce tutto quello che vede o sente su Maurice Costello, qualunque cosa possa condurci a qualcuno che abbia un movente per ucciderlo. In cambio, io oggi non scriverò quella relazione. D’accordo?»

Sono troppo sconvolto per fare altro che annuire.

«Bene. Il capitano Pov la terrà d’occhio fino a che la faccenda sarà conclusa. Intesi?»

Annuisco a malapena.

«Bene.»

Il colonnello chiude la pratica, si alza e va alla finestra, riprendendo la contemplazione dell’albero da dove l’aveva interrotta. «Bene» ripete alla pianta senza girarsi. «Il capitano Pov l’accompagnerà fuori. Se ha in mente di lasciare Phnom Penh, ci rinunci.»

Il capitano Pov mi porta al Civilisation in una Lexus con la scritta Polizia dappertutto. Questo darà a Mickey Mouse qualcosa su cui spettegolare. Champei corre a precipizio quando entro. «Capo!» grida e si ritrae. «Puah! Che odore!»

Dopo di che vengo circondato dalle ragazze che mi abbracciano gridando. Il locale è più affollato del solito per essere un mercoledì mattina: qualche cliente al banco, qualcuno ai tavoli. Per lo più li conosco. Dovendo tirare a indovinare, direi che hanno saputo di ieri sera e sono venuti qui per la curiosità di vedere se facevo ritorno. Rivolgo loro un sorriso.

Vedo Donnelly. Si alza dal tavolo dove siede, in fondo al locale e, come i più astuti pistoleri, mi viene incontro con la mano tesa.

«Felice di vederti tornare, amico!»

Mi stritola le dita e mi stringe in un virile abbraccio. Ho l’impressione che sia un po’ imbarazzato, come dovrebbe, considerando che nulla di tutto questo sarebbe successo, non fosse stato per lui. Lo vedo dallo sciocco sogghigno sul muso dell’aquila e dal modo in cui il drago finge di fischiettare con noncuranza, sebbene dalla sua bocca escano solo fumo e vapore.

«Come va?»

«Vieni di sopra e ti racconto» gli rispondo. Il drago e l’aquila si rilassano, Donnelly si apre in un ampio sorriso.

Rivolgo un cenno con la mano al bar e, salutato da un applauso generale, passo oltre il magazzino e la cucina, cominciando a salire verso l’attico, tallonato da Donnelly.